Nomofilachia, que de crimes qu’on commet on ton nom! L’oggi della Suprema e il trionfo della sfiducia

21 Novembre 2016

Ne abbiamo conferma: i mali della Suprema sono le due ore di udienza e la querula presenza degli avvocati. La Corte riscrive le regole della procedura e manda un messaggio chiaro: lasciateci lavorare. Cioè: nessuno meglio di noi sa quel che serve e, dunque, bando alle forme e agli arcaici rituali del giudizio di cassazione. Efficienza e accelerazione di fronte alla patologica “litigiosità” che investe le solenni aule di Piazza Cavour. Silenzio degli avvocati che molto amano manifestare la loro inadeguatezza di categoria.

Ne abbiamo conferma: i mali della Suprema sono le due ore di udienza e la querula presenza degli avvocati. La Corte riscrive le regole della procedura e manda un messaggio chiaro: lasciateci lavorare. Cioè: nessuno meglio di noi sa quel che serve e, dunque, bando alle forme e agli arcaici rituali del giudizio di cassazione. Efficienza e accelerazione di fronte alla patologica “litigiosità” che investe le solenni aule di Piazza Cavour. Silenzio degli avvocati che molto amano manifestare la loro inadeguatezza di categoria.

Il giudizio di cassazione viene rimodellato più volte negli ultimi lustri. Il decreto legislativo n. 40/2006, che voleva fermare i giochi, provoca invece sconquassi: messa alla prova dal «quesito di diritto», la Corte dà prova di una irragionevolezza creativa foriera dell'abrogazione precipitosa dell'art. 366-bis c.p.c..

Seguono gli inani tentativi di aggirare l'art. 111 Cost. con filtri che, nel migliore dei casi, non filtrano niente, per procedere poi alla rimozione del solido testo del n. 5, cioè dello storico presidio di ragionevolezza della funzione di controllo. Motus crescit eundo però, e il giudizio di cassazione a questo punto cambia letteralmente volto perché la conversione della normativa fantasma di un decreto legge oggi cuce sul giudice di legittimità una nuova divisa che lo trasforma in un funzionario burocratizzato, nel “gestore di deflusso” addetto ai ricorsi. Dove «ricorso» sta per «presunzione di abuso» del diritto di impugnazione, sicché tanto vale trattarlo in absentia di avvocati e deciderlo con la disinvoltura e gli standard motivazionali dell'ordinanza.

Non è in discussione la bontà dell'impiego della Camera di consiglio conseguente al vaglio della VI Sezione: nella sperimentazione degli ultimi anni essa ha dato prova di meglio tutelare il principio del contraddittorio della procedura della pubblica udienza. Lo riconoscono gli avvocati che, ricevendo venti giorni prima il progetto di sentenza costituito dalla Relazione, sono in grado di focalizzare le loro repliche, laddove la solenne e polverosa udienza pubblica dà normalmente luogo ad un dibattito alla cieca, nell'ignoranza degli eventuali punti decisivi della controversa come individuati dal giudice.

A dispetto dell'identità di nome, la Camera di consiglio che emerge dalla nuova legge è però oggi un'altra cosa. Ridotta la «Relazione» ad un modulo di formule e crocette, scompare la «adunanza» (se piace chiamare così una udienza semplificata) sostituita da una camera di decisione: nessuna preliminare attività di confronto ma diretta fase decisionale (salva l'eccezionale partecipazione del difensore, octroyée per generosa concessione presidenziale). E, visto il clima di modernizzazione telematica, se ne può immaginare (basta forse una norma regolamentare) la sua trasformazione in teleconferenza, con gran guadagno della produttività visto che, senza la futile presenza dell'avvocato si cammina più sereni.

Ad alcuni problemi ho accennato in www.judicium.it. In particolare la ulteriore perdita di effettività dell'art. 384, comma 3, c.p.c., cioè della norma che ricorda al giudice che l'obbligo di rispettare il principio del contraddittorio non è affare solo delle parti ma si impone anche a lui, che non può decidere su questione non posta ad oggetto di discussione. Probabilmente nella foga di fare della camera di consiglio un grande inceneritore di ricorsi, non si è immaginato neppure lo spazio per la decisione nel merito; poiché però è inevitabile che qualche accoglimento senza rimessione a pubblica udienza si abbia lo stesso, è inevitabile che ne segua anche qualche decisione nel merito. Con il che ci si avvia a decisioni sorde alle esigenze di un buon giudizio di merito, posto che le memorie ex art. 178 c.p.c. sono decisamente poco adatte alla bisogna e il luogo proprio per l'eventuale indicazione della questione dovrebbe essere proprio il momento del contatto parti-giudice. E così una norma già poco applicata (perché ancora poco sentita nella cultura tipica del giudice medio) rischia di scomparire con la scomparsa della parte dalla camera di consiglio.

Il problema dei problemi, il peccato originale è però la pretesa di fondo della Corte di gestire una propria presunta diversità che pretende di lasciare la base e il centro della piramide nel marasma per poter amministrare il proprio contenzioso ignorando le esigenze che lo alimentano, immaginando che la soluzione sia l'incremento esponenziale delle inammissibilità o dei rigetti. Ma il contenzioso non tocca la Corte in maniera differente da come tocca tutto l'apparato giudiziario, ed è ingiustificato volersi smarcare dal resto del sistema per affermare che la purezza della propria funzione non le consente di sporcarsi le mani come i comuni giudici.

