Compensazione per soccombenza reciproca? Può essere disposta anche in caso di accoglimento parziale della domanda

Mauro Di Marzio
10 Gennaio 2017

Il vincitore, in tutto o in parte, non può mai e in nessun caso essere condannato a rimborsare le spese di lite al perdente. Fatta eccezione per un'ipotesi unica, quella attualmente contemplata dal secondo periodo del primo comma dell'art. 91 c.p.c..
Massima

La nozione di soccombenza reciproca, che consente la compensazione parziale o totale delle spese processuali, sottende - anche in relazione al principio di causalità - una pluralità di domande contrapposte, accolte o rigettate, che si siano trovate in cumulo nel medesimo processo fra le stesse parti, ovvero l'accoglimento parziale dell'unica domanda proposta, allorché essa sia stata articolata in più capi e ne siano stati accolti uno o alcuni e rigettati gli altri, ovvero una parzialità dell'accoglimento meramente quantitativa, riguardante una domanda articolata in unico capo.

Il caso

Nei suoi termini essenziali la lite può essere riassunta in poche battute. Incidente stradale. Una donna, rimasta danneggiata mentre viaggiava alla guida del suo ciclomotore a causa dell'urto con un'autovettura che, procedendo nell'opposto senso di marcia, aveva invaso la sua carreggiata, agisce in giudizio per il risarcimento del danno contro il proprietario del veicolo antagonista e l'assicuratore per responsabilità civile.

Il primo grado si conclude con l'accoglimento pieno della domanda.

La sentenza, impugnata dal danneggiante e dall'assicuratore, è però riformata limitatamente al quantum: e, cioè, la Corte d'appello investita della controversia ridimensiona l'entità del risarcimento riconosciuto alla donna.

E qui viene in questione l'aspetto che ci interessa. La Corte d'appello, avendo riformato la sentenza, procede alla (ri)liquidazione delle spese di lite del primo grado ed alla liquidazione di quelle del grado d'appello: e lo fa compensando la metà dell'intero e ponendo la rimanente metà, con riguardo ad entrambi i gradi del giudizio, a carico — diremmo, nientepopodimeno che — dell'originaria attrice.

Sicché la povera donna, dopo essere stata investita, ed aver visto riconosciuto anche all'esito del secondo grado il proprio diritto al risarcimento del danno, essendo così risultata tutto sommato vincitrice, sia pure non del tutto, è condannata a pagare le spese di lite ai perdenti.

Una decisione — suppongo ognuno dei lettori intenda — da cartellino giallo, a voler essere teneri.

La questione

Può il vincitore essere condannato a pagare le spese di lite al perdente?

Ed ancora. Chi ha vinto in parte (dobbiamo infatti credere, anche se la sentenza in commento non è sul punto prodiga di particolari, che la danneggiata abbia ottenuto all'esito del giudizio di appello meno di quanto aveva chiesto con l'originario atto di citazione) può sol per questo subire la compensazione delle spese di lite?

Le soluzioni giuridiche

Per rispondere a tali domande la Corte di cassazione impiega 9033 battute (spazi inclusi), e non sono poche. Ma la diffusione della motivazione non è senza ragione, come vedremo.

La sentenza riafferma anzitutto che il vincitore, in tutto o in parte, non può mai e in nessun caso essere condannato a rimborsare le spese di lite al perdente. Fatta eccezione per un'ipotesi unica, quella attualmente contemplata dal secondo periodo del primo comma dell'art. 91 c.p.c., per il caso che la parte infine vincitrice abbia tuttavia respinto una non meno favorevole precedente proposta conciliativa formulata dall'altra parte.

Dopodiché la pronuncia in commento risponde al secondo quesito poc'anzi posto. Chi ha vinto in parte può sol per questo subire la compensazione totale o parziale delle spese: il che, come tutti sanno, sta a significare che ciascuna delle parti in causa sopporta definitivamente, in tutto o in parte, le spese che ha sostenuto.

L'affermazione che precede viene fondata sul testo del secondo comma dell'art. 92 c.p.c., secondo cui, se vi è «soccombenza reciproca», ovvero in altre limitate ipotesi che ora non ci interessano, «il giudice può compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero».

