La revocazione della sentenza per prove false

Giuseppe Buffone
10 Giugno 2016

Ai sensi dell'art. 395 n. 2, la sentenza è suscettibile di revocazione se si è giudicato in base a prove riconosciute o comunque dichiarate false dopo la sentenza oppure che la parte soccombente ignorava essere state riconosciute o dichiarate tali prima della sentenza. Si tratta, dunque, di un vizio revocatorio che attiene al processo di formazione della decisione e, in particolare, colpisca la piattaforma probatoria da cui ha attinto il giudice per costruire la sua pronuncia definitiva.
Il quadro normativo

La revocazione è ammessa «se si è giudicato in base a prove riconosciute o comunque dichiarate false dopo la sentenza oppure che la parte soccombente ignorava essere state riconosciute o dichiarate tali prima della sentenza» (art. 395, n. 2 c.p.c.). Il termine per la revocazione decorre dal giorno in cui è stata scopertala falsità: la esatta individuazione della data in cui si è verificato l'evento indicato dall'art. 395 c.p.c. (scoperta della falsità o recupero dei documenti), rilevante agli effetti della decorrenza del termine di impugnazione, prescritta, a pena di inammissibilità della domanda, dall'art. 398 c.p.c., comma 2 «deve essere fin dall'inizio di chiara ed immediata percezione, di guisa da consentire la possibilità di accertare l'osservanza o meno del termine perentorio di impugnazione» (Cass. civ., 18 febbraio 1963 n. 387).

Ciò perché, ai sensi dell'art. 398, comma 2 c.p.c., la citazione per revocazione «deve indicare, a pena d'inammissibilità, il motivo della revocazione e le prove relative alla dimostrazione dei fatti di cui ai numeri 1, 2, 3 e 6 dell'articolo 395, del giorno della scoperta o dell'accertamento del dolo o della falsità o del recupero dei documenti». Il dies a quo costituisce, pertanto, un onere di allegazione della parte istante, oggetto di un preciso thema probandum e consente di dare ingresso al giudizio rescindente; consequenzialmente, è onere di colui che agisce in revocazione indicare le prove rilevanti ai fini dell'accertamento del citato dies a quo di decorrenza dei termini perentori relativi alle diverse ipotesi previste dall'art. 395 c.p.c., nonché richiedere l'espletamento delle predette prove sulle circostanze indicate nell'atto introduttivo, al fine di fare risultare in concreto la tempestività della impugnazione nei termini perentori di cui all'art. 326 c.p.c. (Cass. Civ., 28 maggio 1968 n. 1627).

Ne consegue che «non vale ad escludere la sanzione di inammissibilità, la integrazione di tali indicazioni negli atti difensivi successivi a quello introduttivo, nè la eventuale indagine compiuta dal giudice intesa a precisare il giorno della scoperta che verrebbe a risolversi in una relevatio ab onere probandi della parte non consentita» (Cass. Civ., sez. I, 7 aprile 1971 n. 1030; Cass. Civ., sez. Unite, 11 giugno 1973 n. 1670: che evidenzia altresì la esigenza che la controparte sia messa immediatamente in grado di apprestare le proprie difese anche in relazione alla tempestività della impugnazione revocatoria).

Inoltre la parte istante per assolvere compiutamente all'onere di provare il momento in cui è venuta a conoscenza del riconoscimento o della dichiarazione della falsità della prova sulla base della quale è stata pronunciata la sentenza revocando «non può limitarsi ad affermare di essere venuta a conoscenza del fatto dedotto a motivo di revocazione per una determinata circostanza e in un momento determinato, ma deve dedurre la prova non solo di quella circostanza, ma anche del fatto che essa escluda, secondo un ragionamento realistico, sul piano fattuale e logico, l'eventualità di una conoscenza anteriore, tanto più quando il fatto rivelatore sia anticipatamente ipotizzatile e prevedibile e la presa di conoscenza di esso dipenda da una minima attivazione dell'interessato, in particolare, ai fini dell'individuazione del termine di decorrenza per la proposizione del ricorso per revocazione, la prova della data dell'avvenuta dichiarazione o del riconoscimento della falsità della prova concerne la conoscenza effettiva e non la conoscenza "legale" di tali fatti e deve essere tale da escludere che, secondo criteri di ragionevolezza, considerata la peculiarità del caso concreto, l'interessato fosse venuto ancor prima a conoscenza della dedotta declaratoria di falsità» (Cass. Civ., sez. lav., 14 luglio 2005, n. 14821).

