La revocazione in Cassazione

Federico Sorrentino
05 Gennaio 2017

L'articolo analizza approfonditamente il rilevantissimo tema dell'impugnazione per revocazione delle sentenze di cassazione, dando dettagliatamente conto dell'evoluzione normativa e giurisprudenziale in argomento, fino a giungere all'ultimo intervento di riforma del giudizio di cassazione.
I principali riferimenti normativi della revocazione in Cassazione

L'istituto della revocazione delle sentenze della Corte di Cassazione è stato normativamente introdotto, limitatamente all'errore di fatto ex art. 395 n. 4 c.p.c., con la disposizione di cui all'art. 391-bis c.p.c. (articolo rubricato: «Correzione degli errori materiali e revocazione delle sentenze della Corte di Cassazione») ad opera dell'art. 67 della l. 26 novembre 1990, n. 353.

L'ambito di operatività dell'istituto è stato successivamente ampliato con l'art. 16, comma 1, lett. a), d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 (l'istituto è divenuto applicabile, oltre che alle sentenze, anche alle ordinanze pronunciate ai sensi dell'art. 375, primo comma, nn. 4 e 5, c.p.c.) e con l'art. 17 dello stesso d.lgs. n. 40/2006 (introduttivo dell'art. 391-ter c.p.c. concernente i casi di revocazione n. 1, 2, 3 e 6 dell'art. 395 c.p.c. con riferimento ai provvedimenti con i quali «la Corte ha deciso la causa nel merito»).

Con il d.l. 31 agosto 2016, n. 168, convertito con modificazioni dalla l. 25 ottobre 2016, n. 197, si sono adeguate le regole procedurali (relative alla revocazione in cassazione) alle modifiche apportate (con lo stesso provvedimento legislativo) al giudizio di legittimità in sede civile (si veda infra) e si è ridotto il termine per la proposizione del ricorso ex art. 391-bis da un anno a sei mesi – in conformità con l'attuale termine lungo ex art. 327 c.p.c..

Premesse sulla genesi dell'istituto

L'applicazione dell'istituto della revocazione, anche con riferimento alle pronunce della Cassazione, originariamente non ipotizzato dal codice (per la ragione evidente costituita dall'oggetto o dalla natura del giudizio, di legittimità e non di merito), è il frutto di una complessa vicenda, in cui sono intervenute sinergicamente la Corte di Cassazione, la Corte costituzionale e il Legislatore.

L'input è partito dalla stessa Corte di Cassazione che, con l'ordinanza a Cass., Sez. Un., 8 febbraio 1983, n. 10, sollevò, in relazione ad un errore di fatto caduto su un dedotto vizio in procedendo (riguardante la mancata partecipazione della parte ad una udienza nel giudizio di merito), la questione di legittimità costituzionale «dell'art. 395, prima parte e n. 4 c.p.c., in quanto non prevede la revocazione delle sentenze di Cassazione affette da errore di fatto, in contrasto con l'art. 3 comma terzo e 24 comma primo e secondo Cost.».

Con la sentenza C. cost., n. 17/1986 la Consulta dichiarò «l'incostituzionalità dell'art. 395 prima parte e n. 4 c.p.c. nella parte in cui non prevede la revocazione di sentenze dalla Corte di Cassazione rese su ricorsi basati sul n. 4 dell'art. 360 c.p.c. e affette dall'errore di cui al n. 4 dell'art. 395 dello stesso codice».

Stanti i limiti della rimessione, la Consulta circoscrisse la additiva alle pronunzie sui ricorsi basati sul n. 4 dell'art. 360 c.p.c. «perché il diritto di difesa, in ogni stato e grado del procedimento garantito dall'art. 24 comma secondo Cost., sarebbe gravemente offeso se l'errore di fatto, così come descritto nell'art. 395 n. 4, non fosse suscettibile di emenda sol per essere stato perpetrato dal Giudice cui spetta il potere-dovere di nomofilachia. Né le peculiarità del magistero della Cassazione svuotano di rilevanza il comandamento di giustizia che di per sé permea la ripetuta disposizione del codice di rito civile, perché l'indagine cognitoria cui dà luogo il n. 4 dell'art. 360 non è diversa da quella condotta da ogni e qualsiasi giudice di merito allorquando scrutina la ritualità degli atti del processo sottoposto al suo esame». (Si veda la pronuncia con la quale la Cassazione, una volta ricevuti gli atti dalla Consulta dopo la declaratoria di incostituzionalità, ha definito il ricorso per revocazione che diede origine all'incidente di costituzionalità: Cass., Sez. Un., sent., 4 luglio 1987, n. 5865).

Come si vede, la “breccia” che aprì la strada all'istituto della revocazione in Cassazione trae origine dal risalente orientamento della stessa Corte (Cass. 18 aprile 1970, n. 1127) secondo cui quando, con il ricorso per cassazione, venga dedotto un error in procedendo, il sindacato del giudice di legittimità investe direttamente l'invalidità denunciata, mediante l'accesso diretto agli atti sui quali il ricorso è fondato, indipendentemente dalla sufficienza e logicità della eventuale motivazione esibita al riguardo, posto che, in tali casi, la Corte di cassazione è giudice anche del fatto.

La Consulta, con la citata sentenza C. Cost., n. 17/1986, peraltro auspicò un intervento del legislatore, stanti i limiti della pronunzia: «Spetta quindi al potere legislativo di colmare la lacuna, in quanto necessario e auspica questa Corte che la propria non sia vox clamans in deserto anche perché la estrema rarità delle vicende, in cui si è imputata a giudici di merito la commissione del motivo di revocazione di cui all'art. 395 n. 4, non fa temere aumento di accessi alla Corte di Cassazione».

