Il principio di sinteticità degli atti e le sue conseguenze nel processo civile

05 Gennaio 2017

In tema di ricorso per cassazione, il mancato rispetto del dovere di chiarezza e sinteticità espositiva degli atti processuali che, fissato dall'art. 3, comma 2, del c.p.a., esprime tuttavia un principio generale del diritto processuale, destinato ad operare anche nel processo civile.
Massima

In tema di ricorso per cassazione, il mancato rispetto del dovere di chiarezza e sinteticità espositiva degli atti processuali che, fissato dall'art. 3, comma 2, del c.p.a., esprime tuttavia un principio generale del diritto processuale, destinato ad operare anche nel processo civile, espone il ricorrente al rischio di una declaratoria di inammissibilità dell'impugnazione, non già per l'irragionevole estensione del ricorso (la quale non è normativa sanzionata), ma in quanto rischia di pregiudicare l'intelligibilità delle questioni, rendendo oscura l'esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata, ridondando nella violazione delle prescrizioni di cui ai nn. 3 e 4 dell'art. 366 c.p.c., assistite - queste sì - da una sanzione testuale di inammissibilità.

Il caso

La Corte d'Appello di Milano, confermando la decisione di primo grado, condannava la C.L. s.r.l. a rimborsare alla signora P.D. gli oneri condominiali maturati in relazione a due unità immobiliari (un locale ad uso magazzino ed uno scantinato) di proprietà della P. e detenuti dalla C.L. in forza di contratto preliminare di compravendita concluso dalle parti ma rimasto ineseguito. Avverso tale decisione interponeva ricorso per Cassazione la C.L. s.r.l., deducendo diciotto motivi di gravame, tutti afferenti la ritenuta nullità della sentenza impugnata ed esposti nel contesto di oltre 230 pagine. Il ricorso era giudicato inammissibile dalla Suprema Corte, in quanto redatto in modo non compatibile con i principi che definiscono le modalità di introduzione del giudizio di cassazione, come elaborati dalla stessa giurisprudenza di legittimità sulla base del disposto dell'art. 366 c.p.c..

La questione

Quando un ricorso per cassazione può dirsi inammissibile per violazione del principio di sinteticità degli atti?

Le soluzioni giuridiche

Osserva, infatti, la Corte che in forza della sua consolidata giurisprudenza il requisito della sommaria esposizione dei fatti della causa, imposto per la redazione dell'impugnazione dall'art. 366 n. 3 c.p., non può ritenersi soddisfatto dalla mera trascrizione degli atti del giudizio di merito, essendo onere del ricorrente operare una sintesi delle precedenti fasi processuali, specificamente finalizzata alla piena comprensione e valutazione delle censure mosse alla sentenza impugnata (cfr. Cass. sent. n. 5698/12). Peraltro, pur richiamando alcune sentenze in cui si era ritenuto ammissibile il ricorso per Cassazione nel caso in cui l'esposizione dei fatti di causa fosse emersa almeno dal contenuto dei motivi di ricorso (possibilità affermata nelle sentenze Cass. nn. 15478/14, 18363/15, 2846/16 e negata nelle sentenze Cass. nn. 22860/14, 11308/14, 3385/16), la S.C. esclude che, con riferimento al caso specifico, il requisito di cui all'art. 366 n. 3 c.p.c. potesse ritenersi soddisfatto sulla base dell'esposizione dei motivi di ricorso, essendo gli stessi motivi di ricorso redatti con modalità espositive non conformi al dovere processuale di sinteticità e chiarezza degli atti processuali. Relativamente a tale dovere, viene richiamata, anzitutto, la sentenza n. 17698/14 della sezione lavoro, con la quale per la prima volta i giudici di legittimità affermavano il principio per cui il mancato rispetto del dovere processuale della chiarezza e della sinteticità espositiva espone il ricorrente per cassazione al rischio di una declaratoria d'inammissibilità dell'impugnazione, in quanto esso collide con l'obiettivo di attribuire maggiore rilevanza allo scopo del processo, tendente ad una decisione di merito, al duplice fine di assicurare un'effettiva tutela del diritto di difesa di cui all'art. 24 Cost., nell'ambito del rispetto dei principi del giusto processo di cui all'art. 111 Cost., comma 2 e in coerenza con l'art. 6 CEDU, nonché di evitare di gravare sia lo Stato che le parti di oneri processuali superflui.

Il richiamo alla sentenza n. 17698/14 è, tuttavia, solo il punto di partenza di una più approfondita disamina della problematica da parte della II sezione.