Presupposti e condizioni della revocazione

L'art. 395 c.p.c., indicando quale presupposto dell'istanza di revocazione che si sia giudicato su prove "dichiarate false", postula che tale dichiarazione sia avvenuta con sentenza passata in giudicato (in sede civile o penale) anteriormente alla proposizione dell'istanza di revocazione, con la conseguenza che è inammissibile l'istanza di revocazione basata sulla falsità di prove da accertare nello stesso giudizio di revocazione. Ai fini dell'ammissibilità dell'istanza di revocazione è necessario, altresì, che il giudicato (civile o penale) sul falso si sia formato in un giudizio, al quale abbiano partecipato tutte le parti del processo in cui è stata emessa la sentenza assoggettata a revocazione, restando esclusa, inoltre, la possibilità che detto giudicato possa desumersi se non per via diretta e principale e quindi in via incidentale (Cass. Civ., sent., 22 febbraio 2006 n. 3947).

In tempi recenti, la Suprema Corte ha ribadito che il decreto di archiviazione, non comportando alcun accertamento con efficacia di giudicato, è inidoneo a fondale la domanda di revocazione (Cass. civ., sez. lav., 9 gennaio 2015 n. 156); si confronti in tal senso Cass. civ., sez. lav., 6 luglio 2002 n 9834 secondo cui «il decreto di archiviazione emesso dal giudice penale ex art. 409 c.p.p., per la sua natura di atto giudiziale non definitivo, esso non integra accertamento della falsità di una deposizione che possa dare luogo al giudizio di revocazione ex art. 395 c.p.c., n. 2» o ancora Cass. civ.,sez. III, 22 febbraio 2006 n. 3947 secondo cui «l'art. 395 c.p.c., indicando quale presupposto dell'istanza di revocazione che si sia giudicato su prove "dichiarate false", postula che tale dichiarazione sia avvenuta con sentenza passata in giudicato (in sede civile o penale) anteriormente alla proposizione dell'istanza di revocazione, con la conseguenza che è inammissibile l'istanza di revocazione basata sulla falsità di prove da accertare nello stesso giudizio di revocazione».

La falsità deve colpire la prova: per «prova», nei sensi indicati dall'art. 395 c.p.c., deve intendersi la «prova in senso lato», come qualsiasi mezzo o strumento predisposto dalla legge perché il giudice possa, attraverso un'attività percettiva o induttiva, formarsi un convincimento circa l'esistenza o l'inesistenza dei fatti rilevanti per la decisione della causa; ne consegue che tra le prove la cui falsità è rilevante in questa sede sono da ritenersi incluse, oltre a tutte le prove tecniche - con esclusione del solo giuramento - anche la consulenza tecnica d'ufficio e la perizia svolta nel processo penale (Cass. Civ., sez. III, 22 febbraio 2006 n. 3947 cit.).La «falsità» della prova non è sufficiente per la revocazione: deve trattasi di una prova «in base alla quale si sia giudicato».

In altri termini, l'erronea affermazione dell'esistenza di un fatto la cui realtà, invece, debba ritenersi positivamente esclusa in base al tenore degli atti o documenti di causa può costituire motivo di revocazione della sentenza ai sensi dell'art. 395, n. 4, c.p.c., solo se sussiste un rapporto di causalità necessaria fra l'erronea supposizione e la pronuncia in concreto resa dal giudice di merito; deve quindi escludersi che tale mezzo di impugnazione possa essere utilizzato in relazione ad errori incidenti su fatti che, non decisivi in se stessi, devono essere valutati in un più ampio contesto probatorio, anche quando, nell'ambito appunto della globale valutazione degli elementi di prova, l'elemento pretermesso avrebbe potuto in concreto assumere un rilievo decisivo (Cass. Civ., sez. lav., sentenza 28 agosto 1997 n. 8118).

