Si configura acquiescenza tacita alla sentenza solo se l'interessato tenga comportamenti assolutamente incompatibili con la volontà di proporre impugnazione
21 Giugno 2017
Massima
Non può integrare univoca manifestazione di non proporre appello avverso una sentenza di primo grado che riconosce la cessazione di un contratto di comodato e pronuncia la condanna dell'ente pubblico comodatario al rilascio la comunicazione di un ufficio dell'ente pubblico, a prescindere dalla sua competenza a disporre del relativo diritto, di non frapporre ostacoli ad un precetto di rilascio per limitare oneri a carico dell'ente pubblico in difetto di documentazione sull'immobile e, nell'incombenza della minacciata esecuzione, rimettendo ad altro ufficio dello stesso ente ogni altra determinazione, anche in punto di provvista finanziaria, per l'eventuale formalizzazione dell'uso in corso. Il caso
Z., quale proprietario comodante di un immobile urbano, conveniva in giudizio il comodatario Comune di XXX, chiedendo che fosse dichiarata la cessazione del rapporto. Il Tribunale adito accoglieva la domanda, riconoscendo dovuti dal comodatario i frutti civili, peraltro soltanto a far tempo dalla domanda giudiziale. Avverso tale pronuncia proponevano gravame A., B. C., quali successori a titolo particolare di Z. nella proprietà del predetto immobile, e D., quale comproprietaria del medesimo immobile e già parte nella precedente fase di giudizio, onde ottenerne riforma in punto di dies a quo del riconoscimento dei frutti civili, instando per farlo retroagire al momento – di gran lunga precedente rispetto a quello della domanda giudiziale - della cessazione del contratto. Il Comune comodatario resisteva, proponendo anche appello incidentale. La Corte di merito respingeva l'appello principale e dichiarava inammissibile, rilevando acquiescenza, l'appello incidentale. A., B., C. e D. proponevano ricorso per cassazione contestando il riconoscimento al subentrante nel comodato dei frutti civili solo dal momento della richiesta di restituzione del bene e deducendo, inoltre, la violazione dell'art. 101 c.p.c. e conseguente nullità della sentenza, sul rilievo della novità dell'argomentazione in base a cui era stata risolta la questione della spettanza o meno dei frutti, non preceduta dalla sua sottoposizione alle parti. Il Comune di XXX resisteva con controricorso, dispiegando anche ricorso incidentale. La questione
La questione giuridica sottoposta alla Corte Suprema di Cassazione e che interessa in questa sede è stata, per gli aspetti di principio, quella di stabilire quali siano le condizioni richieste per poter ritenere intervenuta tacita acquiescenza ad una pronuncia giudiziale e, per gli aspetti concreti, se tali condizioni si dovessero ritenere verificate nel caso di specie con riferimento alla pronuncia di primo grado, con riguardo alla posizione del soggetto (Comune comodatario) appellante (e, in seguito, ricorrente) incidentale. Le soluzioni giuridiche
La Suprema Corte ha accolto il ricorso incidentale, dichiarando assorbito il ricorso principale, ed ha cassato la sentenza gravata con rinvio alla Corte di merito per l'esame dell'appello incidentale già proposto dal Comune di XXX sotto ogni altro profilo in rito e, se del caso, nel merito, con ogni conseguenza anche sull'appello principale originariamente proposto da D. e dai successori di Z. (si veda, per le identificazioni, il § 1.) e sulle domande tutte in primo grado da quest'ultimo dispiegate. Per gli aspetti di principio, la Suprema Corte ha osservato che l'acquiescenza costituisce atto dispositivo del diritto di impugnazione e quindi, indirettamente, del diritto fatto valere in giudizio, così che la relativa manifestazione di volontà deve essere inequivoca e provenire dal soggetto che di quel diritto possa disporre; ha, inoltre, osservato che all'atto di espressione dell'acquiescenza debbono ritenersi applicabili le regole ermeneutiche sugli atti negoziali unilaterali - nonostante la sua rilevanza a fini prevalentemente processuali, per la sua sostanziale valenza abdicativa del diritto di proporre impugnazione -, conseguendone la sua censurabilità in sede di legittimità ai sensi degli artt. 1362 ss. c.c. Per gli aspetti concreti, la Suprema Corte ha osservato che, pur prescindendo dalla questione della titolarità o meno del potere di disporre del diritto controverso in capo al Dirigente di Dipartimento comunale autore della nota (in ordine a cui si veda appresso) diretta ad altro Ufficio comunale, ritenuta dalla Corte territoriale avere valenza di abdicazione del diritto di proporre impugnazione, il tenore di tale nota non poteva ritenersi univoco nel senso ritenuto dalla medesima Corte, risultandone, al contrario, la volontà di mera cautela allo stato della carente documentazione agli atti e, soprattutto, dei limitati strumenti finanziari a disposizione per una diversa soluzione, tanto da investire il diverso ufficio destinatario di ogni ulteriore determinazione a questo specifico riguardo. Doveva, quindi, censurarsi, siccome manifestamente incongrua e contraria alle regole di ermeneutica contrattuale la conclusione della Corte di merito sulla qualificazione delle espressioni adoperate nella suddetta nota quali manifestazione di una univoca volontà abdicativa del diritto e vera e propria acquiescenza alla sentenza appellabile; per l'effetto, dovendo ritenersi erronea la conseguente statuizione di inammissibilità dell'appello, per scorretta applicazione della norma processuale dell'art. 329 c.p.c. Mediante la nota in questione, successivamente al precetto di rilascio, il Dirigente comunale comunicava ad altro Ufficio comunale e p.c. al comodante di non ritenere sussistenti motivi e ragioni per proporre opposizione e/o appello, ad un tempo, peraltro, segnalando il non possesso di documentazione in ordine all'immobile e di ritenere allora necessario il rilascio dell'immobile stesso al solo fine di limitare l'onere a carico dell'amministrazione, significando poi che, diversamente, ogni onere finanziario per una formalizzazione dell'uso, incombendo l'esecuzione in tempi stretti, sarebbe stato a carico dell'Ufficio destinatario. Osservazioni
