Le nuove norme processuali del giudizio civile di cassazione contenute nella legge di conversione del d.l. n. 168/2016

Eduardo Campese
06 Dicembre 2016

La l. 25 ottobre 2016 n. 197, di conversione del d.l. 31 agosto 2016, n. 168, - recante «Misure urgenti per la definizione del contenzioso presso la Corte di cassazione, per l'efficienza degli uffici giudiziari, nonchè per la giustizia amministrativa» - ha introdotto molteplici modifiche al giudizio di legittimità, tra le quali spicca, per importanza, la generalizzata cameralizzazione della trattazione dei ricorsi civili.
Premessa

La l. 25 ottobre 2016 n. 197, di conversione del d.l. 31 agosto 2016, n. 168, recante «Misure urgenti per la definizione del contenzioso presso la Corte di cassazione, per l'efficienza degli uffici giudiziari, nonchè per la giustizia amministrativa» ha introdotto molteplici modifiche al giudizio di legittimità, tra le quali spicca, per importanza, la generalizzata cameralizzazione della trattazione dei ricorsi civili.

In sostanziale contestualità con tale intervento, peraltro, il Primo Presidente della Corte ha emesso - in data 14 settembre 2016 - un decreto intitolato «La motivazione dei provvedimenti civili: in particolare, la motivazione sintetica», nel quale si prevede che, in sede di deliberazione della decisione, i provvedimenti che attengono allo ius constitutionis siano distinti dagli altri, e che, per i provvedimenti non aventi valenza nomofilattica, vengano adottate «tecniche più snelle di redazione motivazionale», comprendenti la possibile eliminazione dell'esposizione dei fatti di causa e dei motivi di ricorso (quando gli uni o gli altri emergano dalle ragioni della decisione), nonché l'utilizzazione di appositi moduli, da elaborare con l'apporto del CED, per specifiche questioni su cui la giurisprudenza delle Corte risulti consolidata.

Il quadro complessivo che emerge dal concorso di tali novità procedimentali con quelle della tecnica redazionale dei provvedimenti appena menzionate disegna, allora, un giudizio di legittimità a doppio binario: da un lato, quello delle controversie a valenza nomofilattica, destinate alla trattazione in pubblica udienza ed alla definizione con sentenza; dall'altro, quello (tendenzialmente destinato a ricevere la maggior parte del contenzioso) delle liti prive di una siffatta valenza, da avviarsi alla trattazione camerale ed alla definizione con ordinanza, da motivare secondo le più snelle tecniche redazionali cui sopra si è fatto cenno.

Un giudizio di legittimità così rimodellato dovrebbe consentire - semplificando, per la maggior parte delle cause (quelle prive di valenza nomofilattica), la procedura di trattazione e le modalità di redazione del provvedimento decisorio - un aumento del numero complessivo delle decisioni, e ciò, tutelando il valore della ragionevole durata del processo, potrebbe bilanciare, nella prospettiva dell'articolo 6 CEDU, il sacrificio del valore della pubblicità dell'udienza, derivante dal ribaltamento del rapporto regola/eccezione tra la trattazione in udienza pubblica e quella in camera di consiglio.

La riforma di cui al d.l. 31 agosto 2016, n. 168, conv., con modif., dalla l. 25 ottobre 2016, n. 197: un primo, sintetico esame

Il menzionato d.l. n. 168/2016 (in Gazzetta Ufficiale - Serie generale - n. 203 del 31 agosto 2016), aveva previsto novità solo di tipo ordinamentale, quali quelle della partecipazione ai collegi di Cassazione di un magistrato dell'Ufficio del Massimario, o della possibilità di dare accesso a stagisti anche presso la Suprema Corte.

La sua legge di conversione, n. 197/2016 (in Gazzetta Ufficiale - Serie generale - n. 254 del 29 ottobre 2016), invece, è intervenuta sul processo innanzi alla medesima Corte, attraverso un nuovo articolo 1-bis, introdotto nel corso dell'esame presso la Camera dei Deputati, recante numerose modifiche a quel processo.

Queste ultime - in verità non lontane dai principi ispiratori del documento conclusivo dell'Assemblea generale della Corte di cassazione del 25 giugno 2015 - ricalcano sostanzialmente il contenuto dei principi di delega previsti dall'art. 1, comma 2, lett. c), dell'A.S. 2284 («Delega per la riforma del processo civile»), già approvato da detta Camera ed attualmente all'esame della Commissione giustizia del Senato.

In particolare, il comma 1 della disposizione generalizza l'uso della trattazione in camera di consiglio nei procedimenti civili che si svolgono dinanzi alle sezioni semplici della Corte e modifica la procedura del cd. filtro in Cassazione.

Analiticamente:

  • con la modifica dell'art. 375 c.p.c., si prevede che la Corte, quando la controversia è assegnata ad una sezione semplice, e non alle Sezioni Unite, pronuncia con ordinanza in camera di consiglio, e che si ricorre all'udienza pubblica solo se la sezione filtro non riesce a definire il giudizio in camera di consiglio o se la questione di diritto sulla quale la Corte si deve pronunciare riveste una particolare rilevanza (lett. a));
  • la lettera b), modificando l'art. 376 c.p.c., precisa che, se il ricorso supera il filtro preliminare di inammissibilità/infondatezza, il presidente rimette gli atti alla sezione semplice, omettendo ogni formalità;
  • con la modifica dell'art. 377 c.p.c., prevista dalla lettera c), si rimette ad un decreto del presidente (della Corte di cassazione, della sezione semplice o della sezione filtro) l'ordine di integrazione del contraddittorio o di esecuzione della notificazione dell'impugnazione a norma dell'art. 332 c.p.c., o della sua rinnovazione (nella precedente disciplina la Corte vi provvedeva con ordinanza in camera di consiglio ex art. 375, n. 2, oggi abrogato);
  • la lettera d) interviene sull'art. 379 c.p.c. invertendo l'ordine di intervento delle parti nella discussione: dopo quello del relatore spetta, infatti, al P.M. esprimere, oralmente, le sue conclusioni motivate; solo successivamente saranno i difensori delle parti a svolgere le loro difese. Non sono ammesse repliche ed è soppressa la disposizione che consentiva alle parti di presentare in udienza brevi osservazioni scritte sulle conclusioni del PM.;
  • la lettera f) introduce nel codice di rito il nuovo art. 380-bis.1, volto a disciplinare il procedimento camerale dinanzi alle sezioni semplici. In base a tale disposizione, il P.M. e le parti dovranno ricevere comunicazione della fissazione della camera di consiglio almeno 40 giorni prima; il P.M. potrà depositare le sue conclusioni scritte non oltre 20 giorni prima della camera di consiglio, mentre le parti non oltre 10 giorni prima dell'adunanza. La Corte giudicherà sulla base delle carte depositate, senza intervento di P.M. e parti;
  • con la modifica dell'art. 380-bis c.p.c. si interviene sul procedimento filtro dinanzi alla apposita sezione civile della Corte, per eliminare la relazione del consigliere che, come si ricorderà, depositata in cancelleria, doveva contenere una concisa esposizione delle ragioni che potevano giustificare la pronuncia di inammissibilità o di manifesta infondatezza del ricorso. La riforma accelera i tempi rimettendo allo stesso presidente, in sede di fissazione dell'adunanza, l'indicazione di eventuali ipotesi filtro. Se la camera di consiglio della sezione filtro non ritiene che ricorrano le ipotesi di inammissibilità o manifesta infondatezza/fondatezza, rimette la causa alla pubblica udienza di una sezione semplice (lettera e));
  • la disposizione modifica, altresì, il procedimento per la decisione sulle istanze di regolamento di giurisdizione e di competenza, intervenendo sull'art. 380-ter c.p.c.. La riforma, alla lettera g), prevede che tanto il P.M. quanto le parti possano interagire con la Corte esclusivamente per iscritto, escludendo la possibilità di essere sentiti; la camera di consiglio decide senza l'intervento delle parti;
  • con le modifiche agli artt. 390 e 391 (rispettivamente lettere h) e i)) c.p.c., si ampliano i termini per rinunciare al ricorso (e si coordina il codice con la soppressione dall'art. 375, n. 3);
  • infine, la lettera l) interviene sull'art. 391-bis c.p.c., distinguendo il procedimento di correzione degli errori materiali da quello di revocazione delle sentenze della Cassazione. Nel primo caso, infatti, si prevede che l'esigenza di una correzione possa essere rilevata d'ufficio dalla Corte o richiesta dalle parti senza limiti di tempo (fino ad ora, doveva essere richiesta entro 60 giorni dalla notificazione della sentenza o entro un anno dalla sua pubblicazione). Nel secondo, invece, la revocazione può essere chiesta entro 60 giorni dalla notificazione o sei mesi dalla pubblicazione; se la Corte ritiene la richiesta inammissibile pronuncia in camera di consiglio, diversamente provvede in pubblica udienza.