E l'intervento del legislatore si ebbe con la l. n. 353/1990 (pubblicata in GU in data 1 dicembre 1990) introduttiva dell'art. 391-bis c.p.c. e tuttavia, nelle more della effettiva operatività di tale legge, intervenne nuovamente la Corte costituzionale con la C. cost., sent., 17 gennaio 1991, n. 36 che, sempre su sollecitazione della Corte di cassazione (con ordinanza emessa l'11 luglio 1989, con riferimento ad una sentenza della Corte medesima che aveva dichiarato inammissibile per tardività il ricorso per cassazione in ragione - secondo la doglianza - di un errore di fatto nella percezione della data di notificazione del ricorso medesimo), dichiarò «l'illegittimità costituzionale dell'art. 395, n. 4, codice di procedura civile, nella parte in cui non prevede la revocazione di sentenze della Corte di cassazione per errore di fatto nella lettura di atti interni al suo stesso giudizio».

Si osservò in particolare: «quanto detto per l'errore di fatto - per l'errore, cioè, meramente percettivo (svista, puro equivoco) e che in nessun modo coinvolga l'attività valutativa - in cui la Corte di Cassazione incorra nel controllo degli atti del processo a quo, ai fini della decisione sulla sussistenza di eventuali nullità dello stesso procedimento o della correlativa sentenza denunciate ai sensi dell'art. 395 c.p.c., non può non valere anche (anzi, a fortiori) per l'analogo errore in cui quella Corte incorra nella lettura di atti interni al suo stesso giudizio». Così che l'ambito dell'errore di fatto venne esteso (con la cit. C. Cost. n. 36/1991) non solo al caso in cui la Corte di cassazione deve valutare un vizio in procedendo compiuto dai giudici di merito ma anche al caso in cui la Corte ambia compiuto detto errore «nella lettura di atti interni al suo stesso giudizio».

Come si vede, in entrambi i casi (C. Cost. n. 17/1986 e C. Cost. n. 36/1991) le additive operarono sulla norma generale di cui all'art. 395 c.p.c. giacché l'art. 391-bis c.p.c. o non esisteva o non era ancora applicabile.

L'intervento legislativo del 1990

Nel sopra descritto quadro il legislatore del 1990 (cit. l. n. 353/1990) è intervenuto per estendere (normativamente) l'istituto della revocazione anche alle pronunzie della Corte di cassazione così come indicato dalle citate sentenze della Corte costituzionale n. 17/1986 e Corte costituzionale n. 36/1991 (nei limiti della ipotesi di cui all'art. 395 n. 4 c.p.c., cioè con riferimento all'errore di fatto). Ma al tempo stesso, novellando l'art. 384, primo comma, c.p.c., ha ampliato i poteri della Corte di cassazione che infatti, in caso di accoglimento del ricorso, viene così a decidere «la causa del merito qualora non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto».

Così operando il legislatore ha finito con l'innescare una nuova irrazionalità dell'istituto della revocazione nei delineati limiti di applicabilità in cassazione, giacché dopo aver ammesso per la prima volta la Corte di Cassazione ad assumere, nel casi previsti, decisioni “nel merito”, ha reso prima facie priva di giustificazione, quanto meno su tali pronunzie, la diversità del regime impugnatorio straordinario di tali decisioni della Corte (regime limitato, come si è detto, all'errore di fatto) rispetto a quelle assunte dai giudici di merito (consentito per tutte le ipotesi dell'art. 395 c.p.c.).

Nel periodo successivo alla riforma del 1990 deve registrarsi:

  • da un lato l'intervento nomofilattico della Corte di cassazione nell'interpretare estensivamente l'art. 391-bis c.p.c. anche alle ordinanze rese dalla Corte di cassazione in camera di consiglio ai sensi dell'art. 375 c.p.c.;
  • dall'altro il tentativo della stessa Corte di ampliare le ipotesi di revocazione (oltre il caso cioè dell'errore di fatto di cui all'art. 395 n. 4 c.p.c.).

Sotto il primo aspetto infatti la Cass., Sez. Un., sent., 2 giugno 1992, n. 6663 hanno esteso in via interpretativa l'impugnazione per revocazione, oltre che alle sentenze, anche alle ordinanze ex art. 375 c.p.c. (Cass., Sez. Un., 2 giugno 1992, n. 6663): la controversia riguardava la istanza di revocazione di una ordinanza delle SU su ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione (si veda anche Cass., Sez. Un., 27 ottobre 1993 n. 10684), e tuttavia la citata Cass., sent., n. 6663/1992 estese il principio anche alle altre controversie da decidere con ordinanza ai sensi dell'art. 375 c.p.c. nel testo come sostituito dalla legge 353 del 1990 (e cioè nei casi di ordinanze di inammissibilità e di rigetto per mancanza dei motivi). Tutto ciò sempre nell'ambito delle ipotesi ammesse dalle due sentenze della Corte costituzionale n. 17/1986 e n. 36/1991 (Si vedano ancora in tal senso Cass., Sez. Un., 25 giugno 2002, n. 9287; Cass. Sez. Un., 30 dicembre 2004, n. 24170). Seguendo tale impostazione, la ammissibilità del ricorso per revocazione è stata quindi affermata da Sez. 1, Sentenza n. 3137 del 30/03/1994 anche su pronunzie concernenti il regolamento di competenza.