La Cassazione è infatti solo il riflesso in cuspide di un sistema globale di mediocrissima gestione di un ingente contenzioso alimentato da incomprimibili ragioni economico-sociali, prima tra tutte la disinvolta disapplicazione della legge a proprio favore da parte dei consociati. La pole position spetta alla pubblica amministrazione che detiene la medaglia di debitore inadempiente par excellence; seguono gli inadempimenti quotidiani dei privati nei loro rapporti civili e commerciali, l'evasione fiscale e contributiva, la cronica violazione delle norme edilizie, delle norme sul lavoro, eccetera. Contribuisce poi largamente la moltiplicazione degli obblighi dovuta alla crescente complessità normativa destinata inevitabilmente a sfociare in complicazione applicativa e maggiore incertezza a sua volta favorita dalla moltiplicazione delle fonti interne ed esterne e, non ultima, dalla crescita vertiginosa dei diritti (e delle tutele) in cui si cristallizzano interessi ed esigenze in precedenza non giuridificati. Tutto molto banale ma tutto vero.

Questa situazione di partenza – che non trova veri sbocchi fuori dal ricorso al giudice (complice una visione idealisticamente totalizzante e storicamente datata dello access to justice di mitizzazione l'art. 24 Cost.) – invade il sistema giudiziario “di merito” che non si limita a “sbrigare” questo contenzioso, ma paradossalmente lo alimenta e lo amplifica con inefficienze scoraggianti che è superfluo enumerare. Dopo aver intasato i tribunali prima e le Corti d'appello poi, il contenzioso investe infine la Cassazione ma l'investitura avviene non solo in proporzione assolutamente fisiologica rispetto ai numeri di partenza, ma anche in preciso riflesso del quadro originario: per fare un solo esempio, la percentuale delle cause tributarie in Corte assorbe quasi un terzo del totale. Inadeguatezza strutturale della risposta dunque, ma globale, tale cioè da rendere inane il “chiamarsi fuori” da parte della Suprema che, in questo marasma, pretende di ritagliarsi l'angolo privilegiato della nomofilachia, intesa come un legiferare di secondo grado a scapito del giudicare.

Certo sarebbe bello se gli abitanti del Palazzaccio non fossero assediati da tanti ricorsi in odore di merito: ma l'assedio è solo un sintomo del problema globale, non è l'aggressione dei barbari perché il ricorso per cassazione altro non è che la propaggine estrema delle centinaia di migliaia di citazioni e di comparse di risposta, delle decine di migliaia di appelli che inondano i piani bassi. Lo è, allo stesso tempo, della sterminata selva di provvedimenti dei tribunali e delle Corti d'appello, onde, scandalizzarsi della qualità dei ricorsi e per questo chiudere la punta della piramide lasciando base e piani intermedi nella condizione in cui si trovano, vuol dire ignorare che è la cultura giuridica nazionale nel suo complesso che produce quel tipo e quel numero di atti di citazioni, quel tipo e quel numero di difese, quel numero e quel tipo di sentenze. Tanto più che alla base del ricorso alla Suprema sta sempre lo stesso sentimento, cioè il sentimento dell'ingiustizia, sentimento che non muta per il fatto che se ne faccia (spesso) interprete l'avvocato poco avvezzo al giudizio di legittimità ovvero (solo talvolta) il suo più raffinato cultore. La differenza sta solo nei maggiori mezzi professionali con cui quest'ultimo traduce efficacemente l'ingiustizia sentita nei motivi dell'art. 360 c.p.c., ma non è plausibile immaginarsi che chi sperimenta in prima persona il sentimento dell'ingiustizia rinunci a chieder giustizia al giudice che più di tutti in passato ha meritato fiducia e che dovrebbe continuare a meritarla (a venir frenato, semmai, è il ricorso dello specialista, molto meno disposto a subire inammissibilità e più preoccupato di non mettere il piede in fallo, non certo il ricorso di chi non ha un nome da difendere).

La pretesa della Corte di smaltire all'ingrosso la domanda di giustizia che viene dal basso per riservare una trattazione accurata a ciò “che vale la pena” di decidere, non ha alcun fondamento normativo o di sistema, alcun fondamento storico, alcun fondamento razionale. Non normativo perché le funzioni “prospettiche” attribuite alla Corte dall'art. 65 ord. giud. (e che vanno, più o meno correttamente, sotto lo sgraziato appellativo di nomofilachia) sono complementari rispetto alla funzione primaria della Corte di stabilire comunque il “diritto del fatto” con la sola barriera del “libero convincimento” del giudice di merito. Non storico, perché l'idea di Corte che si ha in mente rinnega disinvoltamente la sua caratteristica di originale e positiva evoluzione del prototipo francese, di bilanciata terza istanza “di giudizio”, rinnegando nel contempo la direzione da essa stessa presa, difesa e ampliata nel tempo, di leggere l'art. 111 Cost. come effettiva garanzia di concreti diritti individuali e non come astratta garanzia di sistema. Non razionale, infine, perché non si capisce in nome di che la Corte – fattasi oggi sostanzialmente legislatore – possa decidere essa di se stessa tirandosi elegantemente fuori da un sistema giudicato poco virtuoso e giustificando così la definitiva sfiducia dei consociati.

La fiducia nel giudice è, alla fine, la vera vittima della “fuga dal giudizio”, la fuga in cui si risolvono sommarizzazione e meccanizzazione della procedura, la fuga verso l'illusione di attingere lo status anomalo di fonte del diritto propria di Corti Supreme culturalmente, socialmente e storicamente lontane dall'esperienza italiana.

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