E quando ricorre la «soccombenza reciproca»? Ecco il punto. Si ha soccombenza reciproca, secondo la Suprema Cassazione:

  1. se le parti hanno spiegato domande contrapposte che sono state entrambe accolte ovvero sono state entrambe respinte, in tutto o in parte, come nell'ipotesi di domanda principale e riconvenzionale;
  2. se l'attore ha formulato un cumulo di domande, ovvero una domanda articolata in capi, alcuni accolti ed alcuni respinti;
  3. se l'attore abbia formulato una sola domanda, che sia stata accolta in parte: e questo è il nostro caso, in cui la danneggiata aveva chiesto, poniamo, 100 ed aveva invece ottenuto, poniamo, 50.
Osservazioni

L'impossibile condanna del vincitore. Il primo principio affermato dalla Suprema Corte è nella sostanza ineccepibile: chi vince (fatta salva l'ipotesi eccezionale di cui si è detto) non può mai essere condannato a pagare le spese a chi ha perso.

La pronuncia in commento, nel fornire tale responso, fa leva sul principio di causalità, ossia il principio in forza del quale paga le spese di lite chi ha dato causa al processo: chi, in altre parole, non ha riconosciuto il proprio torto prima del giudizio ed ha così costretto l'altra parte a rivolgersi al giudice; ovvero chi, avendo torto, ha agito in giudizio nei confronti di chi aveva ragione.

Volendo approfondire il richiamo al principio di causalità finiremmo per versare fiumi di inchiostro e soprattutto per stimolare il sonno profondo del lettore. Diremo, in breve, che per i più la disciplina delle spese di lite si fonda sul principio della soccombenza: chi perde paga, punto e basta, senza che il carico delle spese di lite sul soccombente possegga alcuna coloritura sanzionatoria. Al contrario, chi perde paga perché il vincitore non deve (o non dovrebbe…, ma questo è un altro discorso, come vedremo nel paragrafo successivo) subire neppure in parte il costo del processo, altrimenti il diritto che egli ha fatto valere in giudizio, e che gli è stato riconosciuto dal giudice, subirebbe una decurtazione, verrebbe gravato di un peso. Il principio della soccombenza risponde cioè alla regola tradizionale victus victori (il vitto al vincitore, ossia il vincitore si soddisfa a spese del perdente). Altri invece pongono a fondamento della fondamentale norma dettata in tema di spese di lite, l'art. 91 c.p.c., il principio di causalità: paga chi ha provocato il processo: potrei dire, se mi si passa l'espressione, che paga le spese chi è stato cattivo.

Non è il caso di approfondire oltre: ma, certo, la pronuncia in commento ha ragione nel sottolineare che il secondo periodo dell'art. 91 c.p.c., di cui si è prima dato conto, è una puntuta freccia all'arco dei sostenitori del principio di causalità.

Detto questo, la sentenza, per quest'aspetto, non dice nulla di nuovo. Le pronunce della SC le quali affermano che l'accoglimento della domanda, anche in misura minima, escluda la condanna del vincitore alle spese sono numerosissime (così tra le tante Cass. 20 dicembre 1962, n. 3388; Cass. 8 gennaio 1968, n. 46; Cass. 30 aprile 1979, n. 2513; Cass. 24 aprile 1987, n. 4012; Cass. 3 marzo 1994, n. 2124).

E però, nel ribadire un principio così fortemente condiviso, la decisione della SC ha avuto un indubbio merito: quello di aver bloccato sul nascere il possibile diffondersi della soluzione patrocinata da Cass. 22 febbraio 2016, n. 3438, che — nel caso di un modesto incidente stradale, che aveva dato luogo ad un primo grado conclusosi con la vittoria parziale degli attori danneggiati e ad un appello anch'esso conclusosi in senso loro favorevole — aveva confermato la sentenza impugnata, la quale, nella reciproca soccombenza delle parti, aveva condannato gli attori (e cioè ancora una volta i vincitori) a pagare le spese residue, all'esito della parziale compensazione, per aver causato in via prevalente gli oneri processuali, proponendo una domanda per un importo notevolmente maggiore di quello dovuto e così determinando lo svolgimento del processo, nonostante il pagamento quasi integrale avvenuto quattro giorni dopo la proposizione del ricorso, solo per accertare che il residuo di poche centinaia di euro ancora dovuto non era pari a quello preteso. Soluzione decisamente non condivisibile — dirò per brevità a costo di apparire insolentemente goliardico, visto che stiamo parlando pur sempre della Suprema Corte di cassazione! —, giacché la regola secondo cui chi deve avere dal debitore poche centinaia di euro non può agire in giudizio pare allo stato sancita soltanto dalla legge del Menga, che però l'ordinamento positivo, per ora, non sembra avere accolto…

