Regolamentazione delle spese processuali nei confronti degli interventori

12 Giugno 2017

La sentenza in commento affronta la problematica concernente il regime delle spese processuali da applicare nei casi in cui occorra pronunciarsi non con riferimento alla posizione delle parti principali del giudizio, ma a quella delle parti intervenute.
Massima

Nella regolamentazione delle spese processuali il principio della soccombenza trova applicazione nei confronti dell'interventore solo se quest'ultimo fa propria la posizione di uno dei contendenti ed assume una posizione attiva di contrasto nei confronti dell'altro.

Il caso

Il Tribunale di Torre Annunziata, chiamato a pronunciarsi, quale giudice d'appello, sul gravame proposto dalla parte soccombente in un giudizio di risarcimento dei danni derivanti da circolazione stradale svoltosi innanzi al Giudice di Pace, nel respingere l'appello, condannava, oltre all'appellante anche la compagnia assicuratrice, intervenuta nel giudizio di primo grado quale impresa designata per il F.G.V.S..

Avverso tale decisione la società assicuratrice proponeva ricorso per Cassazione, prospettando la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 91, 132 c.p.c., 118 disp. att. c.p.c.: ciò in quanto la sentenza appellata la avrebbe erroneamente condannata al pagamento delle spese processuali, pur non avendo essa assunto in questo grado di giudizio una posizione di contrasto con la parte appellata, risultata vincitrice all'esito dell'appello.

La Corte di Cassazione, con la decisione in esame, accoglie il ricorso, richiamando il consolidato orientamento secondo cui, relativamente alla decisione sulla regolamentazione delle spese di lite, il soggetto che interviene in un giudizio pendente tra altre parti soggiace al principio della soccombenza soltanto qualora faccia propria la posizione di una delle parti principali, assumendo, quindi, una posizione processuale contrastante rispetto all'altra.

Sulla base di questa premessa, i giudici della Suprema Corte cassano la sentenza impugnata e decidono nel merito la controversia ai sensi dell'art. 384, comma primo, c.p.c., - trattandosi di decisione relativa al solo profilo della regolamentazione delle spese processuali che non richiede, quindi, ulteriori accertamenti in fatto - disponendo la compensazione delle spese di lite del grado di appello tra la parte risultata vincitrice e la compagnia assicuratrice che aveva assunto una posizione sostanzialmente neutrale rispetto alle posizioni delle altre parti.

La questione

La sentenza in commento affronta la problematica concernente il regime delle spese processuali da applicare nei casi in cui occorra pronunciarsi non con riferimento alla posizione delle parti principali del giudizio, ma a quella delle parti intervenute.

La decisione impugnata innanzi alla Suprema Corte faceva applicazione del principio della soccombenza anche con riferimento a queste parti, ossia alle parti che non assumono la veste di contendenti principali del giudizio, e ciò indipendentemente dalla posizione concretamente assunta rispetto a queste ultime.

La Corte di Cassazione, invece, richiamando anche una propria precedente decisione (sent. n. 6880/1997), precisa che il principio della soccombenza intanto può trovare applicazione, in quanto la parte intervenuta nel giudizio abbia fatto propria la posizione di uno dei contendenti, assumendo, quindi, al contempo, posizione attiva di contrasto nei confronti dell'altra, poiché solo in questo caso potrà ravvisarsi una situazione di soccombenza rispetto all'esito della lite, che giustifica, quindi, la regolamentazione delle spese processuali secondo questo criterio.

Il principio affermato e richiamato trae, quindi, il proprio fondamento dalla necessità di tenere distinte, nel regolamentare le spese processuali, la posizione delle parti principali del giudizio, da quella delle parti intervenute che potrebbero, in concreto, assumere una posizione non di contrasto in relazione al principale oggetto del contendere e, quindi, alle rispettive posizioni assunte dalle altre parti, il che impedisce di poterle considerare, a loro volta, automaticamente vincitrici o soccombenti rispetto alle domande proposte in relazione all'esito della controversia. Ciò diversamente dall'ipotesi in cui, invece, esse abbiano assunto la posizione di uno dei principali contendenti facendola propria, perché in questo caso la loro posizione sarà assimilabile a quella delle parti principali.

Le soluzioni giuridiche

La decisione in commento, nell'affermare il principio di diritto secondo cui la condanna al pagamento delle spese processuali può essere pronunciata nei confronti del soggetto interventore sempre che egli abbia assunto una posizione processuale sostanzialmente assimilabile a quella delle parti già costituite, e quindi di adesione ad una di esse e di contrasto rispetto all'altra, ribadisce un principio già affermato in diverse pronunce della Corte di Cassazione: in questi termini, tra le altre, Corte di Cassazione, sent. n. 4529/1984: «Un soggetto che intervenga in giudizio a sostegno delle ragioni di una parte contro l'altra, si pone in posizione obiettivamente contrapposta a quest'ultimo, per cui la reiezione dell'intervento importa la soccombenza dell'interventore nei confronti dell'avversario della parte adiuvata, e giustifica quindi la condanna del medesimo al rimborso delle spese a favore del vittorioso, che può essere disposta anche d'ufficio».

Peraltro, appare opportuno osservare come, in linea anche con altre decisioni più risalenti (cfr. Cass., sent. n. 7057/1982), la Suprema Corte affermi che la valutazione sulla soccombenza o meno dell'interventore prescinda da ogni valutazione sulla natura, sul titolo o sulla legittimità dell'intervento. Rilievo decisivo ed assorbente, infatti, assume il dato della posizione processuale assunta dall'interventore che, come evidenziato, dev'essere assimilabile a quella dei contendenti principali.

