Verso un nuovo ruolo del PM civile in Cassazione?

Federico Sorrentino
20 Dicembre 2016

La novella del giudizio di Cassazione come introdotta dal d.l. n. 168/2016, conv. in l. n. 197/2016, offre lo spunto per una riflessione sul ruolo del pubblico ministero in Cassazione in generale nel settore civile a seguito delle modifiche apportate all'art. 375, secondo comma, c.p.c..

La novella del giudizio di cassazione come introdotta dal d.l. n. 168/2016, conv. in l. n. 197/2016, offre lo spunto per una riflessione sul ruolo del pubblico ministero in Cassazione in generale nel settore civile a seguito delle modifiche apportate all'art. 375, secondo comma, c.p.c..

Va notato che in materia è rimasta inalterata la disposizione originaria dell'ordinamento giudiziario (art. 76, primo comma, del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12) secondo la quale «Il pubblico ministero presso la Corte di cassazione interviene e conclude in tutte le udienze civili e penali e redige requisitorie scritte nei casi stabiliti dalla legge». Inoltre, anche dopo le modifiche apportate dall'art. 4 del d.lgs. n. 40/2006, di fondamentale rilievo è la previsione della richiesta del Procuratore generale presso la Corte di Cassazione di richiedere l'affermazione di un principio di diritto ai sensi dell'art. 363 c.p.c. per comprendere il particolare ruolo dello stesso, quale soggetto portatore dell'«interesse della legge, quale interesse pubblico o trascendente quello delle parti, all'affermazione di un principio di diritto per l'importanza di una sua formulazione espressa»(così Cass. Sez. Un. n. 23469/1016 in un caso in cui la richiesta del Proc. generale è stata accolta con l'affermazione del principio di diritto richiesto; si veda ancora l'immutato art. 73, primo comma, dell'ord giud. secondo cui «Il pubblico ministero veglia alla osservanza delle leggi, alla pronta e regolare amministrazione della giustizia, alla tutela dei diritti dello Stato…»).

Nell'ambito civile tuttavia si è assistito nel tempo ad una rimodulazione delle forme di intervento del pubblico ministero, in concomitanza con i cambiamenti via via apportati al giudizio di legittimità.

Fino alla creazione della sezione sesta civile della Corte ad opera della l. 18 giugno 2009, n. 69, l'intervento con requisitoria scritta per i casi di pronuncia in camera di consiglio ex art. 375 c.p.c. è stato, in un primo tempo, eventuale (su imput cioè della Corte, che infatti poteva procedere «su richiesta del pubblico ministero o d'ufficio»), anche se richiesto in un sempre maggior numero di casi. Invero le ipotesi erano, nell'originario testo dell'art. 375 c.p.c., quelle dell'inammissibilità del ricorso principale e di quello incidentale, del rigetto di entrambi per mancanza dei motivi previsti nell'articolo 360, dell'integrazione del contradittorio, o della notificazione di cui all'articolo 332, oppure dell'estinzione del processo per avvenuta rinuncia, fino a comprendere, con la riforma di cui all'art. 1 della legge 24 marzo 2001, n. 89, anche quelle (ben più pregnanti) di accoglimento o di rigetto del ricorso per manifesta fondatezza o infondatezza.

In un secondo tempo con l'introduzione della relazione da parte del giudice assegnatario del procedimento (all'epoca, nell'ambito della cd. Struttura) ad opera del d.lgs. n. 40/2006, l'intervento del p.m., rimasto facoltativo, ha inevitabilmente assunto un minor “peso” (anche nei confronti delle parti) proprio perché previsto a fronte di una ipotesi di decisione già formulata dal giudicante. A ben vedere, è sembrato che il legislatore delegato del 2006 abbia voluto assegnare al p.m. in tale procedura, almeno in astratto, un diverso ruolo, che è quello di semplice “controllo” (accanto a quello analogo spettante alle dirette parti interessate) della correttezza della ipotesi di decisione.

