Cassazione senza rinvio e cessazione della materia del contendere

Cristina Asprella
10 Giugno 2016

La cassazione senza rinvio delle sentenze di primo e di secondo grado è stata estesa dalla giurisprudenza di legittimità all'ipotesi della cessazione della materia del contendere. Per esigenze di economia processuale e di semplificazione la giurisprudenza della Corte di cassazione è giunta a scorgere nella formula della cessazione della materia del contendere un utile espediente per conformare il piano processuale-formale all'esaurimento della controversia, giungendo praeter legem ad «enucleare un vero e proprio istituto processuale di cui ha finito per forgiare autonomamente i contorni».
La cessazione della materia del contendere

Sotto l'insegna della cessazione della materia del contendere sono state ricondotte fattispecie eterogenee, la cui sopravvenienza successivamente alla litispendenza, esaurendo la controversia dedotta in giudizio, renderebbe inutile l'accertamento della «concreta volontà di legge». Gli eventi causativi della cessazione della materia del contendere possono essere di natura fattuale ovvero consistere in atti frutto della volontà di uno o di entrambi i contendenti. Quanto ai primi, ci si riferisce per lo più al perimento della res litigiosa (della cosa, cioè, oggetto del diritto controverso), alla morte di una delle parti in un rapporto giuridico intrasmissibile (ad es. alla morte di uno dei coniugi in un processo di separazione personale o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, dell'interdicendo nel processo di interdizione, del soggetto ingiunto in materia di sanzione amministrativa pecuniaria o del magistrato in sede di procedimento disciplinare) o alla successione di leggi. Discendono invece dalla volontà delle parti e si assume reagiscano sull'oggetto del processo, determinando la cessazione della materia del contendere, in specie la rinuncia alla azione, il riconoscimento della domanda, l'integrale soddisfacimento del diritto altrui, lo scioglimento consensuale del contratto del quale sia stata chiesta la risoluzione per inadempimento, la transazione (Cass. civ., sez. un., 28 settembre 2000, n. 1048, in Giust. civ., 2000, I, p. 2817, con nota di F. Auletta, Quando si dice che un accordo è meglio di una causa vinta: la moltiplicazione dei diritti dell'attore per effetto della dichiarazione di adesione del convenuto all'originaria pretesa contro di lui).


L'improseguibilità del processo

Una delle ipotesi cui è subordinata la decisione di cassazione senza rinvio è quella del «processo che non poteva essere proseguito» ai sensi dell'art. 382, comma 3, cit. . Quanto alla «improseguibilità», del pari la si ritrova in ragioni di carattere strettamente processuale. Si distingue, piuttosto, fra invalidità relative al primo grado di giudizio, da un lato, ed invalidità originate in pendenza del giudizio di secondo grado, dall'altro.

Nel primo gruppo di ipotesi si inserisce certo l'estinzione (erroneamente non dichiarata) del processo, come pure il caso della nullità non sanata che infici il processo sin dall'inizio. Quanto a quest'ultima, non sempre viene esplicitato, o è comunque semplice da comprendere, il criterio sulla cui base si assegna la specifica fattispecie a questa categoria od invece a quella distinta della «improponibilità». Accade così che o ci si limita genericamente ad affermare la necessità della cassazione senza rinvio qualora l'intero processo sia nullo «per l'inosservanza di un precetto che porti alla nullità rilevabile anche d'ufficio», ovvero si pretende di distinguere caso da caso, sulla scorta del carattere del vizio che origina la nullità. Nel secondo gruppo di ipotesi, si riconducono l'inammissibilità, l'irricevibilità o l'improcedibilità dell'appello, nonché l'estinzione del giudizio che erroneamente non siano state dichiarate dal giudice del gravame. Si indicano pure i casi di proposizione irrituale (perché violativa del disposto di cui all'art. 345 c.p.c.) di domanda nuova in appello egualmente decisa nel merito o – ancora nel processo di secondo grado – le fattispecie di ultra o extrapetizione.

La cassazione senza rinvio per cessazione materia del contendere

La possibilità della dichiarazione di cessazione della materia del contendere da parte della Corte di cassazione è questione che, seppure superata da una prassi costante nel senso della sua ammissibilità, ha posto non pochi interrogativi, legati alla natura del giudizio di legittimità.

Anzitutto, la produzione di documenti è consentita entro i margini ristretti posti dall'art. 372 c.p.c., che vieta il deposito delle prove documentali non prodotte nei precedenti gradi del processo diverse da quelle relative alla nullità della sentenza impugnata o alla ammissibilità del ricorso o del controricorso. Inoltre il giudizio di cassazione è così configurato che deve concludersi, salva l'ipotesi di nullità da rilevarsi ex officio, con una sentenza che pronunci sui mezzi di censura articolati dal ricorrente, con la sola testuale eccezione rappresentata della rinuncia al ricorso (artt. 390 e 391 c.p.c.).