L'acquiescenza consiste nell'accettazione della pronuncia, ossia nella manifestazione, da parte del soccombente, della volontà di non impugnare, la quale può avvenire sia in forma espressa sia in forma tacita. In entrambi i casi, la relativa volontà deve essere espressa anteriormente alla proposizione del gravame; successivamente a tale ultimo atto, è unicamente ammessa rinuncia all'impugnazione nelle forme e secondo le modalità prescritte dalla legge (Cass., sez. L, 16 ottobre 2013, n. 23529; Cass., sez. un., 12 novembre 1999, n. 763). Ciò vale anche per l'ipotesi (di cui non si tratta in questa sede) di acquiescenza «impropria» o parziale (che comporta accettazione delle parti della sentenza non impugnate, vale a dire concernenti questioni del tutto indipendenti da quelle investite dal motivo di gravame) di cui al secondo comma dell'art. 329 c.p.c. L'acquiescenza in forma espressa (totale o parziale) si concretizza in una dichiarazione, resa dalla parte (id est: dal soggetto che possa disporre del diritto che sia stato fatto valere in giudizio) o da un suo procuratore munito di mandato speciale, di accettazione espressa di una sentenza a mezzo di un atto unilaterale non recettizioche non necessita di particolari formalità ed è irretrattabile (Cass., sez. un., 28 luglio 1986, n. 4818). Per ciò che attiene all'acquiescenza in forma tacita, in giurisprudenza è consolidato l'orientamento secondo cui l'acquiescenza può ritenersi sussistente soltanto qualora l'interessato abbia posto in essere atti assolutamente incompatibili con la volontà di avvalersi dell'impugnazione e dai quali sia possibile desumere, in maniera precisa ed univoca, il proposito di non contrastare gli effetti giuridici della pronuncia (v. Cass., sez. II, 29 febbraio 2016, n. 3934; Cass., sez. I, 10 ottobre 2014, n. 21491; Cass., sez. VI, Ord. 11 giugno 2014, n. 13293; Cass., Sez. Un., 22 aprile 2013, n. 9687). La giurisprudenza ha sempre mostrata molta cautela nel desumere da comportamenti di parte manifestazioni di tacita acquiescenza nei confronti della sentenza di riferimento. A titolo esemplificativo, più volte è stato escluso che comporti acquiescenza alla sentenza sia la spontanea esecuzione della decisione di primo grado favorevole al contribuente da parte della PA, trattandosi di un comportamento da presumere fondato unicamente sulla mera volontà di evitare le eventuali ulteriori spese di precetto e dei successivi atti di esecuzione od altri e più gravi pregiudizi (Cass., sez. VI, Ord. 11 giugno 2014, n. 13293; Cass., sez. VI, 11 luglio 2012, n. 11769), sia, per le stesse ragioni, il pagamento, anche senza riserve, delle spese processuali liquidate nella sentenza d'appello, o comunque esecutiva, neppure quando sia antecedente alla minaccia di esecuzione o all'intimazione del precetto (Cass., sez. L, 25 giugno 2014, n. 14368; Cass., sez. II, 11 giugno 2009, n. 13630), sia, ancora per le stesse ragioni, l'adeguamento alle statuizioni di una sentenza esecutiva (Cass., sez. III, 28 agosto 2007, n. 18187). La sentenza in commento si inserisce perfettamente in tali «tipi». La sentenza si segnala per un ulteriore aspetto, vale a dire quello – pur non assunto a dare fondamento della pronuncia - dell'identificazione del soggetto legittimato a disporre del diritto fatto valere in giudizio. Ribadendo principi da ritenere consolidati, è stato affermato che, poiché l'acquiescenza costituisce atto dispositivo del diritto di impugnazione e perciò, indirettamente, del diritto fatto valere in giudizio, la relativa manifestazione di volontà, oltre a connotarsi come univoca, deve necessariamente provenire dal soggetto che di tale diritto possa disporre (Cass., sez. III, 28 gennaio 2014, n. 1764; Cass., sez. V, 28 giugno 2012, n. 10785); con la precisazione che, nei casi in cui sia contestata l'esistenza dei poteri rappresentativi in capo al «dichiarante» spetta a chi intende avvalersi di tale dichiarazione l'onere di dimostrare che l'atto di acquiescenza provenga da soggetto legittimato a compierlo (Cass., sez. V, 28 giugno 2012, n. 10785; Cass., sez. I, 14 febbraio 2000, n. 1610). L'acquiescenza al provvedimento giudiziale è preclusiva del potere di proporre l'impugnazione, rendendola, ove proposta, inammissibile. Da ultimo, va ricordato che è consolidato il principio secondo cui, mentre l'acquiescenza parziale può essere rilevata d'ufficio, in quanto rientra tra i poteri del giudice individuare i limiti oggettivi dell'impugnazione, l'acquiescenza totale può essere eccepita soltanto dalla parte interessata (Cass., sez., III, 14 febbraio 2013, n. 3664; Cass., sez. III, 20 maggio 1999, n. 4913). |