V'è da dire che il nuovo sistema, creato nel 2006 per far fronte allo smaltimento dell'enorme arretrato formatosi nel settore civile, ha comportato un'ampia concentrazione di procedimenti in camera di consiglio per essere decisi con ordinanze di inammissibilità ovvero di accoglimento o di rigetto del ricorso per manifesta fondatezza o infondatezza. Stante il numero dei procedimenti fissati in camera di consiglio a tale scopo (con le relazioni dei consiglieri assegnatari dei singoli procedimenti) la partecipazione attiva del pubblico ministero a tali adunanze e, di conseguenza, la decisività della sua funzione sono state via via (con le dovute eccezioni) inevitabilmente ridotte ad una funzione meramente formale. D'altro canto, l'impegno nella preparazione delle udienze (con conclusioni orali) è andato progressivamente ad aumentare con il contestuale diminuire (nelle udienze medesime) della presenza dei procedimenti più semplici (“filtrati” dalla Struttura).

Successivamente con la creazione della sesta sezione civile (ai sensi della legge 18 giugno 2009, n. 69) il fenomeno di una ridotta partecipazione del p.m. a tali adunanze camerali si è ulteriormente accentuato, fino a che con il d.l. 21 giugno 2013, n. 69, conv. in l. 9 agosto 2013, n. 98, la comunicazione dell'adunanza camerale con la relazione del consigliere assegnatario del procedimento è stata prevista solo nei confronti degli avvocati delle parti e non più nei confronti del pubblico ministero, così divenendo, quest'ultimo, estraneo a tutti i procedimenti camerali trattati da tale sezione (in ciò verificandosi, per la prima volta, una formale deroga rispetto alla generale previsione di cui al cit. art. 76 dell'ord. giud).

Da ultimo la l. n. 197/2016 (di conversione del d.l. n. 168/2016), da un lato ha reso obbligatoria (cioè a prescindere dalla valutazione di un possibile esito di inammissibilità o di accoglimento o rigetto del ricorso per manifesta fondatezza o infondatezza) la richiesta della requisitoria scritta del p.m. sulle istanze di regolamento di giurisdizione e di competenza (si veda il novellato art. 380-ter: «Nei casi previsti dall'articolo 375, primo comma, numero 4), il presidente richiede al pubblico ministero le sue conclusioni scritte»), dall'altro ha ribadito l'esclusione della comunicazione (ormai priva, però, della relazione) al p.m. dell'adunanza in camera di consiglio avanti alla sesta sezione civile (se è stata ravvisata una ipotesi di inammissibilità, di manifesta infondatezza o di manifesta fondatezza del ricorso), comunicazione prevista solo agli avvocati delle parti (con possibile esito di rimessione della causa all'udienza della sezione semplice). Si è già detto che, per la revocazione in Cassazione, la adunanza presso la sesta civile è invece limitata alla sola ipotesi di inammissibilità (art. 391-bis, comma 3, c.p.c.: «Sul ricorso per revocazione, anche per le ipotesi regolate dall'articolo 391-ter, la Corte pronuncia nell'osservanza delle disposizioni di cui all'articolo 380-bis, primo e secondo comma, se ritiene l'inammissibilità, altrimenti rinvia alla pubblica udienza della sezione semplice»).

Sulla fissazione del rito (in udienza o in camera di consiglio), il nuovo secondo comma dell'art. 375 c.p.c. rafforza in maniera decisiva il rapporto tra udienza e camera di consiglio in materia civile in favore del rito camerale (di tutti i procedimenti avanti alle sezioni semplici o alla sesta sezione civile), nel senso che, appunto, l'udienza diviene l'eccezione (ammessa in un ambito assai limitato) rispetto alla adunanza in camera di consiglio. Infatti, ferme restando le regole fissate per le sezioni unite civili, si prevede – accanto alle ipotesi ritenute più semplici di cui all'art. 375, primo comma, c.p.c. (rimasto invariato, a parte la elisione dei casi di cui al n. 2 e n. 3 affidati al decreto del presidente, di cui al nuovo terzo comma dell'art. 377 c.p.c.) - al secondo comma dell'art. 375 c.p.c. che «la Corte a sezione semplice pronuncia con ordinanza in camera di consiglio in ogni altro caso, salvo che la trattazione in pubblica udienza sia resa opportuna dalla particolare rilevanza della questione di diritto sulla quale deve pronunciare, ovvero il ricorso sia stato rimesso dalla apposita sezione di cui all'articolo 376 in esito alla camera di consiglio che non ha definito il giudizio»

