Poteri di impugnazione del terzo chiamato in garanzia impropria
08 Maggio 2016
Massima
Il terzo chiamato in garanzia impropria può autonomamente impugnare anche le statuizioni della sentenza di primo grado relative al rapporto principale, sia pure al solo fine di sottrarsi agli effetti riflessi che la decisione spiega sul rapporto di garanzia, ma l'efficacia della contestazione su tali statuizioni presuppone che il garante abbia preliminarmente impugnato la propria condanna in garanzia. Il caso
Una casa di cura conveniva in giudizio, innanzi al Giudice di pace di Roma, una paziente, per ottenerne condanna al pagamento del corrispettivo dovuto per il prolungamento di un giorno della degenza successiva ad un intervento chirurgico ivi eseguito, rispetto a quanto inizialmente concordato, avendo la Cassa di assistenza integrativa della paziente (in seguito: Cassa) coperto i costi preliminarmente convenuti dell'intervento e della degenza, ma rifiutato di provvedere al pagamento dell'importo richiesto per il prolungamento di questa. La paziente chiamava in garanzia la Cassa, chiedendo di essere manlevata nei confronti dell'attrice. Il giudice adito accoglieva sia la domanda principale sia la domanda di manleva. La Cassa proponeva appello direttamente nei confronti della casa di cura, provvedendo a notificare il gravame, ai fini dell'integrità del contraddittorio, alla propria assistita, che, peraltro, non si costituiva nel giudizio. Il giudice d'appello (Tribunale di Roma) dichiarava inammissibile l'impugnazione, sul rilievo che, non avendo la Sig.ra proposto appello, la statuizione concernente la domanda principale doveva ritenersi passata in giudicato e sull'ulteriore rilievo che nessuna domanda era stata proposta dalla casa di cura nei confronti della Cassa. In altri termini, il Tribunale affermava che l'appellante sarebbe stata legittimata ad impugnare la sentenza di primo grado soltanto sul punto in cui aveva accolto la domanda di manleva nei suoi confronti, e non anche in relazione al punto in cui aveva accolto la domanda principale della casa di cura nei confronti della paziente. La Cassa proponeva ricorso per cassazione, deducendo di essere legittimata, quale chiamata in garanzia, ad impugnare autonomamente i capi della sentenza riguardanti la soccombenza della convenuta.
La questione
La questione giuridica sottoposta alla Corte Suprema di Cassazione e che interessa in questa sede è stata quella di stabilire se al chiamato in garanzia (impropria) compete impugnare autonomamente i capi della sentenza riguardanti la soccombenza del proprio chiamante e, in caso affermativo, in quali limiti. Le soluzioni giuridiche
La Suprema Corte ha confermato la sentenza gravata, assumendo l'esattezza della soluzione cui il giudice di appello era pervenuto, peraltro correggendo parzialmente la motivazione recata a dare ad essa supporto. Diversamente dall'opinione espressa dal giudice di appello, secondo cui la Cassa avrebbe avuto titolo ad impugnare la sentenza di primo grado unicamente sul punto in cui aveva accolto la domanda di manleva, la Corte ha affermato che al chiamato in garanzia (impropria) compete legittimazione ad impugnare anche nei confronti del soggetto che abbia ottenuto una sentenza favorevole solo nei confronti dell'assistito, peraltro con la precisazione che l'impugnazione deve essere finalizzata a far venire meno la condanna a titolo di manleva e che l'impugnazione delle statuizioni relative al rapporto principale può avvenire solo nell'ambito del rapporto di garanzia e per i riflessi che la decisione può avere su di esso; con l'ulteriore precisazione che, per conseguire tale effetto, è preliminare che il garante abbia però impugnato la propria condanna in garanzia. In sintesi, secondo la Corte, al chiamato in garanzia (impropria) è concesso il potere di impugnazione in via autonoma anche nei confronti delle statuizioni afferenti al rapporto principale, peraltro finalizzando il gravame alla caduta della condanna subita a titolo di manleva, purché abbia impugnato anche tale statuizione. Nel caso di specie, non essendo stato dato corso a tale adempimento ed essendo, per l'effetto, intervenuto il passaggio in giudicato della condanna della Cassa a tenere indenne la propria assistita dalle conseguenze negative della domanda attorea, dovevano ritenersi essere divenute irrilevanti, in quanto inidonee a sovvertire tale condanna, le contestazioni della garante relative al rapporto principale. Osservazioni