Sotto il secondo profilo un primo tentativo fu posto in essere dalla Corte di cassazione con riferimento alla ipotesi di cui all'art. 395 n. 3 c.p.c. («se dopo la sentenza sono stati trovati uno o più documenti decisivi che la parte non aveva potuto produrre in giudizio per causa di forza maggiore o per fatto dell'avversario»): nel 1999 venne infatti sollevata questione di legittimità costituzionale degli artt. 391-bis e 395, numero 3, c.p.c. «nella parte in cui non consentono la revocazione della sentenza di cassazione dichiarativa dell'inammissibilità del ricorso, quando successivamente sia stato rinvenuto un documento decisivo relativo agli atti interni del giudizio di legittimità, la cui mancata produzione abbia impedito la pronuncia sul merito dell'impugnativa, e che la parte interessata, per causa ad essa non imputabile, non abbia potuto tempestivamente produrre». Ma la risposta della Corte costituzionale è stata diversa rispetto alle due precedenti pronunzie additive (17/1986 e 36/1991), avendo la Consulta dichiarato l'inammissibilità della questione. Secondo la Corte costituzionale “infatti, il rimettente prefigura una pronuncia caratterizzata da un grado di manipolatività tanto elevato da investire non singole disposizioni o il congiunto operare di alcune di esse, ma un intero sistema di norme - quello relativo ai mezzi straordinari di impugnazione - coinvolgendo insieme il regime delle sentenze di cassazione e di quelle rese in grado di appello o in unico grado e investendo anche nozioni rilevanti nel giudizio di revocazione, quali quelle di forza maggiore e di decisività di un documento, imprimendo ad esse significati nuovi e più ampi. Ma un intervento di simili dimensioni, inteso a coinvolgere simultaneamente la disciplina di più fasi del giudizio e a rivedere istituti e nozioni che hanno trovato da lungo tempo il loro assetto stabile nella giurisprudenza, è riservato al legislatore, al quale soltanto competerebbe definire un equilibrio diverso da quello attuale tra rimedi interni alle singole fasi o gradi del giudizio, mezzi di impugnazione ordinari, mezzi straordinari e rimedi risarcitori.” (C. Cost. ord. n. 305 del 2001).

Un secondo tentativo, proprio tenendo conto delle sentenze di merito consentite dall'art. 384, primo comma, c.p.c., fu messo in atto dalla Corte di cassazione con l'ordinanza n. 9027 del 2005 con riferimento all'ipotesi di revocazione per contrasto di giudicati (di cui all'art. 395 n. 5 c.p.c.), sia pure dopo aver ritenuto in altre occasioni la manifesta infondatezza della questione (si veda ad es. Cass. n. 7998/2004). La Corte costituzionale con ordinanza n. 77/2006 ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione sotto il profilo della mancata o insufficiente motivazione della rilevanza della questione stessa (“in ordine all'interesse della parte ricorrente alla revocazione di una pronuncia di condanna di ammontare inferiore rispetto a quella contenuta nella sentenza che secondo la regola giurisprudenziale indicata, dovrebbe regolare i rapporti fra le parti in caso di accoglimento della domanda proposta”).

V'è da evidenziare che in quella controversia la Cassazione con sentenza n. 18234 del 2006 una volta ricevuti gli atti dalla Consulta, non ha rinunciato ad affermare, questa volta in via di interpretazione adeguatrice (testualmente, in motivazione: “Una lettura costituzionalmente orientata del complesso di norme sopra richiamato, che tenga conto anche del loro succedersi nel tempo, non può negare l'applicabilità dell'art. 395 c.p.c., n. 5 alle decisioni di merito delle sentenze della Cassazione che altro non sono che provvedimenti identici a quelli di appello e in unico grado, cassati e sostituiti dalla stessa decisione impugnata per revocazione.”), la proponibilità del ricorso per revocazione ai sensi dell'art. 395 n. 5, c.p.c. Tuttavia si è trattato di una pronunzia che si avvicina molto ad un obiter dictum dal momento che, come già aveva rilevato la stessa Consulta, il ricorso per revocazione è stato in realtà dichiarato dalla Corte di cassazione inammissibile per difetto di interesse in quanto, nella specie, l'accertamento contenuto nella sentenza impugnata per revocazione, liquidando una minor somma a titolo di indennità di espropriazione a carico del Comune, conteneva un accertamento più favorevole all'ente locale ricorrente rispetto a quello recato dal primo giudicato.

Tale decisione è rimasta invero isolata a fronte di un orientamento consolidatosi in senso opposto sulla base del dato testuale delle disposizioni in parola, della natura delle sentenze di mera legittimità (che danno luogo solo al giudicato in senso formale e non a quello sostanziale), del fatto che non sussiste identità, o analogia, tra le posizioni del giudice di rinvio e della Corte di cassazione, quest'ultima potendo decidere nel merito la controversia solo in base ai medesimi accertamenti ed apprezzamenti di fatto che costituiscono i presupposti del giudizio di diritto (si vedano le decisioni: Cass., Sez. Un., sent. 30 aprile 2008, n. 10867; Cass., sez. II, ord., 14 gennaio 2011, n. 862; Cass., sez. V, sent., 29 dicembre 2011, n. 29580; Cass., sez. VI - 2, ord., 27 ottobre 2015, n. 21912).

Le modifiche introdotte dal d.lgs. n. 40 del 2006

Su generica delega del legislatore (l'art. l, comma 3, lett. a, della legge delega 14 maggio 2005, n. 80, impegnava il Governo, in punto di revocazione, soltanto a “prevedere la revocazione straordinaria e l'opposizione di terzo contro le sentenze di merito della Corte di cassazione, disciplinandone la competenza”) è intervenuto quindi l'art. 16, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 40/2006 sull'art. 391-bis aggiungendo, tra le pronunzie impugnabili per revocazione, anche le ordinanze pronunciate “ai sensi dell'articolo 375, primo comma, numeri 4) e 5)” cosi come novellato dallo stesso d.lgs.

Innanzitutto tale modifica ha recepito “normativamente” (con la dovuta esclusione, dal novero delle pronunzie oggetto di revocazione, delle ordinanze a contenuto meramente ordinatorio e non decisorio) quanto già affermato (vedi sub 3) dalla Suprema Corte in via interpretativa (cfr. sulla esclusione delle pronunzie ordinatorie, Cass., sez. I, sent. 9 giugno 2005, n. 12175; si veda poi nello stesso senso Sez. Un., ord., 10 luglio 2012, n. 11508; Cass., Sez. Un., sent., 7 gennaio 2013, n. 151).

In secondo luogo nella riformulazione dell'art. 375 c.p.c. e nel richiamo, per quanto riguarda la impugnabilità per revocazione, delle sole ordinanze di cui ai n. 4 e 5 dell'art. 375 c.p.c. nel testo all'epoca vigente (id est: «4) pronunciare in ordine all'estinzione del processo in ogni altro caso; 5) pronunciare sulle istanze di regolamento di competenza e di giurisdizione») è risultata irragionevole la mancata previsione anche delle ordinanze di cui al n. 1 dell'art. 375 c.p.c. (id est: «1) dichiarare l'inammissibilità del ricorso principale e di quello incidentale eventualmente proposto»).