La latitudine della compensazione. La Cassazione, come abbiamo visto, ha risposto al quesito: che cos'è la soccombenza reciproca. Qui la questione si fa assai più interessante.

Noi sappiamo che il legislatore è intervenuto più volte negli ultimi anni sull'art. 92 c.p.c., che attribuiva all'origine al giudice un potere di compensazione sostanzialmente illimitato, potendo la compensazione essere disposta per «giusti motivi», così e semplicemente. Così, successivi interventi di riforma hanno richiesto giusti motivi esplicitamente indicati nella motivazione, poi gravi ed eccezionali ragioni, poi assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti. Quest'ultima è la formulazione attualmente vigente, che ha ridotto (o per meglio dire avrebbe voluto ridurre) al lumicino il potere di compensazione.

Il legislatore, però, non è intervenuto sulla prima parte del secondo comma dell'art. 92 c.p.c., che prevede la compensazione in caso di «soccombenza reciproca». E non senza ragione. La compensazione delle spese, infatti, altro non è che l'esplicazione del principio stesso di soccombenza: e cioè, in caso di soccombenza reciproca, le rispettive condanne alle spese, disposte in applicazione della regola generale, finirebbero oggettivamente per elidersi e risultare in definitiva superflue, come spiega chiaramente il Chiovenda a pag. 268 de «La condanna nelle spese giudiziali», Roma, 1935. Naturalmente, è superfluo aggiungere che la soccombenza reciproca non impone la compensazione, poiché il giudice può senz'altro non compensare e condannare per intero quella delle parti che ritenga prevalentemente soccombente.

Ora, secondo un indirizzo giurisprudenziale rimasto fermo fino al 2009, la nozione di soccombenza reciproca poteva ricorrere in due ipotesi: a) quando vi fosse la contrapposta formulazione di domande; b) quando l'attore avesse proposto nei confronti del convenuto un cumulo di domande. Viceversa, non ricorreva l'ipotesi della reciproca soccombenza quando la sola domanda proposta, quella principale avanzata dall'attore nei confronti del convenuto, fosse risultata fondata soltanto in parte, quand'anche minima (Cass., 3 marzo 1994, n. 2124; Cass., 11 marzo 1994, n. 2653; Cass., 23 giugno 2000, n. 8532; Cass., 5 ottobre 2001, n. 12295; Cass., 21 aprile 2004, n. 7638).

Nel 2009, nella disattenzione dei commentatori, Cass., 21 ottobre 2009, n. 22381, ha affermato invece che si ha «soccombenza reciproca» anche in caso di accoglimento parziale di una singola domanda. Il sasso gettato nello stagno non ha prodotto effetti per quattro anni, quando il principio è stato confermato da Cass.,23 settembre 2013, n. 21684). Di qui un'ampia messe di pronunce si è espressa nello stesso senso, senza che mai siano state chiamate ad intervenire sul punto le Sezioni Unite.

Il risultato finale si può riassumere in ciò, che, ad onta degli interventi normativi del legislatore cui si è fatto cenno, la latitudine del potere di compensazione si è nuovamente espansa fino a divenire pressoché illimitata, giacché, in effetti, l'accoglimento parziale della domanda (immaginiamo, all'estremo, l'attore che abbia chiesto 100 e la sentenza che gli abbia riconosciuto soltanto 99) è un evento del tutto fisiologico e comunissimo. Insomma, il legislatore vuol comprimere il potere di compensazione del giudice, il giudice trova il modo di ampliarlo ancor di più. Come chiarisce la sentenza in commento, infatti, il potere di compensazione per «soccombenza reciproca» ha natura discrezionale, il che vuol dire che è poco o nulla controllabile.

E questa, io credo, non è una buona cosa.

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