Va, poi, sottolineato che il comma 2 del suddetto art. 1-bis, reca una disposizione transitoria, prevedendo che la riforma del procedimento di cassazione si applica «ai ricorsi depositati successivamente alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, nonchè a quelli già depositati alla medesima data per i quali non è stata fissata udienza o adunanza in camera di consiglio».

La descritta riforma, entrata in vigore il 30 ottobre 2016, almeno prima facie sembra ricavare dalla proposta di riforma già ipotizzata dalla cd. Commissione Vaccarella (Istituita con d.m. 28 giugno/4 luglio 2013 del Ministro della Giustizia per elaborare proposte di interventi nel processo civile (la cd. Commissione Vaccarella), depositò, il 3 dicembre 2013, una relazione ed un articolato quale esito dei propri lavori) la dilatazione del rito camerale, e da quella cd. Berruti (Il frutto dei cui lavori è confluito nel disegno di legge n. 2953, avente per oggetto la «Delega al Governo recante disposizioni per l'efficienza del processo civile», presentato l'11 marzo 2015 alla Camera dei Deputati, da quest'ultima approvato ed attualmente all'esame della Commissione giustizia del Senato (A.S. 2284, di cui si è già detto nel testo). l'eliminazione del contraddittorio con il giudice, tale dovendosi qualificare l'articolo 380-bis c.p.c. nel previgente dettato per cui le parti esprimono la loro posizione su quella sorta di provvedimento ipotetico che deve depositare il relatore ed il collegio, infine, da ciò trae gli esiti.

La differenza con il progetto Vaccarella si focalizza nella mancata unificazione del rito camerale delle sezioni semplici, che tale progetto prevedeva ampliando in sostanza l'art. 380-bis c.p.c., mentre nella legge appena promulgata si crea una biforcazione: decisione da parte della sezione semplice ai sensi dell'art. 375, comma 2, o decisione da parte della sezione semplice a ciò specificamente destinata ("apposita") ex articolo 380-bis c.p.c. (attualmente, secondo la ripartizione tabellare, sesta sezione civile della Corte di cassazione).

L'assegnazione dei ricorsi alle sezioni

L'art. 376, comma 1, c.p.c., come novellato, dopo aver sancito - in parte qua riproducendo il medesimo testo precedente - che «il primo presidente, tranne quando ricorrono le condizioni previste dall'articolo 374, assegna i ricorsi ad apposita sezione, che verifica se sussistono i presupposti per la pronuncia in camera di consiglio ai sensi dell'articolo 375, primo comma, numeri 1) e 5), prevede che se, a un sommario esame del ricorso, la suddetta sezione non ravvisa tali presupposti, il presidente, omessa ogni formalità, rimette gli atti alla sezione semplice». In tali sensi risulta quindi modificata la precedente dicitura secondo cui se la sezione non definisce il giudizio, gli atti sono rimessi al Primo Presidente, che procede all'assegnazione alle sezioni semplici.

Sembra, allora, doversi ricavare che, se, all'esito di un primo, sommario esame la sezione “apposita” (attualmente la sesta sezione civile) non ravvisi la sussistenza di un'ipotesi di inammissibilità del ricorso, ovvero di una sua manifesta fondatezza o infondatezza, il presidente della stessa rimetta gli atti alla sezione semplice (e non più al Primo Presidente della Corte di cassazione affinché proceda all'assegnazione alla sezione semplice).

Il riferimento contenuto nella disposizione sia alla sezione sia al presidente, nonostante prima facie potrebbe apparire come un errore di formulazione, deve essere considerato corretto e voluto, atteso che il rilievo dell'impossibilità di definire integralmente il procedimento ai sensi dei nn. 1 o 5 dell'art. 375 può essere compiuto sia dal Presidente della Sezione, in sede di assegnazione della causa, sia dal consigliere relatore prima della fissazione dell'adunanza in camera di consiglio: in entrambi i casi la rimessione alla sezione semplice può essere disposta con decreto del Presidente della Sesta sezione senza la necessità di investire il collegio (Cfr. G. FINOCCHIARO, Eliminata la fase di discussione nel procedimento in camera di consiglio innanzi alla S.C., in Il Quotidiano Giuridico, 8 novembre 2016, Milano).

Si badi, peraltro, che ove la rimessione alla sezione semplice sia disposta ai sensi di questa disposizione, la causa in linea di principio dovrà essere decisa in camera di consiglio con ordinanza (salvo che la trattazione in pubblica udienza sia resa opportuna dalla particolare rilevanza della questione di diritto sulla quale deve pronunciare), atteso che, come osservato sopra, la trattazione in pubblica udienza della causa, ai sensi del nuovo comma 2 dell'art. 375 c.p.c., è obbligatoria soltanto qualora la rimessione dalla Sesta Sezione sia pronunciata «in esito alla camera di consiglio che non ha definito il giudizio» (e non anche in conseguenza del decreto presidenziale).

Merita, allora, di essere segnalata la perplessità di chi (Cfr. C. TRAPUZZANO, Rito camerale in cassazione: proposta, decreto, ordinanza, in ilProcessoCivile.it), muovendo dalla considerazione che, ormai, il modello ordinario di decisione in cassazione è quello camerale, si è chiesto se non era forse il caso di prevedere un rito camerale unico.

In altri termini, alla luce di tale modello ordinario prevalente (rectius: il rito camerale), ha ancora senso l'esistenza di una sezione-filtro? O il filtro può essere operato direttamente nelle sezioni semplici?