Nella sentenza in commento, infatti, si riconosce che benché il codice di procedura civile non contenga specifiche prescrizioni di sinteticità con riferimento alle parti (esistendo, piuttosto, delle prescrizioni rivolte al giudice, attraverso i richiami alla "concisa" esposizione ed alla "succinta" motivazione contenuti negli art. 132 e 134 c.p.c e art. 118 disp. att. c.p.c.), il principio di sinteticità degli atti processuali, inteso come principio di ordine generale valido tanto per il giudice quanto per le parti, deve considerarsi vigente all'interno dell'ordinamento processuale a seguito dell'entrata in vigore del codice del processo amministrativo (d.lgs. n. 104/2010) che all'art. 3 ha stabilito che "Il giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica". La generalizzazione della portata di tale disposizione viene, in particolare, fondata sulla sua ratio, in quanto norma funzionale a garantire, per un verso, il principio di ragionevole durata del processo, costituzionalizzato con la modifica dell'art. 111 Cost. e, per altro verso, il principio di leale collaborazione tra le parti processuali e tra queste ed il giudice (si legge, infatti, in motivazione che “La smodata sovrabbondanza espositiva degli atti di parte ... non soltanto grava l'amministrazione della giustizia e le controparti processuali di oneri superflui, ma, lungi dall'illuminare i temi del decidere, avvolge gli stessi in una cortina che ne confonde i contorni e ne impedisce la chiara intelligenza, risolvendosi, in definitiva, in un impedimento al pieno e proficuo svolgimento del contraddittorio processuale”).

Il principio di sinteticità degli atti processuali, tuttavia, per come riconosciuto dalla Suprema Corte nella sentenza in commento, non è assistito da una specifica sanzione processuale – come è, ad esempio, all'interno dell'ordinamento processuale svizzero, in forza del disposto dell'art. 132 del locale codice di procedura civile - e non può essere, quindi, di per sé solo, causa di inammissibilità del ricorso per cassazione. Allo stesso modo, si riconosce l'inesistenza di una norma di legge che conferisca alla Corte di Cassazione il potere di fissare essa stessa i limiti dimensionali degli atti di parte nel giudizio di legittimità (potere previsto invece, per esempio, dal Regolamento di procedura della Corte di giustizia dell'Unione europea, il cui art. 58 recita: "Lunghezza degli atti processuali. Salvo quanto disposto da norme specifiche del presente regolamento, la Corte, mediante decisione, può stabilire la lunghezza massima delle memorie o delle osservazioni depositate dinanzi ad essa. Tale decisione è pubblicata nella Gazzetta ufficiale dell'Unione europea"). In assenza, pertanto, di una previsione normativa espressa, non può ricavarsi dall'ordinamento una sanzione di inammissibilità per l'irragionevole estensione del ricorso per cassazione, almeno de iure condito.

La violazione del principio di sinteticità, tuttavia, se da un lato non è causa di inammissibilità del ricorso per cassazione, dall'altro, per come già riconosciuto nella sentenza n. 17698/2014, "espone al rischio di una declaratoria d'inammissibilità dell'impugnazione, trattandosi di violazione che rischia di pregiudicare la intelligibilità delle questioni sottoposte all'esame della Corte, rendendo oscura l'esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata e quindi, in definitiva, ridondando nella violazione delle prescrizioni, queste sì assistite da una sanzione testuale di inammissibilità, di cui ai nn. 3 e 4 dell'art. 366 c.p.c.”.

Con riferimento, pertanto, al caso specifico, il ricorso per Cassazione era giudicato inammissibile perché non consentiva la lettura autonoma dei fatti di causa, che avrebbero dovuto essere ricostruiti dai giudici di legittimità “mediante la lettura di decine e decine di pagine di trascrizione di atti del giudizio di merito e di altri giudizi”.

Osservazioni

La problematica della sinteticità degli atti processuali è oggi particolarmente avvertita dalla Corte di Cassazione, tanto da indurre il Primo Presidente a sottoscrivere un protocollo a ciò finalizzato con il Consiglio Nazionale Forense (protocollo del 17.12.2015, reperibile sul sito www.consiglionazionaleforense.it) e ad emettere un decreto di invito dei presidenti di sezione all'adozione di modelli di provvedimento con motivazione semplificata, quale strumento per la riduzione delle pendenze e dell'arretrato (decreto n. 136 del 5 ottobre 2016, reperibile su www.cortedicassazione.it). Diversi sono stati, inoltre, i protocolli sottoscritti tra gli uffici giudiziari di merito e i locali consigli dell'ordine degli avvocati per la fissazione di requisiti di sinteticità degli atti processuali. Trattasi di uno dei profili di maggiore differenziazione tra processo amministrativo e processo civile, in quanto non solo l'art. 3 c.p.a. colloca tra i princìpi generali del processo amministrativo quello di “sinteticità degli atti”, sotto forma di dovere sia delle parti che del giudice di redigere gli atti in maniera chiara e sintetica, ma il nuovo art. 13 ter delle disposizioni di attuazione (introdotto dall'art. 7 bis della legge n. 197/2016, di conversione del d.l. 31 agosto 2016, n. 168) prevede una analitica disciplina dei criteri per la sinteticità e la chiarezza degli atti di parte, rinviando a tal fine ad un decreto del presidente del Consiglio di Stato e sanzionando con l'esclusione dal thema decidendum ciò che eccede i limiti imposti dal decreto medesimo, nel senso che tale eccedenza non potrà essere esaminata dal giudice ai fini del decidere. A fronte, invece, della mancanza nel processo civile di strumenti “tipizzati” di sanzione della violazione del dovere di sinteticità e chiarezza degli atti processuali, la Suprema Corte di Cassazione si è sforzata di individuare per via interpretativa dei rimedi, facendo leva su alcuni appigli normativi, primo fra tutti l'art. 366 n. 3 c.p.c., che individua tra i requisiti del ricorso per Cassazione “l'esposizione sommaria dei fatti della causa”: proprio sulla base di tale disposizione, i giudici di legittimità, nella sentenza in commento, arrivano a sanzionare con l'inammissibilità il ricorso che non consentiva l'agevole ricostruzione dei fatti, costringendo il collegio alla lettura di centinaia di pagine per l'individuazione delle questioni sottoposte al suo esame. Trattasi di soluzione che sembra trovare un appiglio anche nella giurisprudenza della CEDU, la quale anche di recente ha chiarito che l'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'Uomo e delle libertà fondamentali non impedisce l'imposizione di requisiti, anche rigorosi, agli atti introduttivi dei giudizi di impugnazione, soprattutto di legittimità (cfr. Corte EDU, 15 settembre 2016, in causa Trevisanato c/ Italia: nel caso di specie, il ricorrente lamentava che la declaratoria di inammissibilità della sua impugnazione, motivata con il mancato rispetto dei requisiti di forma di cui all'art. 366 bis c.p.c. quale norma ratione temporis vigente – benché poi abrogata senza effetto retroattivo dalla l. 69/2009 - lo aveva provato del suo diritto a un tribunale, ma la CEDU negava la configurabilità di una simile violazione, poiché la norma in questione perseguiva le “esigenze della sicurezza giuridica e della buona amministrazione della giustizia”, quali esigenze tali da giustificare limitazioni al diritto di accedere alla giustizia).