La sopravvenienza del fatto di cessazione (segnatamente se di tipo negoziale) in pendenza del giudizio di cassazione sembrerebbe così, per un verso, non documentabile, ostandovi il disposto dell'art. 372 c.p.c., la cui lettera limita il deposito alle prove documentali relative ai requisiti formali della sentenza o del ricorso; e per altro verso comunque insuscettibile di rifluire in una decisione che di esso – ove pure se ne ammetta la prova documentale – possa tenere conto, la quale, ove resa, lo sarebbe in assenza di corrispondenza con i motivi di ricorso e senza che si tratti di pronuncia sulla rinuncia all'impugnazione.

La Corte di cassazione ammette (Cass. civ., 18 febbraio 2000, n. 1854; Cass. civ., 28 dicembre 1999, n. 14634; Cass. civ., 27 febbraio 1998, n. 2197; Cass. civ., 18 maggio 1998, n. 4963), tuttavia, la possibilità della produzione del documento in sede di legittimità attestante la cessazione della materia del contendere, per comportamenti successivi alla proposizione della impugnazione, giacché si tratterebbe di prova la quale, testimoniando di una sopravvenuta carenza di interesse all'impugnativa, inerirebbe alla ammissibilità del ricorso (art. 372 c.p.c.). Una volta consentita la deducibilità del fatto sopravvenuto e la sua prova, la Suprema Corte dichiara la cessazione della materia del contendere, prescindendo dai motivi di ricorso proposti.

La circostanza che la Cassazione tenga conto del sopravvenuto evento di cessazione è da considerare positivamente. Se decidesse del ricorso prescindendo da esso, si correrebbe il rischio di uno spreco di attività processuale.

La dichiarazione di cessazione della materia del contendere che sia pronunciata da parte della Corte di cassazione, se risponde a condivisibili motivi di economia processuale è così, ed in pari tempo, idonea ad evitare lo stesso ricorso alla regola dei limiti cronologici del giudicato per poter affermare, nel caso se ne presenti la necessità, la prevalenza del fatto sopravvenuto di cessazione rispetto alla sentenza che, in ipotesi, offra una diversa disciplina dello stesso rapporto sostanziale. Costantemente si afferma, invero, in giurisprudenza che la declaratoria di cessazione della materia del contendere abbia la «capacità» di neutralizzare le sentenze di merito pronunziate nel corso del giudizio, di cui si assevera la inidoneità a passare in giudicato (Cass. civ., sez. un., 28 settembre 2000, n. 1048, cit.; Cass. civ., sez. U., 18 maggio 2000, n. 368, cit.; Cass. civ., 27 ottobre 1997, n. 10567; Cass. civ., 18 agosto 1992, n. 9592; Cass. civ., 25 ottobre 1990, n. 10361). Posto che eguale conseguenza non discende dalla rinuncia al ricorso per cassazione – poiché essa condurrebbe proprio alla formazione del giudicato sulla decisione gravata –, si coglie l'autonomia e la funzionalità della dichiarazione di cessazione della materia del contendere rispetto all'unica modalità tipizzata di conclusione del giudizio di cassazione senza pronuncia sui motivi di ricorso.

Si perviene, in questo modo, all'inquadramento teorico che la giurisprudenza offre della pronunzia di cessazione della materia del contendere in dipendenza del sopravvenire di fatti di cessazione durante lo svolgimento del giudizio di legittimità. Secondo la Suprema Corte la cessazione della materia del contendere contrassegnerebbe il sopravvenuto venir meno dell'interesse ad una definizione del giudizio e, quindi, ad una pronuncia sul merito dell'impugnazione; ne dovrebbe seguire una declaratoria di inammissibilità del ricorso, che non determinerebbe peraltro il passaggio in giudicato della sentenza impugnata. Vero è che, pur rimanendo fermo il principio della applicazione d'ufficio dell'istituto, diverse sono state nel tempo le formule con le quali si è definito il giudizio di cassazione a seguito della cessazione della materia del contendere; la pronuncia di inammissibilità è peraltro quella di più frequente utilizzazione ed ha ricevuto l'autorevole avallo delle Sezioni unite della Cassazione (Cass. civ., sez. U., 18 maggio 2000, n. 368, cit.; v. pure Cass. civ., 6 aprile 2000, n. 5344; Cass. civ., 18 febbraio 2000, n. 1854, cit.; Cass. civ., 18 gennaio 2000, n. 489).