La disciplina relativa al ruolo del p.m. nelle adunanze camerali rimane dunque nettamente distinta: a) per le ipotesi semplificate (affidate alla sesta sezione civile) il procuratore generale non riceve alcuna comunicazione della fissazione di tali procedimenti (potendo quindi venirne a conoscenza solo in caso in cui il procedimento sia rimesso all'udienza della sezione semplice); b) in tutti gli altri casi invece in cui non ricorrano ragioni di opportunità per la rimessione del procedimento in udienza (per la “particolare rilevanza della questione di diritto sulla quale deve pronunciare”) il nuovo art. 380-bis. 1 c.p.c. prevede la comunicazione della camera di consiglio anche al pubblico ministero che “può depositare in cancelleria le sue conclusioni scritte non oltre venti giorni prima dell'adunanza in camera di consiglio”.

In quest'ultimo caso (adunanze camerali sezionali ex art. 375, secondo comma, c.p.c.) il sistema è in sostanza quello dell'intervento facoltativo del p.m. già previsto a suo tempo dopo le modifiche apportate dal d.lgs. n. 40/2006 (fino alla sua abolizione ex cit. d.l. n. 69/2013, conv. in l. n. 98/2013) con l'importante differenza che ora il p.m. (come le parti) non avrà da valutare una relazione del giudice assegnatario, né è contemplata, almeno dal dato testuale della norma, la ipotesi di un possibile sbocco in pubblica udienza a seguito delle conclusioni del p.m. o delle memorie delle parti. Si tratta quindi di una radicale trasformazione del rito che diviene meramente cartolare (la camera di consiglio è espressamente prevista come non partecipata): in disparte dunque i casi in cui la Corte ravvisi l'opportunità della trattazione in udienza in relazione alla «particolare rilevanza della questione di diritto» (nel qual caso il p.m. esplica in pieno la propria funzione di apporto alla soluzione della questione nell'interesse della legge), in tutti gli altri casi, ritenuti dalla Corte privi di rilevanza in diritto, il procuratore generale potrà interloquire con la stessa Corte, se ritiene, solo con conclusioni scritte.

Alla luce delle osservazioni che precedono appare chiaro che, dopo gli insufficienti risultati ottenuti con la creazione della sezione “filtro” (la sesta sezione civile ex l. n. 69/2009) soprattutto, come è ovvio, con riferimento all'arretrato sezionale, la riforma – invariato l'art. 111 Cost. - appare mossa dall'esigenza di aggredire le rilevantissime pendenze civili in un modo più radicale, “sacrificando” cioè nel rito camerale/cartolare la funzione della Corte di terzo grado di giudizio (ius litigatoris). Lo snodo centrale della riforma tra udienza (cui è affidato lo ius constitutionis) e camera di consiglio (cui è affidato lo ius litigatoris) è dunque rappresentato dalla valutazione di opportunità sulla scelta del rito in relazione alla «particolare rilevanza della questione di diritto». È facile pensare che la efficacia della riforma dipenderà dai criteri di tale scelta che verranno adottati dalla Corte, sui quali pertanto è auspicabile la massima condivisione non solo all'interno della Corte e della Procura generale, ma anche e soprattutto con il foro (attraverso i più opportuni strumenti, dai convegni fino a Protocolli di massima).

È quindi chiaro che l'approccio del p.m. sui procedimenti fissati in camera di consiglio dipenderà necessariamente dagli orientamenti che verranno, a monte, adottati dalla Corte a sezione semplice (nella valutazione della rilevanza della questione).

Su questo punto appare opportuno riflettere sul fatto che il sistema così innovato affida (con disposizione non modificata) alle sezioni unite civili (accanto alle altre funzioni particolari) il compito di definire «questioni di massima di particolare importanza» (cfr. art. 374, secondo comma, c.p.c.) e alla sezione semplice il compito di definire in udienza solo procedimenti nei quali si ravvisi la «particolare rilevanza della questione di diritto» da trattare.