Non si possono, tuttavia, non evidenziare anche i rischi di una simile impostazione, potendo il formalismo della Corte di Cassazione pregiudicare, in mancanza di una specifica sanzione codificata, chi, pur sostenendo tesi nel merito fondate, argomenti con costruzioni eccessive e divagatorie le proprie posizioni. D'altra parte, con riferimento agli atti processuali il nostro codice di rito teorizza il principio di libertà delle forme, configurando possibile la sanzione della nullità in mancanza di specifiche previsioni solo ove l'atto non sia idoneo al raggiungimento dello scopo (ed è difficile ipotizzare, per come ipotizzato in dottrina, che un atto divagatorio e prolisso nella sua esposizione sia inidoneo al raggiungimento del proprio scopo “istitituzionale”: cfr. CAPPONI, Sulla “ragionevole brevità” degli atti processuali civili, in Rivista Trimestrale di diritto e procedura civile, fasc. 3, 2014). La stessa Corte Costituzionale in una nota sentenza ha affermato che “Il giusto processo civile vien celebrato non già per sfociare in pronunce procedurali che non coinvolgono i rapporti sostanziali delle parti che vi partecipano - siano esse attori o convenuti - ma per rendere pronuncia di merito rescrivendo chi ha ragione e chi ha torto: il processo civile deve avere per oggetto la verifica della sussistenza dell'azione in senso sostanziale di chiovendiana memoria, né deve, nei limiti del possibile, esaurirsi nella discettazione sui presupposti processuali, e per evitare che ciò si verifichi si deve adoperare il giudice” (Corte Cost., n. 220/1986, est. Andrioli).

De jure condendo, da questo punto di vista, deve prendersi atto dell'istituzione, da parte del Ministero della Giustizia, di un gruppo di lavoro sulla sinteticità degli atti processuali, che ha varato, con relazione del 1° dicembre 2016 (reperibile su “www.personaedanno.it”), una proposta di modifica di taluni articoli del codice di procedura civile, al fine di positivizzare anche nel processo civile un principio di sinteticità degli atti delle parti e del giudice e di precisare che nella redazione del ricorso per Cassazione l'esposizione dei fatti della causa deve essere chiara ed essenziale così come l'esposizione dei motivi per i quali si chiede la cassazione della sentenza impugnata deve essere “chiara e sintetica”.

Quanto, tuttavia, alle conseguenze della violazione del principio di sinteticità, il gruppo di lavoro ha compiuto la scelta di escludere ipotesi di inammissibilità ed anche di diniego dell'esame delle parti dell'atto che risultino in esubero (come avvenuto, ad esempio, nel processo amministrativo), ritenendosi sanzione adeguata quella operante sul piano delle spese: il testo modificato dell'art. 385 c.p.c. consente, quindi, alla Corte di ridurre o aumentare l'importo liquidato fino a un massimo del 20% se le parti (e dunque sia quella vincitrice sia quella soccombente) non si sono attenute, nella redazione degli atti difensivi, a criteri di chiarezza e sinteticità. Si è, inoltre, espressamente previsto che il solo mancato rispetto delle previsioni dei “protocolli” volti a declinare le regole operative in cui potrà tradursi il principio di sinteticità non possa essere causa di inammissibilità o di qualsiasi altra sanzione.

Guida all'approfondimento

In dottrina si veda CAPPONI, Sulla “ragionevole brevità” degli atti processuali civili, in Rivista Trimestrale di diritto e procedura civile, fasc. 3, 2014.

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