Filtro in appello e ricorso per cassazione: decorrenza del termine in caso di comunicazione a mezzo PEC fallita per colpa dell'utente
03 Gennaio 2017
Il filtro in appello. Orbene, come si ricorderà con l'introduzione dell'art. 348-bis c.p.c. il legislatore ha introdotto il cd. filtro in appello che consente alla Corte d'appello di dichiarare inammissibile l'appello tutte le volte in cui questo «non ha una ragionevole probabilità di essere accolto». A seguito dell'ordinanza di inammissibilità, l'art. 348-ter prevede che «contro il provvedimento di primo grado può essere proposto, a norma dell'art. 360, ricorso per cassazione». In questo caso, il termine «decorre dalla comunicazione o notificazione, se anteriore, dell'ordinanza che dichiara l'inammissibilità».
La tempestività del ricorso per cassazione. Ebbene, nel caso di specie era accaduto che il ricorrente (che, peraltro, aveva impugnato sia il provvedimento di primo grado che l'ordinanza di inammissibilità) aveva semplicemente affermato che l'ordinanza ex art. 348-ter c.p.c. non era stata «notificata». Peraltro, la questione della tempestività, o no, dell'impugnazione – attenendo al giudicato formale - è questione rilevabile d'ufficio e deve essere accertata dal giudice dell'impugnazione a prescindere dalle eventuali allegazioni concordi delle parti in ordine alla (affermata) tempestività (così la giurisprudenza della Suprema Corte). Ecco allora che la parte dovrà «sempre» allegare la data in cui è avvenuta la comunicazione ad opera della Cancelleria, o in subordine la data in cui è avvenuta la notificazione della stessa ad opera della controparte o, infine, la circostanza che non vi è stata né comunicazione né notificazione e, quindi, ha operato il cd. termine lungo. Ne deriva che – secondo la Cassazione – avendo il ricorrente proposto l'impugnazione oltre i 60 giorni dalla pubblicazione dell'ordinanza e non avendo lo stesso affermato di non aver ricevuto la comunicazione, il ricorso dovrebbe essere dichiarato inammissibile. Viceversa – va ricordato – ove il ricorrente avesse proposto il ricorso per cassazione entro il termine di 60 giorni dalla pubblicazione dell'ordinanza il ricorso sarebbe stato ammissibile perché proposto comunque nel rispetto dei termini previsti dall'art. 325 c.p.c. (in questo senso Cass., Sez. Un., 13 dicembre 2016, n. 25513). Bisogna, però, avvertire in questa sede che l'affermazione prima richiamata (e, cioè, che la parte dovrà «sempre» allegare la data in cui è avvenuta la comunicazione ad opera della Cancelleria, o in subordine la data in cui è avvenuta la notificazione della stessa ad opera della controparte) deve essere (ri)letta alla luce dell'affermazione del principio di diritto contenuto nella sentenza delle Sezioni Unite del 13 dicembre 2016, n. 25513 ove si afferma che l'importante è che la Corte di legittimità possa procedere alla verifica della tempestività in qualunque modo poiché la norma processuale sull'improcedibilità mira a tutelare il giudicato formale. In altri e più chiari termini, la norma processuale serve ad uno scopo: se lo scopo viene comunque raggiunto (con il medesimo grado di certezza) non può essere dichiarata l'improcedibilità del ricorso per cassazione.
Comunicazione a mezzo PEC fallita. La Suprema Corte, poi, osserva che vi sarebbe comunque l'inammissibilità per tardività in quanto la Cancelleria – come aveva appurato autonomamente la Corte stessa tramite richiesta alla Cancelleria del giudice a quo - aveva effettuato una comunicazione a mezzo PEC all'avvocato. Quella comunicazione, però, aveva generato il seguente messaggio: «la casella dell'utente destinatario non è in grado di accettare il messaggio» da cui doveva decorrere il termine breve per l'impugnazione. A tal fine, infatti, non potevano essere utilmente invocate le norme sul processo civile telematico come avrebbe voluto il ricorrente. E così, in primo luogo, nel caso di specie non poteva trovare applicazione l'invocato art. 16, comma 8, d.l. n. 179/2012 secondo cui «quando non è possibile procedere ai sensi del comma 4 per causa non imputabile al destinatario, nei procedimenti civili si applicano l'articolo 136, terzo comma e gli articoli 137 e seguenti del codice di procedura civile». E ciò perché, per poter invocare l'applicabilità di quella norma, vi deve essere un'impossibilità di procedere alla comunicazione e/o notificazione telematica: ma quell'impossibilità non può derivare dalla mancata attivazione di un indirizzo PEC ad opera dell'avvocato che, per legge, è obbligato di munirsi di PEC (e di tenerla in funzione). In secondo luogo, poi, per la Corte, nel caso di specie, avrebbe dovuto trovare applicazione l'articolo 16, comma 6, secondo inciso, secondo cui «le notificazioni e comunicazioni ai soggetti per i quali la legge prevede l'obbligo di munirsi di un indirizzo di posta elettronica certificata, che non hanno provveduto ad istituire o comunicare il predetto indirizzo, sono eseguite esclusivamente mediante deposito in cancelleria». Una disposizione questa che si applica anche «nell'ipotesi di mancata consegna del messaggio di posta certificata per cause imputabili al destinatario».
Responsabilità dell'utente. E non può esserci ombra di dubbio per la Cassazione che il messaggio reso dal sistema «la casella dell'utente destinatario non è in grado di accettare il messaggio» sottende un evento che dipende dall'utente il quale deve scongiurare l'inoperatività della casella di posta. In conclusione il ricorso per cassazione avverso la sentenza di primo grado è stato dichiarato tardivo sul rilievo che era decorso il termine breve il cui dies a quo coincideva con il deposito in Cancelleria della comunicazione dell'ordinanza (fallita via PEC).
(www.dirittoegiustizia.it) |