Infatti ancora una volta su sollecitazione della Corte di cassazione la Corte cost., sent., n. 207/2009 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 391-bis, primo comma, del codice di procedura civile, come modificato dall'art. 16 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, «nella parte in cui non prevede la esperibilità del rimedio della revocazione per errore di fatto, ai sensi dell'art. 395, primo comma, n. 4), cod. proc. civ., per le ordinanze pronunciate dalla Corte di cassazione a norma dell'art. 375, primo comma, n. 1), dello stesso codice». Si è infatti sostenuto dalla Consulta «che l'errore "percettivo» in cui sia incorso il giudice di legittimità e dal quale sia derivata, come nella specie, l'indebita declaratoria di inammissibilità del ricorso - con l'ovvia conseguenza di aver determinato l'irrevocabilità della pronuncia oggetto di impugnativa - rappresenta eventualità tutt'altro che priva di conseguenze sul piano del rispetto dei relativi principii costituzionali, nel senso che, ove a quell'errore non risulti possibile porre rimedio attraverso uno specifico istituto processuale, una siffatta lacuna normativa verrebbe a porsi «in automatico e palese contrasto non soltanto con l'art. 3, ma anche con l'art. 24 della Costituzione, per di più sotto uno specifico e significativo aspetto, quale è quello di assicurare la effettività del giudizio di cassazione”, e ciò anche alla luce del novellato art. 111 Cost.: “in presenza di un errore di tipo "percettivo" che abbia determinato la declaratoria di inammissibilità del ricorso, a norma dell'art. 375, primo comma, numero 1), cod. proc. civ., all'interno dello stesso sistema di garanzie previsto dal legislatore, che ha riformato, in parte qua, il richiamato art. 391-bis del medesimo codice, non è previsto rimedio alcuno; con correlativa, evidente compromissione, tanto dell'art. 3, che dell'art. 24 della Costituzione: quest'ultimo riguardato anche, come si è detto, nella prospettiva della garanzia specifica approntata dall'art. 111, settimo comma, della medesima Carta, in tema di controllo di legalità riservato alla Corte di cassazione avverso tutte le sentenze.” (Si veda Cass. n. 28019 del 2009).

Con riferimento alle sentenze di cassazione con rinvio, deve registrarsi nella giurisprudenza della Corte di cassazione una restrizione dell'ambito di impugnabilità per revocazione ai sensi degli artt. 395 n. 4 e 391-bis cod. proc. civ delle proprie pronunzie. Invero fino a Cass. 25 luglio 2011, n. 16184, come ricordato da Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 20393 del 12/10/2015, “si era sì sancito di inammissibilità il ricorso per revocazione delle sentenze di cassazione con rinvio, ma pur sempre a condizione che l'errore revocatorio denunciato avesse portato all'omesso esame di eccezioni, questioni e tesi difensive che avrebbero potuto costituire oggetto di una nuova, libera ed autonoma valutazione da parte del giudice del rinvio (Cass. 20 ottobre 2003, n. 15660; Cass. 7 novembre 2001, n. 13790); e tale orientamento poteva ritenersi in sostanza accettabile per l'evidente non decisività dell'errore, intesa come recuperabilità della questione non preclusa dal carattere di giudizio chiuso proprio di quello di rinvio; il medesimo orientamento pare superato però dalla più recente giurisprudenza (Cass. 25 luglio 2011, n. 16184), che ha effettivamente escluso senza eccezioni o condizioni — come si ricava dall'attenta lettura della motivazione e senza fermarsi alla massima — l'ammissibilità della revocazione ai sensi degli artt. 395 n. 4 e 391-bis cod. proc. civ. delle sentenze di cassazione con rinvio, potendo ogni eventuale errore revocatorio essere fatto valere appunto nel giudizio previsto dagli artt. 393 ss. cod. proc. civ.: sostanzialmente ipotizzando, tra le righe ed in forza del principio costituzionalizzato del giusto processo, l'ammissibilità extra ordinem del recupero nel giudizio di rinvio anche di quello che normalmente sarebbe un errore di fatto rilevante a soli fini revocatori”.

Oltre a modifiche in rito (si veda infra) il d.lgs. n. 40 del 2006 ha provveduto ad inserire l'art. 391-ter c.p.c. che ha esteso la revocazione in Cassazione per i motivi di cui ai numeri 1), 2), 3) e 6) del primo comma dell'articolo 395 c.p.c. limitatamente ai provvedimenti con i quali “la Corte ha deciso la causa nel merito”. Proprio tale modifica, che ha esteso i vizi revocatori enunciati solo alle sentenze della Corte nel merito ex art. 384 c.p.c. ha reso ancora più evidente che detti vizi revocatori non sono invocabili nei confronti delle altre pronunzie (al di fuori, come si è detto, dell'ipotesi di cui all'art. 395 n.4 richiamato dall'art. 391-bis c.p.c.). In tal senso si veda ad esempio Sez. 6 - 2, Ordinanza n. 21912 del 27/10/2015 (ed i richiami ivi contenuti) che ha ritenuto inammissibile un ricorso per revocazione ai sensi dell'art. 395 n. 3 c.p.c. avverso una sentenza della Corte di cassazione di rigetto del ricorso (e non invece una sentenza con cui la Corte ha deciso la causa nel merito ai sensi dell'art. 384 c.p.c.).

L'errore di fatto

a) Prima di accennare ai più rilevanti aspetti processuali vanno ricordati i consolidati principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di errore revocatorio. Al proposito appare utile richiamare le più recenti pronunzie della Corte, Cass. n. 8472 del 2016, Cass. SU n. 23306 del 2016 e Cass. 18619/2016, che in motivazione hanno operato una vera e propria ricostruzione dell'istituto della revocazione, in particolare nei suoi limiti in cassazione, con approfonditi riferimenti alle pronunzie della Corte costituzionale, della Corte di giustizia e della Corte europea dei diritti dell'uomo (8472 del 29/04/2016).