La trattazione delle controversie in pubblica udienza

Benchè dalla lettura del nuovo comma 2 dell'art. 375 c.p.c. si desuma, ictu oculi, che la “regola” circa le modalità di trattazione e di decisione dei ricorsi presso le Sezioni semplici sarà, d'ora in avanti, la pronuncia di una “ordinanza” in esito ad un procedimento da svolgersi in “camera di consiglio”, relegandosi, pertanto, ad ruolo affatto residuale il loro esame in pubblica udienza, sembra opportuno intraprendere un più approfondito studio della riforma de qua cominciando proprio dall'analisi delle novità procedimentali introdotte per la trattazione delle controversie in pubblica udienza e, soprattutto, dalla individuazione della concreta tipologia di queste ultime ivi destinate a confluire.

In ordine al primo aspetto, dal modificato art. 379 c.p.c. emergono, da un lato, il mutamento dell'ordine di discussione, essendo venuta meno la regola, sovente criticata e da molti ritenuta anacronistica, per cui il rappresentante della Procura Generale parla per ultimo: a seguito della novella, infatti, «dopo la relazione, il presidente invita il Pubblico Ministero a esporre oralmente le sue conclusioni motivate e, quindi, i difensori delle parti a svolgere le loro difese»; dall'altro, l'eliminazione della possibilità, per questi ultimi, di presentare brevi osservazioni scritte sulle conclusioni del Pubblico Ministero, che sembra essere la naturale conseguenza proprio dell'appena descritta inversione dell'ordine di discussione.

Su tale punto, pertanto, non sembra necessario dilungarsi ulteriormente, se non per rammentare che il Primo Presidente, per i ricorsi assegnati alle Sezioni Unite, ed il Presidente della sezione per quelli destinati alle sezioni semplici, su presentazione del ricorso a cura del cancelliere, fissano l'udienza pubblica e nominano il relatore, e che di detta udienza è data comunicazione dal cancelliere agli avvocati delle parti almeno venti giorni prima.

Interesse certamente maggiore suscita, invece, l'individuazione della concreta tipologia di controversie destinate ad essere trattate in pubblica udienza, le quali, ai sensi del novellato art. 375, ultimo comma, c.p.c., sono, esclusivamente, quelle in cui una siffatta trattazione «sia resa opportuna dalla particolare rilevanza della questione di diritto” sulla quale [la Corte] deve pronunciare» e quelle il cui ricorso «è stato rimesso dall'apposita sezione di cui all'art. 376 in esito alla camera di consiglio che non ha definito il giudizio».

Questa seconda ipotesi non sembra porre alcun problema interpretativo, né organizzativo: i procedimenti da trattare alla pubblica udienza sono ben individuati e corrispondono a quelli rimessi dalla Sesta Sezione in esito alla camera di consiglio che non abbia definito il giudizio per la ritenuta insussistenza di fattispecie riconducibili a quelle disciplinate dall'art. 375, comma, 1, nn. 1 e 5.

Si tratterà, semmai, di adottare organizzare la cancelleria in modo che si provveda a marcare visivamente tali fascicoli, a custodirli separatamente dagli altri ed a sottoporli ai Presidenti di Sezione per la fissazione della pubblica udienza ai sensi dell'art. 377 c.p.c..

Più difficoltosa è, invece, tanto sul piano interpretativo quanto su quello attuativo ed organizzativo, la prima delle suddette ipotesi, la quale implica che l'individuazione dei ricorsi da trattare in pubblica udienza sia il risultato di una valutazione, di un apprezzamento discrezionale, che deve riguardare due profili:

a) la «particolare rilevanza» della questione di diritto sulla quale la Corte è chiamata a pronunciare

b) la «opportunità» che tale questione sia trattata all'udienza pubblica.

Occorre, allora, domandarsi, nell'ordine:

  1. chi debba provvedere alla suddetta valutazione;
  2. quando ricorrano, effettivamente, la «particolare rilevanza» della questione di diritto e la «opportunità» della sua trattata all'udienza pubblica.

In particolare, il quesito sub 1) nasce dalla circostanza che il novellato art. 375, comma 2, c.p.c. non indica chi abbia il potere di valutare l'opportunità della trattazione del ricorso all'udienza pubblica: se questa scelta postuli una decisione della Corte, nella sua composizione collegiale, ovvero del relatore, ovvero del presidente del collegio, o del presidente della sezione.

L'eventuale adesione alla prima soluzione appesantirebbe, come appare evidente, il compito della Corte, perché il collegio dovrebbe preventivamente valutare se il ricorso possa essere deciso in camera di consiglio o se debba essere trattato all'udienza e, poi, decidere su di esso, così imponendo, di fatto, una doppia valutazione.

Tra i primi commentatori della riforma vi è stato, allora, chi (L. LOMBARDO, Prime riflessioni sulla riforma del giudizio di cassazione, p. 4-5. A conclusioni analoghe giunge, almeno in prima battuta, anche A. DIDONE, Appunti a prima lettura sulla riforma del giudizio di Cassazione, in ilProcessoCivile.it.) ha sostenuto che, formalmente, tale compito spetti, indubbiamente, al presidente della sezione, non mancandosi, però, di sottolineare come sia evidentemente poco realistico pensare che egli possa esaminare tutti i fascicoli che gli pervengono al fine di individuare quelli per i quali sussiste l'opportunità di fissare l'udienza pubblica.

Il presidente, dunque, deve essere necessariamente supportato, ed a tale scopo le soluzioni proponibili sembrano varie.

Si è, invero, sostenuto (L. LOMBARDO, op. cit., p. 4-5.) che - allo stato della normativa processuale vigente - dovrebbe escludersi la possibilità di anticipare la nomina del relatore ad una fase antecedente alla fissazione dell'adunanza camerale o della pubblica udienza, devolvendogli, così, il compito di provvedere, dopo lo spoglio sezionale, a proporre al presidente, a seguito di approfondito studio del ricorso, la fissazione dell'adunanza camerale ovvero, nei casi previsti dall'art. 375 c.p.c., la trattazione del ricorso in pubblica udienza.

L'art. 377 c.p.c. dispone, infatti, che il presidente «su presentazione del ricorso a cura del cancelliere, fissa l'udienza o l'adunanza della camera di consiglio e nomina il relatore», sicchè la nomina del relatore non potrebbe precedere l'adozione del decreto di fissazione della adunanza camerale o della pubblica udienza.

Conseguentemente - prosegue tale opinione - la selezione dei ricorsi per i quali fissare la pubblica udienza andrebbe affidato all'ufficio spoglio sezionale (pur nella consapevolezza delle difficoltà nelle quali verrà a trovarsi), il cui compito, però, dovrebbe esaurirsi nella formulazione di una semplice proposta di trattazione in pubblica udienza, con la segnalazione al presidente titolare delle questioni di diritto che appaiono di particolare complessità e per le quali potrebbe essere opportuna una siffatta trattazione.

Dovrà essere poi quest'ultimo (o i presidenti di sezione da lui delegati) a decidere se sussistano effettivamente le condizioni per derogare alla “regola” della trattazione con adunanza camerale, così da assicurare, altresì, al dirigente della sezione il controllo sui flussi dei procedimenti e sulle modalità di decisione dei ricorsi.

Una parzialmente diversa ipotesi ricostruttiva è stata prospettata da chi (A. DIDONE, op. cit., p. 5.), pur muovendo dal presupposto che la decisione di fissazione dell'udienza pubblica sia rimessa al presidente della sezione, non esclude la possibilità - peraltro praticata nel penale e nella Sesta Sezione civile - di una sua delega ad un consigliere, che resta nominato relatore sia che suggerisca la camera di consiglio sia che proponga la pubblica udienza.