In sede digiurisprudenza di legittimità è stato più volte affermato che, allorché l'azione principale e quella di garanzia risultino essere fondate su due titoli diversi, viene in rilievo un'ipotesi di garanzia c.d. impropria e le due cause restano distinte e sono scindibili. Ne deriva che, quando manchi da parte del convenuto rimasto soccombente l'impugnazione della pronuncia sulla causa principale, su quest'ultima si forma il giudicato, che non estende, tuttavia (attesa la scindibilità delle cause), i suoi effetti a colui che risponde a titolo di garanzia impropria. Pertanto, il terzo chiamato può impugnare la sentenza anche rispetto alla statuizione sul rapporto principale, peraltro soltanto nei limiti in cui questa abbia incidenza sul diverso rapporto che intercorre tra garante e garantito; ma non può, nella sua veste di interventore adesivo dipendente, dedurre eccezioni non sollevate dal convenuto né impugnare autonomamente la sentenza che dichiari quest'ultimo soccombente nei confronti dell'attore. ii) Il caso esaminato dalla sentenza in commento non appare a chi scrive sussumibile nella fattispecie testè delineata. La narrazione che segue è tratta, per i profili di fatto, dalla suddetta sentenza. L'azione principale veniva promossa dalla casa di cura per ottenere dalla paziente il pagamento di una prestazione resa e quella di garanzia veniva promossa dalla paziente nei confronti della Cassa per fruire di manleva, in ipotesi di soccombenza. La garante, non negando l'esistenza di un rapporto di assistenza e quindi l'obbligo di manleva in sé, contestava la fondatezza della domanda proposta dalla chiamante, chiedendone il rigetto, senza estendere le sue difese alla contestazione della domanda proposta nei confronti della chiamante. A margine, va, peraltro, annotato che la garante, con argomentazione volta ad entrambe le parti del giudizio principale, deduceva che la prestazione aggiuntiva fruita dalla garantita si collocava al di fuori degli obblighi di rimborso o di anticipazione diretta, in relazione al contenuto della convenzione con la casa di cura. L'originaria attrice non proponeva domande nei confronti della chiamata in causa. Ancora a margine, va rammentato che è consolidato l'orientamento secondo cui il principio dell'estensione automatica della domanda dell'attore al chiamato in causa da parte del convenuto non è operativo in caso di chiamata in garanzia (propria o impropria), in ragione dell'autonomia sostanziale dei due rapporti, ancorché confluiti in un unico processo (da ultimo, Cass. civ., sez. II, 31 ottobre 2014, n. 23306). La prima fase del giudizio si concludeva con sentenza di condanna della convenuta al pagamento richiesto e con la condanna della chiamata in garanzia a tenerla indenne da ogni conseguenza negativa. La convenuta non proponeva gravame. La garante proponeva gravame diretto nei confronti dell'originaria attrice, ma non nei confronti della chiamante per ottenere la caduta della sentenza di condanna in manleva. Il gravame veniva notificato alla chiamante in forma di litis denuntiatio. Mediante il gravame, l'appellante muoveva contestazioni «relative alla legittimità … dell'operato della clinica, nell'ambito del rapporto di convenzione» esistente, laddove essa aveva richiesto alla paziente «il pagamento di un importo integrativo per il giorno supplementare di degenza fruito, ovvero in ordine alle modalità di comunicazione della necessità di prolungare il ricovero e alle ipotesi che consentivano tale prolungamento». iii) Dall'esposizione contenuta in sentenza, parrebbe potersi evincere che l'appellante faceva valere nei confronti dell'attrice originaria argomenti valevoli per contestare, ad un tempo, l'operatività del rapporto intercorrente con la propria assistita e l'inosservanza, da parte della clinica, del rapporto di convenzione con essa esistente. iv) Con riguardo alla prima questione, la S.C. ha affermato l'irrilevanza delle contestazioni, giusta l'intervenuto passaggio in giudicato della condanna in manleva; così – qualora la questione devoluta fosse davvero stata quella riassunta nella massima in epigrafe – collocandosi nel solco segnato da molte delle pronunce che hanno affrontato l'argomento (si vedano, soltanto a titolo esemplificativo, in ordine cronologico ascendente, Cass. civ., sez. I, 20 gennaio 1997, n. 546; Cass. civ., sez. un., 3 marzo 2010, n. 7602; Cass. civ., sez. III, 7 febbraio 2012, n. 1680; Cass. civ., sez. III, 13 marzo 2012, n. 3969). v) Con riguardo alla seconda questione, la S.C. ne ha