In particolare le cit. Sez. Un. n. 23306 del 2016 hanno premesso, in punto di revocazione per errore di fatto, la differenza tra giudizio di fatto e giudizio di diritto, sinteticamente precisando che:

- per fatto e giudizio di fatto deve intendersi tutto ciò che attiene all'accertamento o alla ricostruzione della verità o della falsità di dati empirici (fatti o atti) rilevanti per il diritto, fatta eccezione per le modalità di applicazione delle eventuali norme relative ad ammissibilità ed assunzione di prove, ovvero a prove legali;

- per diritto e giudizio di diritto si deve avere riguardo a tutto quanto attiene all'applicazione di norme e cioè: all'individuazione o scelta della norma applicabile al caso concreto; all'interpretazione di tale norma, sia con riguardo alla fattispecie astratta, sia con riguardo al comando; alla sussunzione dei fatti, come ricostruiti, entro la fattispecie astratta; all'individuazione o deduzione delle conseguenze da quella norma previste, con applicazione al caso di specie.

Si è quindi sottolineato come l'errore revocatorio consista in una falsa percezione della realtà, in un errore, cioè, obbiettivamente ed immediatamente rilevabile, che attiene all'accertamento o alla ricostruzione della verità o non verità di specifici dati empirici, idonei a dar conto di un accadimento esterno al processo, al quale un soggetto dell'ordinamento intende ricollegare effetti giuridici a sé favorevoli, all'esito della sua sussunzione entro una fattispecie generale ed astratta determinata: l'errore deve, allora, apparire di assoluta immediatezza e di semplice e concreta rilevabilità, senza che la sua constatazione necessiti di argomentazioni induttive o - meno che mai - di indagini o procedimenti ermeneutici (fin da Cass. Sez. Un., 10 agosto 2000, n. 561; tra le molte altre, per tutte: Cass. 1 marzo 2005, n. 4295; Cass., 18 settembre 2008, n. 23856; Cass. Sez. Un., 7 marzo 2016, n. 4413).

Il contrasto rilevante è quindi quello tra la rappresentazione di un fatto (o di un complesso di fatti) univocamente emergente dagli atti e dai documenti e la supposizione del medesimo fatto (o complesso di fatti) posta a base della decisione del giudice; e, per di più, deve trattarsi di un contrasto in termini di esclusione reciproca e non di semplice diversità tra l'una e l'altra.

L'errore revocatorio si individua nell'errore meramente percettivo, risultante in modo incontrovertibile dagli atti del giudizio di legittimità e tale da aver indotto la stessa Corte di cassazione a fondare la valutazione della situazione processuale sulla supposta inesistenza (od esistenza) di un fatto, positivamente acquisito (od escluso) nella realtà del processo, che, ove invece esattamente percepito, avrebbe determinato una diversa valutazione della situazione processuale, e non anche nella pretesa errata valutazione di fatti esattamente rappresentati (Cass. Sez. Un., 30 ottobre 2008, n. 26022; Cass., ord. 12 dicembre 2012, n. 22868; Cass. 9 dicembre 2013, n. 27451).

Sul requisito della decisività dell'errore di fatto (requisito necessario per la sua configurabilità dell'errore di fatto) si è detto che esso presuppone che la decisione appaia fondata, in tutto o in parte, esplicitandone e rappresentandone la decisività, sull'affermazione di esistenza o inesistenza di un fatto che, per converso, la realtà obiettiva ed effettiva (quale documentata in atti) induce, rispettivamente, ad escludere od affermare, così che il fatto in questione sia percepito e portato ad emersione nello stesso giudizio di cassazione, nonché posto a fondamento dell'argomentazione logico-giuridica conseguentemente adottata dal giudice di legittimità (Cass., ord. 15 luglio 2009, n. 16447; Cass. 31 gennaio 2012, n. 1383); e così dall'ambito della revocazione resta esclusa qualunque erroneità della valutazione di fatti storici o della loro rilevanza ai fini della decisione. A maggior ragione, anche una risposta al motivo di doglianza ritenuta insoddisfacente o incompleta è di per sé idonea ad escludere un errore revocatorio, come tradizionalmente inteso. E' quindi indispensabile che l'errore revocatorio cada su di un fatto materiale, e, quando oggetto della revocazione siano i provvedimenti della Corte, di un fatto materiale interno al giudizio di legittimità ed afferente ai suoi stessi atti. Sempre in tema di decisività la revocazione è inammissibile qualora il prospettato errore di fatto attenga ad una sola di plurime rationes decidendi (tra le ultime, v. Cass., ord. 5 novembre 2014, n. 23525, ovvero Cass., ord. 21 gennaio 2015, n. 929; e in caso di revocazione avverso le sentenze della Corte: Cass. 3 settembre 2005, n. 17745; Cass., ord. 30 dicembre 2011, n. 30436; Cass., ord. 7 maggio 2012, n. 6856; Cass., ord. 25 marzo 2013, n. 7413).