Dal medesimo Autore si assume, inoltre, che un'alternativa organizzativa potrebbe essere nel senso che la decisione sia rimessa al presidente di sezione non titolare, al quale sia delegata un'intera materia, coadiuvato da assistenti di studio o da consiglieri esperti della stessa, così da poter decidere l'accorpamento di ricorsi da trattare in via camerale e selezionare, invece, quelli meritevoli di trattazione in pubblica udienza, sempre che il ricorso evidenzi «una particolare rilevanza della questione di diritto».

Passando, poi, all'ulteriore quesito riguardante la concreta individuazione dei ricorsi da trattare in pubblica udienza, sotto il duplice profilo del riscontro della «particolare rilevanza» della questione di diritto sulla quale la Corte è chiamata a pronunciare e della «opportunità» di una sua siffatta trattazione, sembra innegabile che la «particolare rilevanza» ex art. 375, comma 2, c.p.c., non sia da intendersi come «questione di massima di particolare importanza», alla stregua dell'art. 374, comma 2, c.p.c., tale da imporre prima facie la rimessione al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite.

A ciò, semmai, provvederà il collegio all'esito della pubblica udienza ovvero anche dell'adunanza in camera di consiglio.

Fermo quanto precede, lo stabilire quali siano le questioni di diritto di «particolare rilevanza», tra quelle sottoposte al giudizio della Corte, postula la valutazione della loro valenza nomofilattica alla stregua della capacità della relativa decisione di svolgere la funzione di indirizzo della giurisprudenza.

Muovendo da tale assunto, appare non implausibile ritenere - così pienamente condividendosi le corrispondenti argomentazioni utilizzate dai primi commentatori della riforma (Cfr. L. LOMBARDO, op. cit., p. 3-4; A. DIDONE, op. cit., p. 5.) - che, ai fini dell'apprezzamento suddetto, debbano essere innanzitutto considerate:

  • le questioni di diritto nuove, che, come tali, offrono alla Corte l'occasione per enunciare nuovi principi di diritto perché chiamata a pronunziarsi sull'interpretazione di una nuova disciplina normativa o perché una disciplina normativa viene comunque sottoposta per la prima volta alla sua attenzione;
  • le questioni che pongono un problema di perimetrazione dell'area applicativa di principi di diritto esistenti;
  • le questioni, in passato già affrontate e risolte dalla giurisprudenza di legittimità, per le quali viene invocata, purché con argomentazioni serie, l'adozione di principi di diritto modificativi di quelli esistenti.

Merita di essere rimarcato, peraltro, che la «particolare rilevanza» delle questioni di diritto deve essere vagliata in funzione dell'interesse non privato delle parti, bensì esclusivamente pubblico ai fini dell'indirizzo della giurisprudenza (a tutela dello ius constitutionis).

Non va dimenticato, infine, che, per poter disporre la trattazione in pubblica udienza, non è sufficiente che la questione di diritto sia di «particolare rilevanza», occorrendo, invero, anche l'ulteriore presupposto, espressamente richiesto dalla legge, che una siffatta trattazione risulti opportuna, che, cioè, sia ritenuta tale all'esito di un approfondito esame delle suddette questioni sottoposte alla Corte che ne lasci intravedere la potenziale utilità della discussione orale ai fini della loro decisione.

In definitiva, se non si vuole svuotare la riforma della sua forza innovatrice e tradire la volontà del legislatore, la valutazione della sussistenza dei due presupposti, finora esaminati, per la trattazione del ricorso in udienza pubblica dovrà sempre tenere necessariamente presente che, alla stregua del novellato art. 375 c.p.c., l'udienza pubblica presso le sezioni semplici dovrà costituire un'eccezione alla regola generale secondo cui i ricorsi vanno trattati in adunanza camerale.

Il nuovo giudizio camerale di Cassazione

Come si è già anticipato, la riforma in esame, per la parte che qui specificamente interessa, ha inteso generalizzare la procedura camerale (cfr. art. 380-bis.1 c.p.c.), contestualmente eliminando da quest'ultima il meccanismo della cd. “ordinanza opinata”, impedendo in pari tempo alle parti di essere sentite oralmente e lasciando loro solo il potere di redigere memorie scritte da depositare dieci (cinque per i procedimenti ex art. 380-bis e 380-ter c.p.c.) giorni prima della adunanza in camera di consiglio.

Sul primo profilo, rileva l'inserimento del comma 2 dell'art. 375 c.p.c., stando al quale la Corte a sezione semplice pronuncia con ordinanza in camera di consiglio, non più nei soli casi sinora enumerati nel comma 1 (Dal comma 1 dell'art. 375 c.p.c. sono state eliminate le ipotesi di cui ai nn. 2 e 3 (oggi trattate con decreto “preliminare” presidenziale ex art. 377, comma 3, c.p.c.) del medesimo articolo, ma anche «in ogni altro caso».

Alla nuova regola della decisione «con ordinanza in camera di consiglio» si può adesso derogare - così da consentire lo svolgimento della pubblica udienza - solo se la questione di diritto sulla quale la Corte si deve pronunciare rivesta una particolare importanza oppure se la sezione filtro non riesca a definire il giudizio in camera di consiglio.

Fuori da queste ipotesi, la pubblica udienza (con la discussione orale che ne rappresenta il fulcro) scompare, e con essa, nei casi corrispondenti, viene meno il principio fondamentale di pubblicità del procedimento.

Sul secondo profilo, sono decisive, soprattutto, la riscrittura degli artt. 380-bis e 380-ter c.p.c., nonchè l'introduzione del nuovo art. 380-bis 1 c.p.c., nella parte in cui stabiliscono, rispettivamente per il «procedimento per la decisione in camera di consiglio sull'inammissibilità o sulla manifesta fondatezza o infondatezza del ricorso, per quello riguardante la decisione sulle istanze di regolamento di giurisdizione e di competenza e per quello afferente la decisione in camera di consiglio dinanzi alla sezione semplice», che la Corte giudica senza l'intervento del Pubblico Ministero (che può nondimeno, esclusi i procedimenti trattati dalla Sezione filtro, depositare le sue conclusioni scritte non oltre venti giorni prima dell'adunanza in camera di consiglio) e delle parti (cui resta, come detto, il potere di depositare memorie non oltre dieci giorni - cinque se si tratti di decisioni da adottarsi dalla Sezione filtro ove quest'ultima ravvisi l'esistenza di una delle ipotesi di cui all'art. 375, comma 1, nn. 1] e 5], c.p.c., oppure debbano decidersi regolamenti di giurisdizione o di competenza - prima della adunanza).

Non c'è più la relazione del giudice relatore, sulla quale poteva aprirsi il contraddittorio scriptis e verbis delle parti prima della pronunzia della cd. “ordinanza opinata”, nè vi è più la possibilità per gli avvocati delle parti, se comparsi, di essere sentiti oralmente, non potendo più comparire, gli stessi, in futuro nell'adunanza in camera di consiglio.