Quanto al tipo di condanna da adottare in quest'ultima ipotesi, ossia in caso di soccombenza giustificata dal fatto che l'interventore ha fatto propria la posizione di una delle altre parti, essa potrà essere disposta in solido, e quindi in deroga al criterio generale sancito dall'art. 97, comma primo, c.p.c., sempre che si accerti la sussistenza di un interesse comune alle parti risultate soccombenti (cfr. Cass., sent. n. 6880/1997). Ciò in linea con quanto previsto da tale norma, in base alla quale: «Se le parti soccombenti sono più, il giudice condanna ciascuna di esse alle spese e ai danni in proporzione del rispettivo interesse nella causa. Può anche pronunciare condanna solidale di tutte o di alcune tra esse, quando hanno un interesse comune». Secondo tale disposizione, quindi, in caso di pluralità di parti soccombenti, la regola generale è che in sede di liquidazione delle spese processuali ciascuna di essa risponda proporzionalmente al proprio interesse, mentre costituisce deroga a tale criterio generale l'ipotesi della condanna solidale, che può essere pronunciata allorquando, si accerti che l'interesse delle parti soccombenti è comune. Accertamento che, costituendo valutazione di merito, non è sindacabile in sede di legittimità.

Per quanto concerne la definizione di interesse comune, come chiarito dalla Corte di Cassazione, sin dalla sentenza a Sezioni Unite 12 febbraio 1987, n. 1536, esso non postula necessariamente la solidarietà o indivisibilità del rapporto sostanziale, potendo derivare anche dalla mera comunanza di interessi che, a propria volta, può essere desunta dall'identità delle questioni sollevate e dibattute, ovvero dalla convergenza di atteggiamenti difensivi diretti a contrastare la pretesa avversaria. In questo senso anche le successive decisioni della Corte di Cassazione n. 1100/1995, n. 6761/2005, n. 24757/2007, n. 17281/2011 e n. 27562/2011.

Osservazioni

Il principio di diritto affermato dalla Suprema Corte nella decisione in commento, espressione di un orientamento consolidato, come si evince da altre decisioni precedenti sul tema (Corte di Cassazione, sentenze n. 7057/1982, n. 4529/1984, n. 6880/1997 e n. 4213/2007), impone all'interprete di distinguere, in sede di regolamentazione delle spese processuali, le singole posizioni di tutte le parti coinvolte nel giudizio, tenendo quindi distinti i diversi rapporti processuali che si possono instaurare all'interno del medesimo giudizio.

Analoga valutazione, del resto, viene svolta nel caso del terzo chiamato in causa. In quest'ipotesi, pur trovando applicazione, similmente a quanto si è visto per la posizione dell'interventore, il criterio generale della soccombenza, la soluzione è in parte differente, dovendosi individuare, in caso di rigetto della domanda proposta dall'attore dal quale è poi scaturita la chiamata in causa del terzo, il soggetto sul quale effettivamente ricadano le conseguenze della chiamata in causa ed in particolare sul quale ricada l'obbligo di corrispondere le spese processuali da riconoscere al terzo chiamato in causa.

Sotto questo profilo, la Corte di Cassazione ha affermato il principio di diritto secondo cui deve essere l'attore, in caso di rigetto della domanda da egli proposta, a sopportare le conseguenze economiche della chiamata in causa, senza che rilevi che l'attore abbia proposto o meno nei confronti del terzo alcuna domanda, ad eccezione dell'ipotesi in cui la scelta di chiamare in causa effettuata dal chiamante si riveli “palesemente arbitraria”, poiché in questa seconda ipotesi sarà colui che ha richiesto ed effettuato la chiamata in causa a sopportarne le conseguenze economiche (in questi termini Corte di Cassazione, sentenze n. 12301/2005 e n. 7431/2012).

E ciò anche nel caso in cui l'attore sia risultato comunque soccombente rispetto al convenuto chiamante, poiché la palese infondatezza della domanda proposta nei confronti del terzo chiamato in causa implica che il chiamante sarebbe risultato comunque soccombente nei confronti di quest'ultimo indipendentemente dall'esito della causa principale (in questi termini, Corte di Cassazione, ordinanza n. 10070/2017).

Anche in questo caso, quindi, come nel caso dell'interventore, la regolamentazione delle spese processuali implica la verifica delle specifiche posizioni processuali assunte dalle parti rispetto alle domande proposte, con l'ovvia differenza che, trattandosi di soggetto che, a differenza dell'interventore volontario, non interviene in giudizio per una propria scelta, ma perché chiamato da una delle parti, occorrerà verificare necessariamente la fondatezza o meno delle ragioni alla base della chiamata in causa.

E con l'ulteriore precisazione che, come evidenziato, dovrà verificarsi anche la palese arbitrarietà della chiamata in causa, perché in quest'ipotesi sarà il soggetto chiamante a subire le conseguenze della propria iniziativa processuale indipendentemente dal rigetto della domanda principale, prevalendo il profilo della totale infondatezza della chiamata, e quindi attinente al rapporto processuale tra chiamante e chiamato in causa, su quello della fondatezza o meno della domanda proposta dall'attore, attinente al rapporto principale attore-convenuto.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.