Condanna generica della società fallita: la Cassazione dice no all'improcedibilità
05 Settembre 2016
Massima
La sentenza di condanna generica è diretta al riconoscimento della mera astratta idoneità di un determinato fatto a produrre effetti dannosi, salva restando ogni ulteriore questione sulla concreta sussistenza del danno medesimo, e non ha, pertanto, ad oggetto la individuazione di un credito suscettibile di essere azionato esecutivamente nei confronti della società fallita. Diversamente la dichiarazione di fallimento del debitore osta a che il separato giudizio sul “quantum” possa essere proposto o proseguito in via ordinaria, ed impone che il credito stesso venga insinuato e quantificato nella procedura concorsuale, in sede di formazione e verificazione dello stato passivo. L'azione di responsabilità nei confronti del curatore revocato è rimessa in via esclusiva alla massa dei creditori in pendenza della procedura concorsuale. Il caso
La decisione della Corte trae origine da una vicenda estremamente complessa, che viene affrontata dal S.C. dopo una pluralità di procedimenti nei quali un creditore – a quanto pare ex gestore di impianti di distribuzione di prodotti petroliferi acquisiti alla massa attiva del fallimento Italpetroli – aveva avanzato una domanda di risarcimento dei danni subiti nei confronti della procedura fallimentare (deve ritenersi per la mancata restituzione di incassi derivanti dalla gestione dei suddetti distributori), nonché domanda risarcitoria per mala gestio nei confronti del Curatore revocato ed avverso un aggiudicatario all'asta di uno degli impianti, in quanto asseritamente colluso con il curatore infedele. La Corte d'Appello di Roma aveva dichiarato improcedibile ai sensi dell'art. 51 l. fall. la domanda risarcitoria proposta dall'attore nei confronti del fallimento, improponibile la domanda di condanna al risarcimento dei danni provocati dal Curatore revocato, ex art. 38 l. fall., respinta altresì nel merito la domanda avverso l'aggiudicatario di uno degli impianti di distribuzione carburanti acquisiti all'attivo fallimentare. Avverso tale provvedimento collegiale il soggetto che si riteneva danneggiato dalla procedura fallimentare e dal suo primo Curatore revocato propone ricorso per Cassazione. Le questioni
I motivi di impugnazione avanzati nei confronti della decisione di secondo grado concernono, in sintesi, i seguenti aspetti: a) La sentenza di condanna generica al risarcimento di danni emessa da una precedente decisione del Tribunale di Roma e passata in giudicato, farebbe stato anche sul rito applicabile, con la conseguenza che la successiva domanda in concreto di liquidazione e condanna del risarcimento resterebbe attratta alla competenza del giudice in sede di cognizione ordinaria, non applicandosi perciò il procedimento di verifica di cui agli art. 92 e ss. l. fall.; b) La sentenza impugnata avrebbe altresì violato l'art. 24 l. fall. mancando di rilevare che i danni erano relativi all'insorgenza di un debito post fallimentare della massa alla restituzione di somma trattenute indirettamente attraverso la gestione di impianti di distribuzione di carburante da parte della curatela; secondo il ricorrente l'accertamento di un debito della massa in prededuzione sarebbe sottratto alla verifica concorsuale; c) La domanda risarcitoria svolta nei confronti del Curatore revocato era stata proposta sia a tale titolo, che congiuntamente “in proprio” ed a titolo personale, ex art. 2043 c.c., nei confronti dello stesso soggetto; da cui la violazione dell'art. 38 l. fall. da parte della sentenza censurata, che avrebbe dovuto ritenere proponibile questa seconda azione cumulata a quella tipica nei confronti del curatore; d) Con il quarto motivo si censura il rigetto della domanda risarcitoria svolta (anche) nei confronti di un terzo soggetto, affittuario prima ed aggiudicatario poi di uno degli impianti erogatori di idrocarburi, lamentando l'omessa considerazione di prove ed elementi dimostrativi della “connivenza” di questi con il Curatore revocato. Le soluzioni giuridiche