La valutazione della compatibilità, o meno, di una siffatta modifica con l'art. 6 Cedu è oggetto di altro specifico contributo di questa sezione, sicchè se ne omette qui ogni altra valutazione, ricordandosi, soltanto, che la pubblica udienza non è necessariamente richiesta in un grado di impugnazione destinato alla trattazione di sole questioni di diritto (o concernente comunque materie le cui peculiarità meglio si attagliano a una trattazione scritta) ove un'udienza siffatta si sia comunque tenuta in un precedente grado di merito, atteso che sfuggono all'esame del giudice di legittimità gli aspetti in rapporto ai quali l'esigenza di pubblicità delle udienze è più avvertita, quali, a mero titolo esemplificativo, l'assunzione delle prove, l'esame dei fatti, l'apprezzamento della proporzionalità tra fatto e sanzione, etc. (Cfr., al riguardo, sentenze Corte EDU 10 febbraio 1983, Albert e Le Compte contro Belgio; 23 giugno 1981, Le Compte, Van Leuven e De Meyere contro Belgio; nonché, più di recente, Grande Camera, sentenza 11 luglio 2002, Goc contro Turchia. Ed in tal senso va, del resto, segnalata Cass. 18.7.2008, n. 19947, a tenore della quale «l'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo non prevede che tutta l'attività processuale debba svolgersi pubblicamente, ma assicura (salve talune specificate eccezioni) al soggetto che debba far valere i suoi diritti o debba veder determinati i suoi doveri o debba rispondere di un'accusa il diritto ad una pubblica udienza, in tal senso esigendo che il processo debba prevedere un momento di trattazione in un'udienza pubblica; pertanto, una volta che nel corso dello svolgimento del processo tale diritto sia stato assicurato, non è imposto dalla suddetta Convenzione che tutto il resto dello svolgimento processuale debba compiersi in udienza pubblica. Ne consegue che nella fase di impugnazione in sede di legittimità non può reputarsi necessario che la decisione debba avvenire in udienza pubblica, dovendosi così escludere la sussistenza di un contrasto tra il citato art. 6 della CEDU e la disciplina dettata dall'art. 375 c.p.c. (nelle sue varie versioni) sul procedimento in camera di consiglio». Deve ricordarsi, infine, che Cass. 18 giugno 2012, n. 9993, e Cass. 16 marzo 2012, n. 4268, che si occuparono del procedimento ex art. 380-ter, come inserito dall'art. 11, comma 1, del d.lgs. n. 40 del 2006, per la decisione sul regolamento di giurisdizione e su quello di competenza, che, limitatamente a quest'ultimo, già non contemplava la possibilità per le parti di essere sentite in camera di consiglio (del tutto analogamente a quanto oggi sancito dal medesimo articolo, come riformato, per la decisione di entrambi i citati regolamenti), sancirono l'insussistenza di un suo insanabile contrasto con l'art. 6 Cedu).

Fermo quanto precede, la riforma ha suscitato perplessità (Cfr. il documento in data 3 ottobre 2016, indirizzato al Ministro della Giustizia dall'Associazione italiana fra gli studiosi del processo civile.) quanto all'asserita evanescenza econtraddittorietà dei criteri ed alle modalità operative in base ai quali la scelta del rito, camerale o in pubblica udienza, deve esserecompiuta, sembrandosi così intravedere, sullo sfondo, potenziali lesioni dell'inviolabile diritto di difesa, nella sua accezione più ampia, di cui all'art. 24 Cost., e del giusto processo regolato dalla legge garantito dall'art. 111 Cost..

Tra i primi commentatori, c'è chi (Così A. DIDONE, op. cit., p. 7) ha già spiegato che la scelta del rito ad opera del collegio può intervenire solo all'esito dell'adunanza camerale dell'«apposita sezione», ossia la Sesta civile, qualora il collegio non condivida la sommaria valutazione fatta dal Presidente, su proposta del relatore, così come accade oggi.

La differenza con la disciplina finora vigente è tutta nel modo di investire il collegio di sesta: non più con la relazione redatta ai sensi dell'art. 380-bis c.p.c. (soppressa), bensì con il rilievo nel corpo del provvedimento di fissazione della ragione di inammissibilità (o delle altre ragioni che giustificano il procedimento camerale in sesta: manifesta fondatezza o infondatezza o altro) alla stregua di quanto avveniva con la «Struttura unificata», creata in sede organizzativa sulla falsariga del procedimento camerale penale.

Il procedimento, poi, si ripete nella sezione ordinaria: nel provvedimento di fissazione, però, occorre la specificazione dell'esistenza di «una particolare rilevanza della questione di diritto» soltanto ai fini della celebrazione della pubblica udienza.

Negli altri casi, infatti, la regola è quella dell'adunanza camerale non partecipata e, nella selezione dei ricorsi, sebbene il decreto di fissazione sia atto del Presidente, non è esclusa la delega ai consiglieri, come già oggi accade presso la sesta civile e la settima penale (Il medesimo Autore conclude, quindi, affermando che «…Se si guardasse al funzionamento della Settima sezione penale e alla disciplina dettata dall'art. 611 c.p.p., molti dubbi del lettore verrebbero immediatamente dissipati».).

Un esame congiunto meritano, allora, il nuovo secondo periodo del comma 1 dell'art. 376 c.p.c. ed il novellato comma 1 del successivo art. 380-bis.

Il primo, dopo aver ricordato che il Primo Presidente, tranne quando ricorrono le condizioni previste dall'art. 374 c.p.c., assegna i ricorsi ad apposita sezione, che verifica se sussistono i presupposti per la pronuncia in camera di consiglio ai sensi dell'articolo 375, comma 1, numeri 1) e 5), sancisce che «se, a un sommario esame del ricorso, la suddetta sezione non ravvisa tali presupposti, il presidente, omessa ogni formalità, rimette gli atti alla sezione semplice».

Il secondo, soppressa la relazione prevista dal suo testo precedente, stabilisce ora che «nei casi previsti dall'art. 375, primo comma, numeri 1) e 5), su proposta del relatore» il presidente dell'apposita sezione di cui all'art. 376 c.p.c. fissa con decreto l'adunanza della Corte «indicando se è stata ravvisata una ipotesi di inammissibilità, di manifesta infondatezza o di manifesta fondatezza».

Dagli stessi sembra emergere, allora, che il collegio della Sesta sezione, ove quest'ultima ritenga, all'esito di una valutazione sommaria, sussistere i presupposti di cui all'art. 375, comma 1, n. 1 e 5, c.p.c. (assenti i quali, invece, il presidente della stessa - o magari un suo delegato, al fine di assicurare la tempestività e speditezza del corrispondente inoltro - rimette gli atti alla sezione semplice), viene investito non più con la relazione redatta dal nominato relatore di quella sezione, bensì con il rilievo, nel decreto di fissazione dell'adunanza camerale, dell'essersi ravvisata un'ipotesi di inammissibilità o manifesta fondatezza o infondatezza del ricorso, alla stregua di quanto avveniva con la «Struttura unificata», creata in sede organizzativa sulla falsariga del procedimento camerale penale.

Con particolare riguardo all'interpretazione del riportato art. 380-bis, comma 1, c.p.c., peraltro, vi è stato chi (C. GRAZIOSI, La Cassazione “incamerata”: brevi note pratiche, reperibile nel sito www.judicium.it., p. 6-7.) ha osservato che qualora, più o meno intenzionalmente, si opti per una lettura coerente con la tradizionale conformazione dell'istituto, si dovrebbe ritenere che la valutazione quanto alla fissazione dell'adunanza camerale ivi prevista innanzi all'apposta sezione (cioè l'odierna sesta sezione civile della Suprema Corte) è racchiusa in quella "proposta del relatore": una siffatta qualificazione ("proposta”), quindi, benchè non sia poi esplicitato che il presidente abbia uno spazio di discrezionalità (egli "fissa", e non "può fissare", recita il testo), non toglie che una proposta è priva di ogni valore decisorio per chi ne è il destinatario, onde non è escludibile in modo assoluto che il presidente possa anche non accoglierla, non esplicando appunto la proposta, in quanto tale, alcun effetto vincolante.