Essenziale e connaturata all'errore revocatorio è la circostanza (ostativa all'applicabilità dell'istituto) che la questione, asseritamente frutto di errore, non sia stata oggetto di discussione tra le parti: in tal caso infatti si tratterrà eventualmente di errore valutativo e non percettivo. Invero si è detto da ultimo che “il fatto oggetto della supposizione di esistenza o inesistenza non deve avere costituito un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciarsi: sicché non è configurabile l'errore revocatorio qualora l'asserita erronea percezione degli atti di causa abbia formato oggetto di discussione e della consequenziale pronuncia a seguito dell'apprezzamento delle risultanze processuali compiuto dal giudice” (cit. Sez. Un. n. 23306 del 2016 richiamando Cass. 15 dicembre 2011, n. 27094)

Alla luce di ciò è quindi evidente che non può ritenersi inficiata da errore di fatto la sentenza della quale si censuri la valutazione di uno dei motivi del ricorso, ritenendo che sia stata espressa senza considerare le argomentazioni contenute nell'atto d'impugnazione, perché in tal caso è dedotta un'errata considerazione e interpretazione dell'oggetto di ricorso (Cass., ord. 12 maggio 2011, n. 10466; Cass. 31 marzo 2011, n. 7488) e quindi un'attività valutativa e non percettiva. Allo stesso modo si è escluso l' errore di fatto ai sensi dell'art. 395, n. 4, cod. proc. civ., allorquando sia dedotta l'erronea valutazione di un elemento processuale, quale l'allegazione e la produzione di un determinato documento, essendo esclusa dall'ambito della revocazione la sindacabilità di errori di giudizio formatisi sulla base di una decisione in punto di diritto (Sez. L, Sentenza n. 19926 del 22/09/2014).

Si è fatto cenno alla giurisprudenza di legittimità per i riferimenti alla Convenzione dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, invocata di sovente in sede di revocazione in Cassazione. Tenuto conto dell'obbligo per il giudice comune ad una interpretazione convenzionalmente orientata (si vedano C. Cos. 348 e 349 del 2007, da ultimo C.Cost. n. 49/2015), ai fini della revocazione, secondo quanto da ultimo affermato da Cass. n.18619/2016, “i giudici nazionali sono chiamati ad un'applicazione rigorosa e ad una valutazione molto attenta di ogni elemento anche in fatto della relativa fattispecie”, essendo “indispensabile che la risposta concreta regga ad un vaglio di proporzionalità e così di adeguatezza, nell'equilibrio raggiunto tra l'esigenza dell'interesse generale e la salvaguardia del diritto fondamentale”. A ciò si perviene tenuto conto del rilievo che “il controllo della Corte europea sulla motivazione delle Corti Supreme è … particolare in tema di diritti fondamentali: se da un lato la Corte è particolarmente comprensiva con il ruolo di quelle (Corte eur. dir. uomo, 6 maggio 2010, Brunet-Lecomte e Lyon 1.14ag' c/ Francia, ric. n.17265/05, 5 62 e 10 luglio 2008; Corte eur. dir. uomo, Soulas e a. c/ Francia, ric. n. 15948/03, 5 53; ammette l'assenza di motivazione in materia di ammissione dei ricorsi Corte eur. dir. uomo, 28 gennaio 2003, Burg e a. c/ Francia, n. 34763/02), la sensazione chiara è che il prezzo dell'indulgenza è una pesante ingerenza nella valutazione concreta del singolo caso”. Per questo, continua la sentenza n. 18619 del 2016, “è, allora necessario, per la Corte europea, che la Corte suprema si sia almeno "appropriata" della valutazione delle prove operata dai giudici del merito (ad es., Corte eur. dir. uomo, YY c. Turchia, 10 marzo 2015, § 127) o comunque di tutti gli elementi della decisione di questi, purché poi gli uni e l'altra consentano anche alla Corte di legittimità di giungere ad un risultato adeguato e proporzionato nel caso di specie alla tutela del diritto (Corte eur. dir. uomo, 20 ottobre 2015, Di Silvio c. Italia, ove altri riferimenti).”

b) La casistica sull'errore di fatto è notevole.

Tra le ultime pronunzie può essere in questa sede interessante segnalare la più recente giurisprudenza che ha ritenuto integrasse un errore revocatorio (nelle sentenze della Corte di cassazione) l'omesso esame di un motivo di ricorso, non la semplice carenza, nella motivazione della sentenza, di qualsiasi giustificazione "in iure" circa il mancato esame di un motivo pur presente nel ricorso (ciò che integra mera dimenticanza), bensì l'erronea supposizione dell'inesistenza del motivo stesso, ovvero di un fatto processuale, invece, esistente Sez. 6 - 3, Sentenza n. 11530 del 06/06/2016); “l'omesso esame del motivo di ricorso con cui si denuncia la mancata valutazione di una doglianza relativa alla lesione del diritto di difesa, che sarebbe derivata dal ritardo di una decisione della commissione tributaria regionale deliberata in camera di consiglio oltre trenta giorni dopo l'udienza” (Sez. 5, Sentenza n. 17163 del 26/08/2015, in linea con Sez. L, Sentenza n. 362 del 13/01/2010, secondo cui “In tema di revocazione delle sentenze della Corte di cassazione, l'omessa lettura (con la consequenziale assenza di qualsivoglia scrutinio) di alcuni motivi del ricorso per cassazione (nella specie relativi alla valida costituzione del rapporto processuale) configura un errore revocatorio, per essere il giudice di legittimità incorso in un errore di fatto nell'esame degli atti interni al suo stesso giudizio”) ovvero “la pretermissione, da parte della Corte di cassazione, di una doglianza di giudicato esterno fondata su una sentenza di legittimità intervenuta dopo la proposizione del ricorso, ove tale questione sia stata oggetto di specifica eccezione proposta nella memoria depositata ex art. 378 c.p.c. e non presa in considerazione nella disamina del ricorso” (Sez. 6 - 3, Sentenza n. 15608 del 24/07/2015); la decisione della Corte di cassazione che si fondi sull'asserita mancanza della notifica del ricorso per cassazione ove questa, invece, risulti dagli atti (Sez. L, Sentenza n. 14420 del 10/07/2015).