Gli ambiti dei rispettivi interventi (entrambi nomofilattici) appaiono, come si vede, contigui e di incerti confini, se affidati alla valutazione della «particolare importanza» e/o della «particolare rilevanza» della questione. Rimane, almeno formalmente, più pregnante l'elemento differenziatore rappresentato dal fatto che alle udienze delle sezioni semplici sono affidate le sole «questioni di diritto» mentre le «questioni di massima», che alludono alla considerazione di profili su generali vicende, umane, sociali, economiche ecc., sono affidate alle sole Sezioni unite. Ma anche questo confine, che vorrebbe essere più oggettivo, appare in realtà assai labile dal momento che, come è del tutto ovvio, anche le «questioni di diritto» sono pur sempre rappresentative di vicende coinvolgenti generali interessi.

È auspicabile che, preliminarmente rispetto ad ogni iniziativa di revisione della organizzazione interna della Procura generale della Cassazione nell'ambito civile, sia posta sul tappeto la questione di una preventiva e generale definizione e delimitazione dell'ambito in cui andrà esercitata la facoltà concessa dalla legge all'intervento scritto del p.m. con la conseguente previsione di strumenti per fronteggiare la prevedibile massa di fascicoli assegnate alle prossime camere di consiglio sezionali. È di questi giorni la sottoscrizione di un Protocollo tra Procura generale e Corte di cassazione per l'adozione di modelli operativi (informatici e telematici, e di tempestiva comunicazione del calendario delle udienze e delle adunanze in camera di consiglio previste per le sezioni semplici, «con cadenza tendenzialmente semestrale”) “al fine di rendere per un verso concretamente praticabile e per altro verso contenutisticamente utile l'apporto dell'ufficio requirente alla funzione di legittimità fornito dalla redazione di conclusioni scritte».

Ciò appare necessario non solo per il corretto adempimento dei compiti istituzionalmente affidati a tale organo ma anche per garantire una uniformità e trasparenza degli interventi nei confronti delle parti in causa.

Da tenere comunque presente che, a personale amministrativo invariato, le determinazioni della Procura generale implicheranno comunque un aggravio di adempimenti (anche se, auspicabilmente, informatizzati) per la segreteria civile della stessa Procura generale in relazione all'onere della fascicolazione, archiviazione e tempestivo deposito in cancelleria delle conclusioni scritte del p.m., che, quando redatte, dovranno essere, per ovvie ragioni, adottate sui singoli procedimenti (e non cumulativamente in un unico documento per tutti i procedimenti fissati in una determinata camera di consiglio).

I criteri per la individuazione dei possibili interventi scritti del p.m., in quanto motivati nell'interesse della legge, non potranno essere molto diversi da quelli che adotterà la sezione sulle questioni di diritto di particolare rilevanza (ma, a ben vedere, quasi in una funzione di “controllo” della scelta operata dalla sezione e quindi di contributo autonomo all'uniforme e corretta applicazione della legge): e cioè in relazione a determinate materie (si pensi ai casi previsti dalla legge di esercizio dell'azione civile da parte del p.m. e quelli di cui all'art. 70 c.p.c.), e comunque in relazione a diritti fondamentali della persona ovvero anche agli interessi in gioco nella questione di diritto sottesa (non solo economici, si pensi alle controversie tributarie o previdenziali ovvero anche sulle sanzioni).

Certamente però, quali che siano le scelte che verranno adottate al riguardo, queste non potranno pregiudicare il più rilevante ruolo (di contributo alla nomofilachia) che inevitabilmente verrà ad assumere la Procura generale nelle requisitorie orali di udienza. In questo senso (e non solo in una prospettiva diretta a tutelare la non meno importante esigenza di porre le parti in grado di interloquire sulle conclusioni del p.m.) sembra leggersi la nuova disposizione che assegna al pubblico ministero il compito di esporre per primo (dopo la relazione) le proprie conclusioni motivate (cfr. il novellato art. 379 c.p.c.).

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