Peraltro, questo intralcio letterale potrebbe essere superato - riconducendo appunto il meccanismo, in parte qua, a quello antecedente alla novella - tenendo conto del terzo ed ultimo comma dell'articolo 380-bis c.p.c., il quale stabilisce che, «se ritiene» che non ricorrano le fattispecie di cui ai nn. 1 e 5 dell'articolo 375, comma 1, «la Corte in camera di consiglio rimette la causa alla pubblica udienza della sezione semplice».

Dunque, sembra condivisibile la conclusione dell'opinione in esame secondo cui solo il collegio, dopo una valutazione in camera di consiglio, potrebbe privare di effetto la valutazione del relatore (D'altronde, se si ritenesse che il presidente non ne sia vincolato, emergerebbe la difficoltà di identificare la fonte normativa del suo potere di rimettere già in questo stadio la causa alla pubblica udienza della sezione semplice, senza, cioè, che il collegio abbia potuto esprimere alcuna propria valutazione (e ciò nonostante che il provvedimento del presidente è stato ampliato fino a una monocratica cognizione sommaria dal comma 3 dell'articolo 377, a tenore del quale, «il primo presidente, il presidente della sezione semplice o il presidente della sezione di cui all'art. 376, primo comma, quando occorre, ordina con decreto l'integrazione del contraddittorio o dispone che sia eseguita la notificazione dell'impugnazione a norma dell'art. 332, ovvero che sia rinnovata»).

Ci si deve interrogare, a questo punto, sul cosa vada effettivamente indicato nel suddetto provvedimento.

Muovendo dal rilievo che la lettera dell'art. 380-bis, comma 1, c.p.c. si limita ad esigere la mera indicazione della causa ultima o finale della scelta del rito camerale speciale, le opzioni teoricamente possibili potrebbero essere le seguenti:

a) che il decreto indichi genericamente la sussistenza di uno dei presupposti previsti dall'art. 375, comma 1, n. 1) o n. 5), c.p.c. senza specificare quale, ai fini della trattazione in camera di consiglio presso la sezione-filtro;

b) che il decreto di fissazione dell'adunanza camerale specifichi quale presupposto si ritenga ravvisato nella fattispecie, tra quelli menzionati dall'art. 375, primo comma, n. 1) o n. 5), c.p.c.;

c) che il decreto illustri anche, mediante una concisa esposizione, le potenziali ragioni giustificatrici della pronuncia di inammissibilità, manifesta fondatezza o manifesta infondatezza.

Il dettato letterale della novella sembrerebbe, almeno prima facie, propendere per l'opzione intermedia, e ciò emerge con ancora più evidenza qualora si raffronti il precedente testo dell'art. 380-bis c.p.c. con quello attuale: prima si richiedeva espressamente il «deposito in cancelleria», a cura del relatore designato, di una «relazione» contenente «la concisa esposizione delle ragioni che possono giustificare la relativa pronuncia» di inammissibilità, manifesta fondatezza o manifesta infondatezza; oggi si prevede che, «su proposta del relatore», senza che sia menzionato alcun deposito di tale proposta in cancelleria, il «presidente» fissa «con decreto» l'adunanza camerale, in cui dovrà essere «indicato» se sia stata «ravvisata un'ipotesi di inammissibilità, di manifesta infondatezza o di manifesta fondatezza del ricorso» (non già le ragioni, ma l'ipotesi «conclusiva» ravvisata).

Secondo uno dei primi commentatori (C. TRAPUZZANO, op. cit., p. 2-3.) una siffatta soluzione non importa violazione dell'art. 111, comma 6, Cost., che impone che tutti i provvedimenti giurisdizionali debbano essere motivati, né degli artt. 24, comma 2, e 111, comma 2, Cost., che tutelano il diritto di difesa ed il principio del contraddittorio, in quanto diversamente le parti non sarebbero poste nella condizione di poter esercitare effettivamente le proprie difese, finendo con l'essere costrette a formulare delle memorie “al buio”.

Le plurime ragioni di una tale conclusione (C. TRAPUZZANO, op. cit., p. 3-5.) appaiono così sintetizzabili:

a) non vi è alcun principio ordinamentale che impone al giudice di anticipare, seppure allo stato di una delibazione sommaria, le ragioni della decisione, a fronte di un thema decidendum che rimane immutato, benché abbia sottoposto alle parti un profilo di ammissibilità o di possibile fondatezza o infondatezza dell'azione;

b) il decreto di fissazione dell'adunanza camerale è un provvedimento interlocutorio e non decisorio, sicché non soggiace all'obbligo costituzionale della motivazione (che invece riguarderà esclusivamente l'ordinanza conclusiva del rito camerale);

c) la conclusione in ordine alla necessità della motivazione nemmeno può trarsi, in via indiretta, dalla circostanza che, in presenza di determinati presupposti, la decisione avviene secondo il modello camerale, anziché in base a quello dell'udienza pubblica, non solo perché il primo assicura comunque l'attuazione del contraddittorio, non avendo il modello dell'udienza pubblica e della correlata discussione orale una valenza costituzionale, quantomeno esclusiva, ma anche perché, all'esito della novella, il modello camerale è divenuto il canale ordinario e prevalente di sviluppo della decisione. Piuttosto, la necessità di indicazione del presupposto legittimante, quale mera esplicitazione della ragione ultima della scelta del rito camerale speciale, e senza alcuna valenza preclusiva della futura decisione definitiva, trova spiegazione nella circostanza che, rispetto al rito camerale ordinario, si prescinde dalla partecipazione del pubblico ministero, che non è coinvolto nella vicenda processuale neanche mediante la formulazione di conclusioni scritte, e si concedono termini più ristretti per il deposito di memorie. Se così non fosse, non solo si travalicherebbe lo spirito della riforma, ma in più si addiverrebbe ad un irrazionale appesantimento del rito speciale, rispetto al rito camerale generale;

d) qualora si ritenesse, difformemente dal tenore letterale della disposizione, che il decreto presidenziale di fissazione dell'adunanza camerale debba esplicitare anche le cause giustificatrici del presupposto tipizzato che si reputa prima facie integrato, verrebbe notevolmente sminuita la valenza innovativa della riforma, pervenendosi a esigere un opinamento non molto dissimile dalla precedente relazione espositiva, ossia si finirebbe per far entrare dalla finestra ciò che il legislatore ha voluto esplicitamente far uscire dalla porta;