In primo luogo il S.C. afferma il carattere «palesemente infondato» del primo motivo di impugnazione, posto che una precedente sentenza di condanna generica al risarcimento dei danni, anche se passata in giudicato, non può contenere alcun accertamento, neppure implicito, in ordine al rito applicabile alla successiva controversia avente ad oggetto la quantificazione e la condanna al risarcimento vero e proprio che, viceversa, una volta pronunciato il fallimento, deve necessariamente essere accertata in ambito concorsuale, con le forme previste dall'art. 95 l. fall. La Corte rileva altresì come la precedente pronuncia avesse in realtà ad oggetto la qualificazione di alcuni beni come aziendali o meno, e come tale accertamento potesse al più avere riflessi sull'applicabilità o meno dell'art. 103 l. fall. in combinato disposto con l'art. 24 l. fall. nel testo all'epoca vigente (che faceva salve le competenze ordinarie sulle controversie immobiliari), ma che il dilemma sull'applicazione del rito ordinario o delle forme di insinuazione al passivo neppure si era posto (né avrebbe potuto porsi) in sede di emissione della contestuale sentenza di condanna generica, con salvezza di liquidazione in separato giudizio. Il S.C., ancora, ha ritenuto in proposito inconferente il richiamo alla figura, di creazione giurisprudenziale, della infrazionabilità della tutela processuale del credito, considerato che l'art. 278 c.p.c. espressamente consente la scissione fra giudizio sull'an debeatur e procedimento di quantificazione dello stesso, non potendosi perciò di fronte a tale disposizione espressa richiamarsi alcun «abuso del processo». Del tutto inammissibile viene, invece, considerato il secondo motivo di impugnazione. Da un lato, infatti, non viene indicato alcun titolo specifico che permetta di ricostruire come imputabile alla gestione della massa fallimentare il debito risarcitorio oggetto della pretesa attorea; dall'altro viene in tal modo introdotta una questione del tutto nuova, mai proposta nelle precedenti fasi di merito. Il S.C. ricorda, infine, come l'attuale panorama normativo (cfr. in particolare art. 52, comma 2, secondo cui «ogni credito, anche se munito di diritto di prelazione o trattato ai sensi dell'art. 111, comma 1 , n. 1…deve essere accertato secondo le norme stabilite dal Capo V, salve diverse disposizioni di legge» e l'art. 111-bis, comma 1, che così dispone: «i crediti prededucibili devono essere accertati con le modalità di cui al Capo V, con esclusione di quelli non contestati per collocazione e ammontare…») non esenti affatto i crediti c.d. prededucibili dall'onere di accertamento mediante verifica e formazione dello stato passivo fallimentare (c.d. concorso in senso formale). Con riguardo al terzo motivo di impugnazione, sotto un primo profilo i giudici di legittimità rilevano come una presunta scissione fra azione ex art. 38 l. fall. e azione ex art. 2043 c.c. formulata non nei confronti del Curatore revocato, ma dello stesso come soggetto privato sia del tutto nuova, avendo le parti stesse ed i giudici dei precedenti gradi di giudizio sempre parlato di responsabilità eventualmente occorse nella gestione di beni appartenenti alla massa fallimentare ed in danno dei creditori concorsuali, ed il ricorrente prestato acquiescenza a tale impostazione, non svolgendo alcuna impugnativa al riguardo in sede di gravame. Del pari, la Corte stigmatizza il motivo in esame in quanto privo del requisito dell'autosufficienza. Infine, con riguardo al quarto motivo di impugnazione (oggetto altresì di un ricorso incidentale per difetto di legittimazione che viene contestualmente respinto) il S.C. ne evidenzia l'inammissibilità, in quanto volto a censurare come violazione di diritto ex art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. quello che, al contempo, si dipinge come mero errore di fatto, né è possibile una riqualificazione ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., mancando l'indicazione della prova “decisiva” che, ove considerata dal giudice di merito, avrebbe certamente portato ad un risultato diverso, favorevole al ricorrente.
