Costa caro non rispondere all'invito alla negoziazione assistita
07 Giugno 2017
Massima
Va sanzionata con la condanna pronunciata ai sensi del comma 3 dell'art. 96 c.p.c. la mancata risposta all'invito alla negoziazione assistita. Il caso
Una società richiede ad un'altra, che accetta, dietro versamento di un acconto di circa € 40.000, la fornitura di due presse da consegnare entro un dato termine, presse che la prima intende impiegare per soddisfare un più ampio ordine ricevuto da un terzo, il Governo del Venezuela. La società incaricata della fornitura non osserva il termine, sicché le parti convengono di sciogliere il contratto, con l'ovvia conseguenza che la seconda società deve restituire alla prima la somma di € 40.000 ricevuta in acconto. Cosa che non accade. La prima società si determina dunque ad agire in giudizio nei confronti della seconda: e per far ciò invita quest'ultima, come tenuta a fare, alla negoziazione assistita, senza, però, che l'invito sortisca alcun effetto. E cioè l'altra società non risponde affatto all'invito. La causa è instaurata: e c'è poco da dire e da fare, la condotta della società convenuta, che, dopo aver intascato la somma di € 40.000, non gradisce di doverla restituire, non ha la benché minima plausibile giustificazione, tant'è che essa non prova nemmeno a difendersi, e rimane contumace. Sicché la domanda è accolta. E nel condannare la società convenuta alla restituzione dell'importo — questo il punto che ci interessa — il Tribunale adito condanna la società convenuta al risarcimento dei danni per lite temeraria, per non aver aderito all'invito alla negoziazione assistita, ai sensi del terzo comma dell'art.96c.p.c., quantificati, pur in mancanza di prova del quantum, nell'importo di € 3000. La questione
La sentenza in commento lancia per così dire un grido di dolore: mentre «le migliori forze del Paese stanne compiendo ogni sforzo (vano, ad oggi) volto a dotare l'Italia di un sistema processuale efficiente e razionale», non possono essere tollerati comportamenti tali da determinare il ricorso al giudice quando esso è totalmente superfluo. Ora, sulla preoccupazione del tribunale di Torino si può sicuramente convenire. Ma la domanda è un'altra: il comma 3 dell'art. 96 c.p.c. può giustificare, in un caso del genere, la condanna per responsabilità aggravata irrogata dal giudice? Le soluzioni giuridiche
Osserva il giudice che il comportamento della società convenuta integra gli estremi, se non del dolo, quanto meno della colpa gravissima, con conseguente applicabilità del terzo comma della norma richiamata. La pronuncia richiama un precedente di merito, Trib. Santa Maria Capua Vetere 24 dicembre 2013, secondo cui: «Viola il dovere di buona fede contrattuale il comportamento della parte che avrebbe potuto risolvere un problema di infiltrazioni emerso nel corso del rapporto locatizio semplicemente raccogliendo l'invito della controparte a far visionare l'immobile locato e che ha preferito, invece ricorrere all'autorità giudiziaria. Rilievo centrale, in questo senso, assume il ruolo del difensore, il quale deve agire non più in un'ottica puramente e semplicemente conflittuale, ma assumere comportamenti finalizzati a definire le controversie anche in via stragiudiziale; ciò specialmente in considerazione della nuova prospettiva nella quale, anche alla luce della recente reintroduzione con il c.d. decreto del fare della mediazione obbligatoria, appare muoversi il legislatore negli ultimi tempi, prospettiva che attribuisce al difensore un ruolo centrale, prima ancora che nel giudizio, nell'attività di mediazione delle controversie, al punto da prevedere, con le modifiche operate dal D.L. n. 69/2013 che gli avvocati siano di diritto mediatori e debbano assistere la parte nel procedimento di mediazione». Sennonché, la pronuncia richiamata non sembra pertinente: lì si era di fronte alla condotta di chi aveva intrapreso la lite, quando avrebbe potuto agevolmente comportarsi altrimenti; qui siamo di fronte ad un debitore che semplicemente si era limitato a non pagare, e non ha fatto nulla per difendersi. Aggiunge il Tribunale sabaudo che l'art.96,comma3,c.p.c. ha introdotto un meccanismo di natura essenzialmente sanzionatoria volto a scoraggiare l'abuso del processo ed a preservare la funzionalità del sistema giustizia, con conseguente esclusione della necessità di una rigorosa prova del danno (v. sul significato di tale disposizione, ivi compreso il profilo della quantificazione, Cass. 29 settembre 2016, n.19285; Cass. 19 aprile 2016 n. 7726, secondo cui «le esigenze di deflazione del contenzioso pretestuoso»; Cass. 22 febbraio 2016, n. 3376, la quale evidenzia come la disposizione in esame si correla «con il mutato quadro ordinamentale, quale desumibile dai principi di ragionevole durata del processo …, di illiceità dell'abuso del processo e di necessità di una interpretazione delle norme processuali che non comporti spreco di energie giurisdizionali»). A sostegno delle conclusioni raggiunte la pronuncia in esame, richiamato l'art.6 Cedu evidenzia l'esigenza che «una prassi di sano case management si instauri nei vari Uffici Giudiziari» per il fine del «definitivo superamento di antiche mentalità corrive verso i veri e propri abusi della funzione giurisdizionale che … a detrimento dei legittimi interessi dei cittadini veramente lesi nei propri diritti, rischiano di soffocare i nostri sempre più (spesso inutilmente) oberati Tribunali». Le condotte riprovevoli sono così individuate: a) nella introduzione in giudizio di pretese infondate; b) nella introduzione in giudizio di difese del tutto temerarie; c) nella mancata adesione del soggetto obbligato, a fronte a un'evidente situazione debitoria, alla domanda di mediazione o di negoziazione assistita, costringendo il creditore ad adire le vie giurisdizionali. Nello stesso senso vengono richiamate: la Raccomandazione n. R (84) 5 del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa agli Stati membri «sui principi della procedura civile tendenti a migliorare il funzionamento della Giustizia»; il punto V. D. delle c.d. Saturn Guidelines for Judicial Time Management, adottate alla 14a riunione dello Steering Comittee, Gruppo CEPEJ-SATURN, Consiglio d'Europa, riunione plenaria del 5-6 dicembre 2013. Osservazioni
A fronte di cotanta esibizione di riferimenti sovranazionali e giurisprudenziali il Tribunale di Torino sembra aver dimenticato il dato normativo essenziale. E cioè che l'art. 4, comma 1, del d.l. 12 settembre 2014, n. 132, conv. con modif. in l. 10 novembre 2014, n. 162, recante: «Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell'arretrato in materia di processo civile», si sofferma espressamente sull'applicazione della disciplina della responsabilità per lite temeraria in caso di mancata risposta all'invito alla negoziazione assistita. Esso stabilisce che: «L'invito a stipulare la convenzione deve … contenere l'avvertimento che la mancata risposta all'invito … o il suo rifiuto può essere valutato dal giudice ai fini … di quanto previsto dagli artt. 96 e 642, comma 1, c.p.c.». L'applicazione degli artt. 96 e 642, comma 1, c.p.c., in caso di mancata risposta o di rifiuto entro 30 giorni, costituisce manifestazione del disfavore legislativo per gli atteggiamenti non collaborativi, disfavore che si rinviene anche nel primo comma, secondo periodo, dell'art. 91 (accoglimento della domanda in misura non superiore alla proposta conciliativa), nel primo comma dell'art. 420 (mancata comparizione personale delle parti senza giustificato motivo), nonché negli articoli 8 e 13 d.lgs. 28/2010 sulla mediazione. Beninteso, l'applicazione degli artt. 96 e 642, primo comma, c.p.c. è soltanto eventuale, sicché bene il giudice può ritenere, a seconda delle circostanze, che almeno il rifiuto motivato, se non il silenzio puro e semplice, sia giustificato. Ed anzi, non è difficile immaginare un possibile uso strumentale proprio dell'invito alla negoziazione assistita: si immagini il debitore che paventi contro di sé un prossimo ricorso per decreto ingiuntivo e che, al fine di guadagnare tempo, inviti la controparte a negoziare: pare chiaro che in questo caso il destinatario dell'invito possa rifiutarlo senza correre rischio di sanzione. Ciò detto, la lettura data dal giudice dell'art. 96 c.p.c. è plausibile, se si tiene conto del citato art. 4, comma 1, della legge sulla negoziazione assistita, almeno per quanto riguarda l'an della pronuncia di condanna. Sicché bisogna prendere atto di una situazione ormai alquanto bislacca: e cioè che la condanna per lite temeraria può essere pronunciata a carico del contumace e cioè di chi, per definizione, non ha posto in essere alcuna (positiva) condotta processuale, ma si è limitato a non pagare. Discorso diverso è quello del quantum. Se si tratta di una sanzione, bisogna per ovvi motivi che essa sia stabilita dalla legge nel minimo e nel massimo, ed il parametro di riferimento per la quantificazione non può essere semplicemente quello della ragionevolezza, come affermato ad esempio dalla già citata Cass. 29 settembre 2016, n. 19285. Nel qual caso non riesce per nulla a comprendersi perché la sanzione sia stata in questo caso di € 3000 e non, poniamo, di € 10.000, o di € 20.000 come nel caso giudicato dalla sentenza di legittimità appena ricordata. Ma qui la colpa non è del Tribunale di Torino, bensì del legislatore, che ha licenziato una norma malfatta qual è il terzo comma dell'art 96 c.p.c..
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