e) in ogni caso, l'indicazione del mero presupposto ha una sufficiente portata orientativa per lo sviluppo delle osservazioni rimesse alle difese delle parti. Sostenere che il ricorso appare, in base ad una prima delibazione sommaria, manifestamente fondato, ai soli fini dell'incardinazione del rito camerale speciale, dovrebbe indurre il controricorrente a concentrare il contenuto delle memorie scritte sull'ulteriore contrasto alle deduzioni esposte dal ricorrente nell'atto introduttivo, eventualmente dedicando maggiore attenzione a quelle che sembrano più rilevanti o liquide. Viceversa, il ricorrente, con le proprie memorie, dovrebbe avvalorare o rafforzare le ragioni già esposte, eventualmente superando le critiche dell'avversario. Per converso, affermare che il ricorso appare, in base ad una ponderazione sommaria, ai soli fini dell'individuazione del rito camerale applicabile, manifestamente infondato, dovrebbe orientare il ricorrente a replicare avverso le osservazioni contenute nel controricorso, ponendo particolare attenzione a quelle che sembrano più rilevanti o liquide, mentre - ove la controparte rimanga intimata - dovrebbe indirizzare al miglioramento dell'esplicazione delle deduzioni già svolte nel ricorso. In astratto, un dubbio sul punto potrebbe sorgere per il solo presupposto dell'inammissibilità, atteso che le potenziali cause di tale declaratoria in rito sono, non solo molteplici, sebbene tipiche, ma anche eterogenee (ossia riconducibili a causae petendi tra esse distinte, che possono non essere state affatto trattate dalle parti nei rispettivi atti di costituzione, ma che sono rilevabili d'ufficio). In tal caso, potrebbe bastare indicare nel decreto la causale ultima dell'inammissibilità.

Altra opinione, muovendo dal confronto col testo dell'art. 610 c.p.p., alla cui stregua il presidente dell'apposita sezione (la Settima penale) fissa la data per la decisione in camera di consiglio e la cancelleria dà comunicazione del deposito degli atti e della data dell'udienza al Procuratore generale ed ai difensori, altresì prevedendosi che «L'avviso deve contenere l'enunciazione della causa dell'inammissibilità rilevata», ha rilevato (L. LOMBARDO, op. cit., p. 7.) che, diversamente dalla previsione del codice di rito penale, nel novellato comma 1 dell'art. 380-bis c.p.c. non è prescritta, nel decreto di fissazione dell'adunanza camerale, l'enunciazione della “causa” dell'inammissibilità o della manifesta fondatezza o infondatezza del ricorso, sicchè potrebbe ritenersi ivi sufficiente (e/o dovuta) la mera indicazione dell'essersi ravvisata un'ipotesi di inammissibilità, di manifesta infondatezza o di manifesta fondatezza.

Il quadro di insieme che scaturisce, almeno prima facie, da tutto quanto fin qui esposto sembra, dunque, essere il seguente:

  • è ragionevole pensare, anche per una esigenza di semplicità, che le controversie di «particolare rilevanza della questione di diritto», di cui al nuovo art. 375, comma 2, c.p.c., siano fatte coincidere con quelle «di esplicitata valenza nomofilattica» di cui al già descritto decreto del Primo Presidente del 14 settembre 2016, n. 139. Se così sarà, in futuro, andranno in udienza pubblica un numero assai ridotto di ricorsi, ovvero quelli che affrontano questioni che non hanno precedenti o che siano da considerare di particolare complessità e delicatezza. Ogni altro ricorso sarà deciso in camera di consiglio;
  • i ricorsi da discutere in udienza pubblica saranno comunque decisi con sentenza a motivazione semplificata, improntata a canoni di essenzialità, assenza di motivazioni subordinate, di obiter dicta e di ogni altra enunciazione che vada oltre ciò che è indispensabile alla decisione;
  • i ricorsi trattati in camera di consiglio, ovvero la stragrande maggioranza di quelli che perverranno in Corte, saranno invece decisi con ordinanza, ed il contraddittorio in quei casi si svolgerà solo in forma scritta, con gli atti introduttivi del giudizio, e poi con le memorie di cui al nuovo art. 380-bis c.p.c.. L'ordinanza avrà, inevitabilmente, una motivazione ancora più semplificata della sentenza, e sarà improntata a moduli predisposti dal CED, ed anche l'esposizione dei fatti e dei motivi di ricorso potranno mancare in queste ipotesi.
Le ulteriori modifiche riguardanti la rinuncia al ricorso, la correzione di errori materiali e la revocazione delle sentenze (e delle ordinanze) della Corte di cassazione

La l. n. 197/2016 ha introdotto anche alcune modifiche in tema di rinuncia al ricorso, nonchè di correzione degli errori materiali e di revocazione delle sentenze (e delle ordinanze) della Corte di cassazione.

Benchè in larga parte dettate da mere esigenze di adeguamento ai novellati articoli di cui si è detto nei paragrafi precedenti, intuibili ragioni di completezza impongono, comunque, di darne conto, sebbene sinteticamente.

Iniziando dalla rinuncia al ricorso, strettamente correlata alla soppressione della facoltà per i difensori delle parti di partecipare all'adunanza in camera di consiglio è la modifica apportata all'art. 390, comma 1, c.p.c. relativamente al termine finale entro cui la rinuncia stessa può intervenire: invero, mentre, in passato, la parte poteva rinunciare al proprio ricorso principale o incidentale «finché non sia cominciata la relazione all'udienza [o all'adunanza in camera di consiglio] o siano notificate le conclusioni scritte del pubblico ministero nei casi di cui all'articolo 380-ter”, nella nuova formulazione è specificamente previsto che, in caso di procedimento in camera di consiglio, la rinuncia possa intervenire «sino alla data dell'adunanza camerale».

Il novellato art. 391, comma 1, c.p.c., invece, sancisce oggi che «Sulla rinuncia e nei casi di estinzione del processo disposta per legge la Corte provvede con ordinanza in camera di consiglio, salvo che debba decidere altri ricorsi contro lo stesso provvedimento fissati per la pubblica udienza. Provvede il presidente, con decreto, se non è stata ancora fissata la data della decisione» (Il testo, ante riforma, del medesimo comma era il seguente: «Sulla rinuncia e nei casi di estinzione del processo disposta per legge, la Corte provvede con sentenza quando deve decidere altri ricorsi contro lo stesso provvedimento, altrimenti provvede il presidente con decreto».).

Anche qui, pertanto, si è solo sostanzialmente adeguata la precedente disposizione al nuovo criterio che dovrà ispirare le decisioni della Corte, le quali, come si è già diffusamente riferito, dovranno, di regola, essere pronunciate con ordinanza in camera di consiglio, riservandosi l'adozione della forma della sentenza alle sole ipotesi di controversie avviate alla trattazione in pubblica udienza in ragione della particolare rilevanza delle questioni di diritto su cui dovranno intervenire ovvero del non avere l'apposita sezione di cui all'art. 376 c.p.c. (l'attuale sesta sezione civile) definito il giudizio in esito alla camera di consiglio.

Il comma 2 del medesimo articolo, poi, coerentemente, ha aggiunto l'ordinanza alla tipologia di provvedimenti (decreto o sentenza) con cui, già nella versione ante riforma dello stesso, nel dichiarare l'estinzione del giudizio, può condannarsi la parte che vi ha dato causa al pagamento delle spese.

Per il resto, i residui commi della disposizione in esame sono rimasti inalterati.