Oltre alla circostanza che l'errore di fatto di cui all'art. 395, n. 4), c.p.c., deve presentare i caratteri dell'evidenza ed obiettività, così da non richiedere lo sviluppo di argomentazioni induttive o indagini (da ultimo Sez. 6 - 5, Ordinanza n. 4456 del 05/03/2015), detto errore, anche quando cada su fatti processuali interni al giudizio della Corte, deve pur sempre essere “decisivo”: si veda in senso negativo Sez. U, Sentenza n. 4413 del 07/03/2016 (secondo cui l'omissione della trattazione in camera di consiglio è una mera irregolarità del procedimento, che non determina violazione dei diritti di difesa, in virtù della più ampia garanzia assicurata dal giudizio in pubblica udienza”); Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 23832 del 20/11/2015 (secondo cui la mancata notifica dell'avviso di fissazione dell'udienza di discussione ai sensi dell'art. 377 c.p.c. costituisce "error in procedendo" che non rientra nelle ipotesi di revocazione delle sentenze della Corte di cassazione, di cui agli artt. 395 n. 4 e 391-bis c.p.c., non potendosi considerare come errore su un fatto processuale su cui è fondata la decisione, attesa la mancanza del requisito della decisività dell'errore e l'inesistenza di un nesso causale diretto fra l'omessa notificazione dell'avviso dell'udienza di discussione ed il contenuto della sentenza adottata dalla Suprema Corte); in senso affermativo Sez. L, Sentenza n. 22520 del 04/11/2015 (con cui la Corte ha invece accolto la revocazione proposta avverso una propria sentenza, che aveva statuito l'improcedibilità del ricorso, per errore di fatto consistente nell'avere erroneamente ritenuto non prodotto il c.c.n.l. invocato a sostengo della domanda diretta ad accertare l'illegittima apposizione del termine al suo contratto di lavoro, ha rigettato la pretesa della lavoratrice).

Infine si può segnalare Cass. n. 11809 del 2015 ove si ammette “che il confine tra erronea percezione della realtà che porti a un travisamento dei fatti e carente o inesatto apprezzamento delle risultanze processuali è un confine non sempre agevole da individuare. Sono censiti in dottrina precedenti, che è superfluo analizzare, in cui l'esame incompleto di una consulenza tecnica è stato ricondotto ora all'una ora all'altra ipotesi. In tali ipotesi si nota una certa ampiezza di vedute nel considerare appropriata ognuna delle impugnazioni che sia stata prescelta dal soccombente”.

Norme procedurali fino alle modifiche di cui al d.l. n. 168 del 2016, conv. in l. n. 197 del 2016

La revocazione si propone con ricorso ai sensi degli articoli 365 e seguenti (per cui valgono le regole generali sui criteri di formulazione del ricorso per cassazione). Conseguentemente si è ritenuto che la domanda di revocazione della sentenza della Corte di cassazione per errore di fatto deve contenere, a pena di inammissibilità, l'indicazione dei fatti di causa ex art. 366 n. 3 c.p.c. (da ultimo Cass. SU n. 13896 del 2015) ovvero l'indicazione del motivo della revocazione, prescritto dall'art. 398, secondo comma, cod. proc. civ. (Cass. Sez. U, n. 13863del2015). Va inoltre ricordato che “il ricorso per revocazione proposto ai sensi dell'art. 391 bis, comma 1, c.p.c. (che richiama i precedenti articoli 365 e seguenti dello stesso codice) deve essere sottoscritto da un difensore munito di procura speciale, con conseguente inutilizzabilità di quella rilasciata per il precedente ricorso per cassazione” (Sez. 1, Sentenza n. 16224 del 31/07/2015).

Trattandosi peraltro di un giudizio caratterizzato da due fasi quella rescindente e quella rescissoria si era formata una giurisprudenza di legittimità alquanto rigorosa circa la esatta o corretta formulazione del ricorso per revocazione in Cassazione. Si era infatti ritenuto che, applicandosi al ricorso per revocazione, a pena di inammissibilità, le stesse regole formali e sostanziali del ricorso per cassazione, tra le quali si menzionava il principio dell'autosufficienza proprio del ricorso per cassazione, il ricorso per revocazione fosse inammissibile qualora contenesse solo la domanda di revocazione della sentenza, idonea a provocare la fase rescindente del giudizio, ma non anche la domanda di decisione sull'originario ricorso con la riproposizione di argomenti e motivi (in quanto un ricorso siffatto non si era ritenuto idoneo ad attivare la eventuale, successiva fase rescissoria: Cass. 3 settembre 2002, n. 12816; Cass. 14 novembre 2006, n. 24203). Sono quindi intervenute nel 2003 con la sentenza n. 17631, le SU, le quali richiamando la sentenza n. 6252 del 1998 (non massimata) nella parte in cui ha affermato che “...pretendere dal ricorrente una meccanica riproposizione in coda alla domanda di revocazione dei motivi di doglianza avverso la sentenza di merito non accolti o non esaminati dalla sentenza di cui si chiede la revocazione, non avrebbe funzione alcuna”, hanno risolto in tal senso il rilevato contrasto. Si è invero affermato che “La domanda di revocazione della sentenza della Corte di Cassazione per errore di fatto, da proporre, in base al disposto dell'art. 391-bis cod. proc. civ., con ricorso ai sensi degli articoli 365 e seguenti, deve contenere, a pena di inammissibilità, l'indicazione del motivo della revocazione, prescritta dall'art. 398, comma secondo, cod. proc. civ. e la esposizione dei fatti di causa rilevanti, richiesta dall'art. 366, n. 3, cod. proc. civ. e non anche la riproposizione dei motivi dell'originario ricorso per Cassazione.”