Osservazioni
Tralasciando in questa sede, per brevità e coerenza con la questione maggiormente approfondita dalla sentenza in commento, ogni riferimento relativo all'azione risarcitoria verso il Curatore, si deve ricordare come l'art. 278 c.p.c. espressamente contempli la figura della sentenza di condanna generica. Si prevede infatti che «quando è già accertata la sussistenza di un diritto, ma è ancora controversa la quantità della prestazione dovuta, il collegio, su istanza di parte, può limitarsi a pronunciare con sentenza la condanna generica alla prestazione, disponendo con ordinanza che il processo prosegua per la liquidazione». Questa figura costituisce, tuttavia, una condanna sui generis, posto che al di là del dato testuale dell'artt. 278 c.p.c., la giurisprudenza da lungo tempo ritiene sufficiente per l'emissione di tale declaratoria iuris la mera astratta rispondenza del fatto dedotto in giudizio a provocare un danno, quindi una semplice presunzione di dannosità della fattispecie azionata. Così, ad esempio, anche recentemente si è affermato che «la pronuncia di condanna generica al risarcimento ex art. 278 c.p.c. si configura come una mera declaratoria iuris da cui esula qualunque accertamento in ordine alla misura e alla concreta sussistenza del danno, con la conseguenza che il giudicato formatosi sull'an non preclude al giudice della liquidazione di negare la sussistenza stessa del danno; l'esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., presuppone che sia provata l'esistenza di danni risarcibili e che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile, per la parte interessata, provare il danno nel suo preciso ammontare» (Cass. civ., 16 marzo 2016, n. 5252, in D&G, 2016, con nota di SAVOIA). Tale statuizione, che trova particolare applicazione in tema di rapporti fra giudizio penale e separato giudizio civile per la liquidazione e la condanna effettiva al risarcimento (cfr. Cass. pen., 6 dicembre 2014, n. 49016 e Cass. civ., 6 novembre 2014, n. 23633), ovvero in tema di concorrenza sleale (su cui, ad es. Cass. civ., 12 febbraio 2009, n. 3478, in Riv. Dir. Ind., 2009, 6, II, 584), non può essere invocata come mero escamotage processuale volto ad evitare una probabile soccombenza. Così nel caso, ad esempio, in cui la richiesta venga avanzata alla luce di una fase istruttoria espletata e sfavorevole alla parte che si ritiene danneggiata. La giurisprudenza consolidata, infatti, ritiene che il passaggio da una domanda di condanna “piena” al risarcimento del danno ad una “generica” costituisca una vera e propria mutatio e non semplice emendatio libelli: «Nel regime delle preclusioni introdotte con la l. 26 novembre 1990, n. 353, è inammissibile il mutamento d'una domanda di condanna piena in condanna generica, a nulla rilevando che il convenuto vi abbia prestato acquiescenza. Il mancato rilievo dell'inammissibilità determina una nullità della sentenza, destinata a convertirsi in motivo di impugnazione, non assumendo rilievo, nuovamente, il comportamento del convenuto, non suscettibile di apprezzamento ai sensi dell'art. 157, comma 3, c.p.c.» (Cass. civ., 14 febbraio 2014, n. 3437, in Guida dir., 2014, 23, 90). Proprio partendo dalle citate caratteristiche della sentenza di condanna generica, la decisione 27 giugno 2016, in commento, ritorna ad occuparsi del tema della compatibilità di tale pronuncia nei confronti di un fallimento e il mancato rispetto delle forme della verifica concorsuale dei crediti previste dal Capo V del Titolo II della Legge fallimentare. La risposta che viene fornita è positiva. In altri termini, l'azione di condanna generica nei confronti del fallimento proposta in sede ordinaria non deve essere dichiarata improcedibile e, ove proposta inizialmente nei confronti dell'imprenditore in bonis, se tempestivamente riassunta nei confronti della curatela dopo l'interruzione determinatasi ex art. 43 l. fall., può ritualmente proseguire. Scorrendo i repertori e le banche dati informatiche, si può notare come tale risposta fosse stata sporadicamente affermata anche da una più antica giurisprudenza. In particolare si può citare Cass. civ., 03 maggio 1988, n. 3294, in Fall., 1988, 768, secondo cui «la controversia promossa per conseguire una pronuncia di condanna generica al risarcimento del danno, con il riconoscimento della mera astratta idoneità di un determinato fatto alla produzione di effetti dannosi, salva restando ogni ulteriore questione sulla concreta sussistenza del danno medesimo, non ha ad oggetto l'individuazione di un credito, e, pertanto, resta insensibile alla sopravvenienza del fallimento del convenuto, sottraendosi tanto alle regole di competenza di cui all'art. 24 l. fall., quanto alle disposizioni dettate dall'art. 95 della legge stessa in tema di verificazione dei crediti, nè può essere soggetta a sospensione, in relazione all'eventuale pendenza di opposizione avverso la mancata ammissione al passivo del credito, avendo l'indicato accertamento un carattere logicamente prioritario rispetto alle questioni devolute al giudice di tale opposizione» (in termini non dissimili, con riferimento al valore della sentenza di condanna generica nei confronti della compagnia assicuratrice della RCA posta in liquidazione coatta amministrativa, cfr. Cass. civ., 14 marzo 1985, n. 1979, in Fall., 1985, 837). In termini ancora più netti la remota Cass. civ., 03 marzo 1980, n. 1405, in Giur. comm., 1980, II,655: «L'insinuazione al passivo di un credito riconosciuto da sentenza di condanna generica non passata in giudicato può essere respinta, senza la necessità di impugnazione della condanna generica ad opera del curatore». Questa, in effetti, appare la vera ratio decidendi della sentenza in commento: come il G.D. può in sede di verificazione dello stato passivo escludere la sussistenza del credito oggetto della sentenza di condanna generica, anche se ottenuta nei confronti della curatela ed anche se passata in giudicato, così il Curatore può ai sensi dell'art. 95 l. fall. proporre l'esclusione e contestare la sussistenza del predetto credito, non essendo onerato a proporre una preventiva impugnazione della stessa sentenza. Naturalmente, poi, tale soluzione, e quindi l'assenza di qualunque vincolo sulla sussistenza concreta del diritto di credito si imporrà, a maggior ragione, ove tale tipo di sentenza sia ottenuta nei confronti della impresa in bonis (sia perché emanata ante fallimento, sia perché emessa all'insaputa della vicenda interruttiva concorsuale verificatasi nel corso del giudizio di condanna generica). Come un passaggio della sentenza sembra incidentalmente ricordare, è altresì irrilevante la natura del credito e la sua predicabilità in termini di prededucibilità. Anche in questo caso deve ritenersi che la sentenza di condanna generica non determini alcun vincolo in sede fallimentare, considerato che la necessità di liquidazione ed accertamento concreto del diritto mediante le forme della verifica dello stato passivo si impone, come gli artt. 52, comma 2 l. fall. e art. 111-bis, comma 1 l. fall. sono lì a ricordare, anche per i crediti prededucibili diversi SAVOIA, La pronuncia di condanna generica al risarcimento non preclude al giudice di negare la sussistenza del danno, in D&G, 2016, 17 marzo; MONTANARI, Verificazione del passivo fallimentare e cause connesse, in Giur. Comm. 2016, 2, 146; AMATORE, Lo stato passivo nel fallimento, Milano, 2013; FERRO, Le insinuazioni al passivo, Padova, 2010. |