Va evidenziato, tra l'altro, che, alla stregua del tuttora vigente comma 3, «il decreto ha efficacia di titolo esecutivo se nessuna delle parti chiede la fissazione dell'udienza nel termine di dieci giorni dalla comunicazione», mentre alcunchè, in proposito (cioè quanto al suo valore di titolo esecutivo), è ivi detto quanto all'ordinanza, di analogo contenuto, di cui al precedente comma 2: occorrerà, allora, interrogarsi sul come rendere compatibile tale “omissione”, con la specifica dicitura di cui all'art. 474, comma 2, n. 1, c.p.c., alla stregua del quale «sono titoli esecutivi le sentenze, i provvedimenti e gli altri atti ai quali la legge attribuisce espressamente efficacia esecutiva».

Ultima disposizione oggetto di riforma ad opera della legge di conversione n. 197 del 2016 è stato l'art.391-bis c.p.c., rubricato «Correzione degli errori materiali e revocazione delle sentenze della corte di cassazione».

In particolare, il legislatore ha provveduto ad uniformare il testo del comma 1:

  • da un lato, alle declaratorie d'illegittimità costituzionale sia dell'apposizione di un termine decadenziale per la proposizione dell'istanza di correzione per errori materiali (Cfr. Corte cost. 18 aprile 1996, n. 119), stabilendo che «La correzione può essere chiesta, e può essere rilevata d'ufficio dalla Corte, in qualsiasi tempo», sia della mancata previsione dell'esperibilità del rimedio della revocazione per errore di fatto avverso le ordinanze pronunciate dalla Corte di cassazione a norma dell'art. 375, comma 1, n. 1 (Cfr. Corte cost. 9 luglio 2009, n. 207). Va ricordato, peraltro, che, d'ora in avanti, l'ordinanza sarà la tipologia di provvedimento che, nelle intenzioni del legislatore della novella, dovrà utilizzarsi nell'assoluta maggioranza di decisioni che adotterà la Corte, sicchè l'odierno riferimento ad essa deve considerarsi come necessitata anche dall'intervenuta modifica, nei sensi di cui si è ampiamente detto in precedenza, dell'art. 375 c.p.c. (e forse sarebbe stata opportuna anche una corrispondente integrazione della rubrica dell'art. 391-bis c.p.c.).
  • dall'altro, al nuovo termine lungo stabilito dall'art. 327 c.p.c., di 6 mesi, anziché di un anno (cui, evidentemente per una mera distrazione, la disposizione non era stata adeguata nel 2009), venendo prescritto che «La revocazione può essere chiesta entro il termine perentorio di sessanta giorni dalla notificazione ovvero di sei mesi dalla pubblicazione del provvedimento».

Per il resto, va solo evidenziato:

a) che il comma 2 è stato sostituito prevedendosi che «Sulla correzione la Corte pronuncia nell'osservanza delle disposizioni di cui all'articolo 380-bis, primo e secondo comma», così dovendosi escludere la possibilità che, all'esito della camera di consiglio, la Corte rimetta la causa alla pubblica udienza;

b) che il comma 4 è stato novellato sancendosi che «Sul ricorso per revocazione, anche per le ipotesi regolate dall'articolo 391-ter, la Corte pronuncia nell'osservanza delle disposizioni di cui all'articolo 380-bis, primo e secondo comma, se ritiene l'inammissibilità, altrimenti rinvia alla pubblica udienza della sezione semplice».

Si tratta, quindi, come appare palese, di modifiche sostanzialmente dettate da esigenze di adeguamento del vecchio testo della disposizione in esame ai novellati articoli di cui si è detto nei paragrafi precedenti (dovendosi, peraltro, segnalare che l'avvenuta sostituzione, nei termini di cui si è detto, del comma 2 della norma de qua, avrebbe dovuto ragionevolmente imporre l'abrogazione del successivo comma 3, - «sul ricorso per correzione dell'errore materiale pronuncia con ordinanza» - ma di tanto non si rinviene alcunchè nella legge, evidentemente per un mero difetto di coordinamento, alcuna espressa disposizione).

Il regime transitorio

La l. n. 197 del 2016, convertendo il d.l. n. 168 del 2016, ha introdotto al comma 2 dell'art. 1-bis, una disposizione transitoria, a tenore della quale la fin qui riforma del procedimento di cassazione si applica «ai ricorsi depositati successivamente alla data (30 ottobre 2016. Ndr) di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, nonchè a quelli già depositati alla medesima data per i quali non è stata fissata udienza o adunanza in camera di consiglio».

Un'interpretazione rispettosa del tenore letterale di tale norma dovrebbe indurre ad individuare, quali «ricorsi depositati» successivamente al 30 ottobre 2016, quelli «depositati» ai sensi dell'art. 369, comma 1, c.p.c., e, quindi, indipendentemente dalla data della loro notificazione, così derivandone una deroga ai principi generali in tema di pendenza della lite riferita al giudizio di cassazione, che, come è noto, si determina esclusivamente sulla base dell'avvenuta notifica del ricorso, e non del deposito dell'atto di impugnazione (Cfr., ex plurimis, Cass. 10 luglio 2015, n. 14515; Cass. 27 marzo 2015, n. 6280; Cass., Sez. U, 18 febbraio 2014, n. 3774).

Dovrebbe, altresì, valere il deposito di un primo ricorso ante 30 ottobre 2016 ad individuare il rito applicabile, con la conseguenza che, ove, dopo quella data, sopravvengano ricorsi successivi avverso la medesima sentenza (incidentali o comunque da riunire ex art. 335 c.p.c.), tutti dovrebbero essere trattati secondo il "vecchio rito".

Criterio alternativo previsto (per l'applicazione del vecchio rito), per i ricorsi già depositati al 30 ottobre 2016, è che, a quella data, risulti essere già stata fissata l'udienza o l'adunanza in camera di consiglio.

La data di riferimento sembrerebbe, allora, dover essere quella del decreto presidenziale di fissazione dell'udienza di discussione o dell'adunanza in camera di consiglio, e non quella della corrispondente comunicazione alle parti a norma dell'art. 377, comma 2, c.p.c.: in altri termini, ai ricorsi depositati prima del 30 ottobre 2016, ma il cui decreto di fissazione dell'udienza di discussione o dell'adunanza in camera di consiglio rechi la data del 30 ottobre o successiva, dovrebbe ritenersi applicabili le disposizioni come novellate.

Sotto quest'ultimo profilo, peraltro, potrebbe sorgere qualche dubbio circa la costituzionalità della norma (per contrasto almeno con l'art. 24 Cost., se non anche con l'art. 3) relativamente alla posizione del controricorrente che, in un procedimento innanzi alla Corte il cui ricorso introduttivo sia stato depositato anteriormente al 30 ottobre 2016, ma che non sia stato ancora fissato (e trattasi di ipotesi, probabilmente, tutt'altro che irrealistica), abbia scelto di non costituirsi confidando nella sola possibilità, riconosciutagli dall'art. 370, comma 1, c.p.c., di partecipare alla discussione orale, non potendo egli presentare memorie.

È palese che, per effetto della sopravvenuta modifica dell'ultimo comma dell'art. 375 c.p.c., - che, come si è visto, dovrebbe auspicabilmente rendere come normale tipologia di procedimento decisorio quello in camera di consiglio, riservando ad ipotesi peculiari la trattazione in pubblica udienza - quel controricorrente, ove la causa di cui è parte fosse destinata alla trattazione camerale, sembrerebbe rimanere privo sia della facoltà di essere sentito (configurandosi, come si è visto, il nuovo rito camerale ex artt. 380-bis, 380-bis.1 e 380-ter c.p.c. come “non partecipato”), sia della possibilità di presentare memorie.

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