La soluzione giurisprudenziale non difetta di una sua coerenza interna. La declaratoria di inammissibilità del ricorso consentirebbe la produzione del documento attestante il fatto di cessazione in sede di legittimità, in linea con l'art. 372 c.p.c. che ammette proprio il deposito di quei documenti che riguardano «l'ammissibilità del ricorso e del controricorso». La adozione di una pronunzia puramente processuale in dipendenza con il sopravvenire di un evento di cui si assevera la idoneità ad elidere l'interesse al ricorso, sarebbe conforme al principio che vuole che l'interesse sussista tanto al momento della proposizione della impugnazione che al momento della decisione; identica natura avrebbe poi la declaratoria di cessazione della materia del contendere, sia essa pronunciata in sede di merito che in sede di legittimità, giacché in ambi i casi, stando alla interpretazione giurisprudenziale maggioritaria, si tratterebbe di pronuncia confinata al rito, cui sarebbe estranea ogni attitudine al giudicato sostanziale. La risoluzione della cessazione della materia del contendere nella sopravvenuta carenza di interesse al ricorso che metterebbe capo ad una decisione processuale di inammissibilità ad un tempo ne consentirebbe la declaratoria officiosa e giustificherebbe la omessa pronunzia sui motivi dedotti a fondamento dell'impugnazione.

Lo sforzo ricostruttivo della giurisprudenza, tuttavia, non è scevro da aporie e contraddizioni: i casi di inammissibilità, anche ad assumerne il carattere non tassativo – pure talora evocato dallo stesso giudice di legittimità (Cass. civ., sez. U., 6 giugno 1987, n. 4991, in Riv. dir. proc., 1989, p. 602; contra, Cass. civ., sez. U., 29 gennaio 2000, n. 16, in Giust. civ., 2000, I, p. 673 (entrambe a proposito della specificità dei motivi di appello) comunque presuppongono un vizio genetico dell'atto di impugnazione. Ma soprattutto la declaratoria di inammissibilità del ricorso dovrebbe determinare il passaggio in giudicato della sentenza impugnata. Viceversa, la giurisprudenza assume, in contrasto con la tipicità degli effetti che accedono agli atti processuali, che la pronuncia resa in sede di legittimità che dichiari la cessazione della materia del contendere, quale che sia la veste formale nella quale sia calata, travolgerebbe comunque tutte le precedenti pronunzie rese nel corso del processo.

Ma se l'effetto è ravvisato nella caducazione delle pregresse sentenze, pare lecito pretendere che ci si avvalga dello schema tipico che tale effetto istituzionalmente produce. Di qui l'auspicio che la cessazione della materia del contendere sia calata entro la veste formale della cassazione senza rinvio, pronunziata indipendentemente dalle censure mosse alla sentenza impugnata; si richiama allora l'art. 382, ult. comma, c.p.c. .

In conclusione

Sia la cassazione senza rinvio per improponibilità che quella per improseguibilità sono confinate al piano del rito, con il conseguente rischio che lo stesso fatto di cessazione, a seconda che si sia verificato nei gradi di merito od in sede di legittimità, possa condurre ad una decisione di merito nell'uno e nell'altro ad una pronuncia di mero contenuto processuale.

Pare invece opportuno che il medesimo fenomeno produca identiche conseguenze a prescindere dalla fase processuale nella quale si sia verificato. Sicché, in corrispondenza di quei fatti di cessazione di natura sostanziale rispetto ai quali deve ritenersi che la cessazione della materia del contendere si risolva in pronuncia di merito, si dovrebbe ammettere una decisione di cassazione sostitutiva di merito. Oltre che esigenze di simmetria con quanto si ritiene sia predicabile delle corrispondenti decisioni di primo e secondo grado, ci induce a questa considerazione anche l'esigenza che la decisione di cessazione della materia del contendere sia, ove possibile, di merito ed idonea al giudicato sostanziale, impeditiva della riproposizione della medesima domanda giudiziale.

Guida all'approfondimento

B.N. SASSANI, voce Cessazione della materia del contendere: I) Diritto processuale civile, in Enc. giur., VI, 1988, p. 1;

C. ASPRELLA, sub art. 382 c.p.c., in Commentario del codice di procedura civile, a cura di Comoglio, Consolo, Sassani, Vaccarella, vol. IV, 2012;

A.PANZAROLA, voce Cessazione della materia del contendere (diritto processuale civile), in Enc. dir., Aggiornamento VI, Milano 2002, p. 224 ss.

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