I termini per la proposizione del ricorso sono stati dall'art. 391-bis, primo comma, c.p.c. specificamente previsti, sia pure ricalcando quelli generali di cui all'art. 325 e 327 c.p.c (“di sessanta giorni dalla notificazione della sentenza, ovvero di un anno dalla pubblicazione della sentenza stessa”). Ciò ha comportato però che la modifica del termine lungo di cui all'art. 327 c.p.c. ad opera dell'art. 46, comma 17, l. 18 giugno 2009, n. 69 (divenuto semestrale) incidesse solo sull'art. 395 c.p.c. (in quanto espressamente citato dall'art. 327 c.p.c.) e non sull'art. 391-bis (recita infatti l'art. 327, primo comma, c.p.c. “Indipendentemente dalla notificazione, l'appello, il ricorso per cassazione e la revocazione per i motivi indicati nei numeri 4 e 5 dell'articolo 395 non possono proporsi dopo decorsi sei mesi dalla pubblicazione della sentenza”). A tale discrasia, frutto di un difetto di coordinamento normativo, si è provveduto con la modifica del primo comma dell'art. 391-bis c.p.c. apportata dalla riforma di cui al d.l. n. 168 del 2016, conv. in l. n. 197 del 2016. Da ricordare, con riferimento al dies a quo di computo del suddetto termine, quanto chiarito da Sez. 6 - 3, Sentenza n. 10854 del 26/05/2015, che prendendo atto del fatto che il giudizio di rinvio a seguito di sentenza rescindente della Corte di cassazione e quello di impugnazione per revocazione di quest'ultima sentenza sono processi autonomi e possono coesistere, salva la possibilità di far valere in sede di rinvio la pregiudizialità logico-giuridica della decisione sulla revocazione della sentenza rescindente che ha disposto il rinvio, i termini per l'impugnazione per revocazione della sentenza rescindente della Corte di cassazione decorrono, in via ordinaria, dalla notificazione o dalla pubblicazione della stessa, ai sensi dell'art. 391 bis, primo comma, cod. proc. civ., e non già dal deposito della sentenza di merito emessa in sede di rinvio.

Quanto al rito, l'originario testo dell'art. 391-bis c.p.c. si limitava a rinviare all'art. 375 c.p.c. (“Sul ricorso la Corte pronuncia in camera di consiglio a norma dell'articolo 375.”), il quale all'epoca prevedeva che la Corte si pronunciasse con ordinanza quando riconoscesse “di dover dichiarare l'inammissibilità del ricorso principale e di quello incidentale, pronunciare il rigetto di entrambi per mancanza dei motivi previsti nell'articolo 360, ordinare la integrazione del contraddittorio o la notificazione di cui all'articolo 332, oppure dichiarare la estinzione del processo per avvenuta rinuncia.”. A tali casi, con la modifica disposta dall'art. 1 della legge 24 marzo 2001, n. 89, si sono aggiunti anche i casi di accoglimento o di rigetto del ricorso per manifesta fondatezza o infondatezza (da decidere comunque con sentenza in camera di consiglio, altrimenti dovendo la Corte rinviare alla pubblica udienza).

A seguito delle modifiche disposte dal d.lgs. n. 40 del 2006, che hanno spostato le norme procedimentali del rito camerale in Cassazione dall'art. 375 c.p.c. (che quindi è venuto a contenere solo i casi oggetto dell'ordinanza camerale, tutti da decidere con ordinanza) in una disposizione ad hoc, il nuovo art. 380-bis c.p.c. (introduttivo della relazione comunicata alle parti contenente la bozza di decisione nei previsti casi di cui all'art. 375), anche l'art. 391-bis, sulla revocazione in Cassazione, è stato contestualmente aggiornato mediante il rinvio (quanto al rito) non più all'art. 375 c.p.c., ma all'art. 380-bis c.p.c. (si è previsto infatti che sulla revocazione “la Corte decide sul ricorso in camera di consiglio nell'osservanza delle disposizioni di cui all'articolo 380-bis.”).

E tuttavia il legislatore delegato del 2006 con la riforma dell'art. 391-bis ha dovuto tenere conto dell'aggiunta delle ipotesi di pronunzie con ordinanza camerale introdotte dall'art. 1 della legge 24 marzo 2001, n. 89 (oltre i casi di inammissibilità, si sono infatti aggiunti anche i casi di accoglimento o di rigetto del ricorso per manifesta fondatezza o infondatezza). Con la conseguenza che operato il rinvio al rito di cui all'art. 380-bis si è stabilito espressamente per la revocazione (nell'art. 391-bis) che l'ordinanza camerale è possibile solo con riferimento alla ipotesi di inammissibilità (id est, terzo comma dell'art. 391-bis: “Sul ricorso per revocazione pronuncia con ordinanza se lo dichiara inammissibile, altrimenti rinvia alla pubblica udienza”). In altri termini, verificata l'insussistenza di ragioni ostative all'ammissibilità della revocazione, si è voluto evitare il rito camerale comportante la pronuncia con ordinanza, per essere il ricorso per revocazione quindi deciso con sentenza (trattandosi di decisione che definisce, nella fase rescissoria, l'impugnazione contro una precedente sentenza di merito con possibili riflessi sul giudicato sostanziale).

Tale assetto proprio della revocazione in Cassazione (quindi con trattazione camerale alla sesta sezione civile nei casi di inammissibilità o, altrimenti, in pubblica udienza avanti alla sezione semplice) è stato mantenuto anche con la riforma di cui al d.l. n. 168 del 2016, conv. in l. n. 197 del 2016, che ha esteso la nuova disciplina del rito (di rinvio all'art. 380-bis c.p.c., nel nuovo testo ora privo della relazione da parte del giudice assegnatario) alle ipotesi regolate dall'art. 391-ter c.p.c.

Sotto altro profilo si deve concludere quindi che non sia applicabile alla revocazione (in quanto non richiamata dal novellato art. 391-bis c.p.c. avente una specifica disciplina procedurale) la norma generale sul rito camerale prevista nel secondo comma dell'art. 375 c.p.c., come introdotto dal d.l. n. 168 del 2016, conv. in l. n. 197 del 2016, secondo cui, dopo la previsione dei casi di pronunzia con ordinanza in camera di consiglio di cui al primo comma, “la Corte a sezione semplice pronuncia con ordinanza in camera di consiglio in ogni altro caso, salvo che la trattazione in pubblica udienza sia resa opportuna dalla particolare rilevanza della questione di diritto sulla quale deve pronunciare, ovvero il ricorso sia stato rimesso dalla apposita sezione di cui all'articolo 376 in esito alla camera di consiglio che non ha definito il giudizio.”

Per un maggiore approfondimento sul tema v. anche Verso un nuovo ruole del pm in Cassazione?

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario