Sulla (discutibile) legittimazione del debitore a dedurre con l'opposizione ex art. 615 c.p.c. la violazione dell'art. 51 l. fall.
07 Novembre 2016
Massima
La contestazione della possibilità per il creditore (non fondiario) di iniziare o proseguire l'esecuzione singolare per violazione dell'art. 51 l. fall., configura una vera e propria contestazione del diritto di procedere ad esecuzione forzata e non attiene alla mera regolarità di uno o più atti d'esecuzione ovvero alle modalità di esercizio dell'azione esecutiva. Di conseguenza essa va qualificata come opposizione all'esecuzione ex art. 615 c.p.c. e non può dirsi assoggettata al regime di decadenza di cui all'art. 617 c.p.c.. Il caso
Il Tribunale di Patti, dopo aver qualificato l'opposizione che contestava la violazione dell'art. 51 l. fall., come opposizione agli atti esecutivi, l'ha ritenuta inammissibile perché tardiva: secondo il Tribunale dichiarato il fallimento nel 1998 ed eseguito il pignoramento nel gennaio 2000, il termine posto dall'art. 617 c.p.c. per i debitori falliti tornati in bonis avrebbe iniziato a decorrere dalla revoca della sentenza di fallimento (recte dal passaggio in giudicato della sentenza di revoca pronunciata dalla Corte di appello nel gennaio 2001). La questione
Della questione è stata investita la terza Sezione della Corte suprema che ha accolto il primo motivo di ricorso col quale i debitori hanno lamentato la violazione degli artt. 51 e 52 l. fall., anche in relazione al novellato art. 104-ter e art. 107, l. fall.; nonché la violazione dell'art. 100 c.p.c. e degli artt. 615 e 617 c.p.c.. Le soluzioni giuridiche
Il Collegio ha desunto dall'art. 51 l. fall. un divieto assoluto per i creditori (eccezion fatta per quello fondiario) di dare inizio o di proseguire l'esecuzione individuale sui beni compresi nella procedura concorsuale, divieto che sarebbe sottratto alla disponibilità delle parti, oltre che rilevabile di ufficio in qualsiasi momento dal giudice dell'esecuzione. La decisione riposa, dunque, sul presupposto che la dichiarazione di fallimento priva tutti i creditori dell'imprenditore fallito del diritto di procedere all'esecuzione forzata individuale. Stando all'interpretazione della Corte, la facoltà prevista per il curatore dall'art. 107 l. fall. di subentrare nelle procedure esecutive pendenti, non comporta la possibilità per i creditori di coltivare l'esecuzione; anzi conferma che va escluso in radice il loro diritto di procedere all'espropriazione dei beni del debitore fallito in sede individuale; ciò in quanto la prosecuzione della procedura da parte del curatore attrae, di fatto, i beni assoggettati al pignoramento nell'ambito dell'esecuzione concorsuale. Per questa ragione, nell'accogliere il ricorso, il Collegio ha cassato la sentenza del Tribunale di Patti che aveva qualificato la contestazione come opposizione assoggettata al regime (anche di decadenza) di cui all'art. 617 c.p.c., trattandosi invece di vizio deducibile ai sensi dell'art. 615 c.p.c.. Osservazioni
Diverse sono le ragioni che non consentono di condividere la decisione della Cassazione. In primo luogo va segnalato che il diritto di agire in executivisderiva esclusivamente dal titolo esecutivo ex art. 474 c.p.c. che legittima e giustifica l'azione del creditore pignorante; il fallimento del debitore non priva affatto il creditore dell'azione esecutiva individuale, ma impone che la soddisfazione del credito si trasferisca in sede concorsuale, per il combinato disposto degli artt. 51 e 52 l. fall., nel rispetto dei principi generali del concorso formale e sostanziale. (v. ex multis,Cass.21 febbraio 2001, n. 2481). Ne segue che la violazione del divieto di cui all'art. 51 L. fall. è deducibile soltanto dall'ufficio fallimentare, che ben potrebbe preferire alla dichiarazione di improcedibilità, il subentro nel ruolo del creditore procedente in forza dell'art. 107 l. fall.; corollario di tale assunto è che gli effetti dell'azione esecutiva individuale, in siffatta ipotesi e in assenza di pronuncia di improcedibilità dell'esecuzione, si porranno rispetto agli organi fallimentari in termini di inopponibilità, non già di nullità o peggio di inesistenza (così già Cass. 3 dicembre 2002, n. 17109, in Il fall., 2003, p. 1268 ss. con nota di Baccaglini, più recentemente, Cass. 7 gennaio 2009, n. 28). Nei confronti della massa, dunque, la liquidazione operata in sede individuale non potrà mai considerarsi definitiva sul piano dell'efficacia, salvi gli effetti dell'art. 2929 c.c. e dell'art. 187-bis disp. att. c.p.c.. In altre parole, il debitore non è legittimato a dedurre la violazione dell'art. 51 l. fall. proponendo opposizione (comunque la si voglia inquadrare) posto che non sussiste alcuna invalidità originaria del pignoramento; ma, se così è, la denunciata violazione dell'art. 51 l. fall., quand'anche prospettata ai sensi dell'art. 615 c.p.c., non può che attenere al quomodo dell'esecuzione, e quindi astrattamente proponibile ai sensi dell'art. 617 c.p.c., come affermato nella sentenza cassata dalla Suprema Corte. Del resto, non avrebbe potuto il Tribunale accogliere nel merito l'opposizione agli atti esecutivi anche se per ipotesi fosse stata sollevata tempestivamente nel termine decadenziale di cui all'art. 617 c.p.c., proprio per la carenza di legittimazione dei debitori opponenti rispetto al vizio denunciato. Per completezza va aggiunto che, a norma dell'art. 42, comma 1°,l. fall., nelle controversie, anche in corso, relative a rapporti di diritto patrimoniale del fallito sta in giudizio il curatore. È proprio tale disposizione a dimostrare che la privazione dei poteri processuali in capo al fallito rappresenta un effetto dello spossessamento, inteso come incapacità del fallito di amministrare e disporre i beni che compongono il patrimonio responsabile. Ciò chiarisce perché la privazione della legittimazione processuale del fallito patisce l'eccezione di cui all'art. 43, comma 2°, l. fall., in forza del quale il debitore ha facoltà di partecipare al giudizio limitatamente alle sole questioni dalle quali può dipendere un'imputazione di bancarotta a suo carico; e non si estende alle controversie sui beni e sui rapporti strettamente personali. In definitiva, la dichiarazione di fallimento trasferisce la legittimazione processuale a proporre qualsiasi tipologia di contestazione sull'esecuzione pendente dal debitore all'organo della procedura. La correttezza di questa impostazione non viene scalfita nemmeno laddove l'esecuzione sia intrapresa o proseguita dal (presunto) creditore fondiario ex art. 41 TULB, poiché il curatore, quale organo pubblico dell'esecuzione collettiva, rimane l'unico soggetto legittimato all'opposizione all'esecuzione per contestare l'azione esecutiva del creditore fondiario (come correttamente riconosciuto da Cass. 19 agosto 2003, n. 12115). Resta da dire che il recentissimo orientamento della Cassazione – che apre le maglie a pericolose strumentalizzazioni da parte del debitore - omette di considerare gli effetti determinati dalla sentenza di revoca del fallimento che ha fatto cessare tutti gli atti compiuti dagli organi della procedura concorsuale. Nel caso di specie, la mancata sostituzione a norma dell'art. 107 l. fall. non costituiva la manifestazione di una presunta inattività o inerzia del curatore, ma più semplicemente una conseguenza della cessazione di tutti gli effetti della dichiarazione di fallimento, incluso lo spossessamento ed il divieto di cui all'art. 51 l. fall. Di qui l'indiscutibile legittimità dell'espropriazione del creditore procedente stante il ritorno - determinato dalla revoca della sentenza di fallimento disposta dalla Corte di appello ben 10 anni prima della proposizione dell'opposizione - allo status quo ante l'apertura del fallimento. Sulle specifiche questioni si rinvia alla giurisprudenza riportata nel testo, nonché in dottrina:
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