Disciplina della revocazione nel rito ordinario e nel processo tributario

Nel procedimento tributario (v. art. 51, d. lgs. 31 dicembre 1992 n. 546), nel caso di revocazione per i motivi di cui ai numeri 1, 2, 3 e 6 dell'art. 395 del c.p.c. il termine di sessanta giorni per l'impugnazione della sentenza (art. 51, comma 1, d. lgs. 546/1992) decorre – per quanto qui interessa «dal giorno in cui sono state dichiarate false le prove o è stato recuperato il documento». Si registra, dunque, una discrasia tra la disciplina generale e quella trasposta nel giudizio tributario. Secondo la Suprema Corte, la apparente non coincidenza del tenore letterale della norma processuale tributaria (art. 51 d.lgs. 546/1992) rispetto alla formulazione testuale dell'art. 326 c.p.c. deve essere ricomposta e superata alla stregua del criterio di interpretazione sistematica e degli insegnamenti della Corte costituzionale in materia di processo tributario volti in particolare ad affermare il principio di effettività della tutela giurisdizionale, dovendo in conseguenza essere individuato nel momento della scoperta della falsità della prova (e non nel momento della pronuncia dichiarativa della falsità), il dies a quo del termine di decadenza previsto dal d. lgs. n. 546 del 1992, art. 51, comma 2 alla stregua dei seguenti elementi interpretativi:

a) la specialità del processo tributario non è ex se idonea a giustificare la diversa disciplina della decorrenza del termine prevista dal d. lgs. n. 546 del 1992, art. 51 e dall'art. 326 c.p.c.;

b) a favore della tesi interpretativa volta a ravvisare una «mera imprecisione lessicale» nella formulazione letterale del testo del d. lgs. n. 546 del 1992, art. 51, comma 2 depone inoltre il confronto testuale con l'art. 64, comma 2 del medesimo decreto legislativo;

c) la mera interpretazione letterale della norma del processo tributario verrebbe, peraltro, ad esporta a sospetto di illegittimità costituzionale - sotto il profilo della violazione del criterio di ragionevolezza ex art. 3 Cost. e del diritto di difesa garantito dall'art. 24 Cost.- laddove, individuando la decorrenza del termine perentorio della proposizione della revocazione straordinaria «dalla data della pronuncia» di falsità della prova (anziché dalla scoperta), si limiterebbe in modo ingiustificato la tutela giurisdizionale della parte rimasta ignara, per fatto alla stessa non imputabile, dell'intervenuto accertamento della falsità della prova (v. Cass. Civ., sez. trib., sentenza 25 maggio 2011 n. 11451).

Il d. lgs. n. 156 del 2015 (in vigore dall'1 gennaio 2016) ha modificato gli artt. 49 e 50 del d. lgs. 546 del 1992, ma non anche l'art. 51. L'insegnamento della Suprema Corte è, però, certamente condivisibile anche perché questa ultima riforma, modificando (tra l'altro) i due articoli indicati ha incrementato il tasso di permeabilità del processo tributario ai mezzi di impugnazione ordinari (come previsti dal cpc) così dimostrando di voler predicare una uniformità di regolamentazione.

In conclusione

Giova ricordare che, ai fini della proponibilità dell'impugnazione per revocazione, il riconoscimento della falsità della prova, previsto dall'art. 395 n. 2 c.p.c. come motivo di revocazione, è solo quello proveniente dalla parte a favore della quale la prova è stata utilizzata, mentre è irrilevante l'accertamento della falsità compiuto in giudizi vertenti tra terzi. (cfr. Cass. civ., sez. trib., 6 febbraio 2009 n. 2896).

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