trattato unicamente in sede di esame dell'ulteriore motivo di impugnazione proposto dalla ricorrente. Oltre a proporre le suddette contestazioni, quest'ultima deduceva anche l'omessa ed insufficiente motivazione circa un punto decisivo per il giudizio, costituito dall'esistenza di una convenzione regolatrice dei rapporti tra essa e la casa di cura. La ricorrente sosteneva di essere intervenuta in giudizio, oltre che come chiamata in garanzia, sulla base di un titolo autonomo, che ne avrebbe senz'altro legittimato sia l'intervento sia l'impugnazione relativa al rapporto principale, ovvero sulla base della convenzione che essa, quale ente assistenziale, aveva concluso con la clinica convenzionata; sosteneva, inoltre, che il giudice di appello non aveva esaminato l'aspetto, da essa dedotto, relativo all'inadempimento da parte della clinica della convenzione esistente con essa. La S.C. ha dichiarato inammissibile la doglianza così come proposta, giacché «non riferisce le lacune della motivazione a passi specifici della … stessa e riconduce genericamente a vizi della motivazione quello che al più avrebbe dovuto essere denunciato come vizio di violazione di legge. Infatti essa muove una contestazione che attiene alla presenza di una autonoma legittimazione ad impugnare la statuizione relativa al rapporto principale in capo alla ricorrente, fondata non sul rapporto di garanzia impropria, ma sul proprio rapporto diretto con la clinica, in forza della convenzione assistenziale conclusa. Sostiene quindi di aver agito sulla base di un titolo proprio, per far accertare l'inadempimento della clinica rispetto alle condizioni fissate nella convenzione. Si deduce quindi pur sempre una violazione delle norme relative alla legittimazione ad impugnare …». vi) Pur se nessuna osservazione critica appare giustificata in ordine alla pronuncia di inammissibilità, ove considerata ex se, perplessità sono manifestabili in ordine alla mancata pronuncia in ordine alla seconda delle suddette questioni, posta con specifica e rituale doglianza. Stando a quanto si evince dalla sentenza, la ricorrente parrebbe aver fatto valere, sin dai gradi di merito, qualità, nonché di chiamata in garanzia, di interveniente adesivo autonomo o litisconsortile. Nella fase di prima istanza, la garante si opponeva alla domanda di manleva con argomentazioni valevoli sia con riguardo al suo rapporto con la garantita che con l'attore principale: "nulla devo in ragione dei termini della convenzione che mi lega alla casa di cura, sottesa anche al rapporto assicurativo con la mia assistita". Nella fase di appello, promossa dal terzo chiamato unicamente nei confronti dell'attore principale, l'argomentazione testè riferita è stata volta a far valere l'insussistenza del suo obbligo di garanzia, pertanto non già in relazione al rapporto principale, ma unicamente per gli effetti riflessi della pronuncia di condanna della garantita nei confronti della garante. Deve ritenersi essersi instaurata una situazione di litisconsorzio processuale per dipendenza di una causa dall'altra, che nei giudizi di impugnazione determina l'inscindibilità delle cause (si veda, in riferimento ad una fattispecie analoga, Cass. civ., sez. un., 4 dicembre 2015, n. 24707, di estremo interesse anche per ciò che concerne lo stemperamento del discrimine fra le due categorie della garanzia c.d. propria e della garanzia c.d. impropria, ritenute da mantenere «soltanto a livello descrittivo delle varie fattispecie di garanzia»). Si sarebbe, pertanto, dovuta disporre, da parte del giudice di appello, l'integrazione del contraddittorio. Non essendo stato dato corso a tale adempimento, pur data l'ammissibilità del gravame, si sarebbe dovuta dichiarare, da parte della Suprema Corte, la nullità (vizio rilevabile d'ufficio anche in sede di legittimità) dell'intero procedimento di secondo grado e della sentenza che lo aveva concluso e si sarebbe dovuto rimettere le parti innanzi al giudice d'appello per un nuovo esame della controversia, previa integrazione del contraddittorio nei confronti della parte pretermessa (v., da ultimo, Cass. civ., sez. III, 19 ottobre 2015, n. 21070). COSTANTINO G., Garanzia (chiamata in), in Dig. Civ., VIII, Torino 1992, 596; LA CHINA S., Garanzia (chiamata in), in ED, XVIII, Milano 1969; LUISO F., Diritto processuale civile, 1, 2, Il processo di cognizione, Milano 2015; MANDRIOLI C., Diritto processuale civile, 1, 2, Torino 2011; PUNZI C. La notificazione degli atti nel processo civile, Milano, 1959 |