La condanna per lite temeraria ex art. 96, comma 3, c.p.c. presuppone l'accertamento dell'elemento soggettivo
10 Giugno 2016
Massima
Agendo in giudizio in proprio, sia pure in virtù del sottostante rapporto di mandato intercorrente con l'ente impositore, l'agente alla riscossione ha il potere di scelta se coltivare o meno l'azione: ne consegue che anche detto agente soggiace alla sanzione processuale derivante dall'aver agito con colpa grave, qualora abbia non solo riproposto una domanda avente ad oggetto un credito già in precedenza accertato, ma abbia insistito per ottenerne l'accoglimento persino dopo aver usufruito, a sua richiesta, di un apposito termine per verificare i documenti in suo possesso ed assumere le necessarie informazioni presso il mandante.
Il caso
Il Tribunale respingeva l'opposizione ex art. 98 l. fall. proposta dall'agente per la riscossione al fine di ottenere l'ammissione allo stato passivo del fallimento di una s.r.l. di crediti erariali insinuati con due distinte domande tardive e recanti due distinti numeri di ruolo. Il Tribunale, a fondamento del decreto di rigetto, rilevava che l'agente aveva già chiesto ed ottenuto l'ammissione dei medesimi crediti dedotti in giudizio (crediti che pertanto, avevano già formato oggetto di un'altra domanda di insinuazione tardiva di cui quelle proposte nella specie costituivano duplicazione). Il Tribunale, inoltre, riteneva che l'opponente versasse incolpagraveper aver omesso di verificare la correttezza del provvedimento di esclusione, fondato sulla medesima ragione non solo prima della proposizione del ricorso ex art. 98 l. fall., ma persino in corso di causa, nonostante le fosse stato concesso un termine proprio a tale scopo e pertanto, la condannava al pagamento oltre che delle spese di lite anche di una somma equitativamente determinata ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c..
Il decreto veniva impugnato dall'agente della riscossione con ricorso per cassazione.
I Giudici di legittimità rigettano il ricorso sul rilievo che l'addetto alla riscossione non può esonerarsi dall'osservanza del disposto di cui all'art. 96 c.p.c. per il solo fatto di agire come mandatario dell'ente impositore in quanto la condanna prevista dal terzo comma del citato articolo si fonda non già sul rilievo dell'avvenuta duplicazione delle domande, ma sul successivo comportamento processuale dell'agente; egli non solo ha ignorato le motivazioni in base alle quali la domanda era stata respinta dal giudice delegato, ma neppure si è curata di operare i dovuti controlli nel corso del giudizio, nonostante avesse chiesto ed ottenuto un rinvio dell'udienza proprio a tale scopo.
La questione
La questione in esame è la seguente: la condanna ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c. presuppone l'accertamento dell'elemento soggettivo?
Le soluzioni giuridiche
L'art. 45, comma 12, l. 18 giugno 2009, n. 69 ha aggiunto il seguente nuovo comma all'art. 96 c.p.c., lasciando invariati i primi due: «In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell'art. 91, il giudice, anche d'ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata». Ai sensi dell' art. 58, comma 1, della stessa legge, la disposizione si applica ai giudizi instaurati dopo la sua entrata in vigore, cioè a decorrere dal 4 luglio 2009. La disposizione normativa, così come quella dell'art. 91, comma 1, secondo inciso, c.p.c., mira a sanzionare la parte che abbia abusato del processo od il comportamento della quale durante il processo sia stato contrario al generale dovere di lealtà e probità di cui all'art. 88 c.p.c., in modo che possa fungere da deterrente alle liti temerarie od a condotte processuali colpevolmente dilatorie. Nelle prime applicazioni la giurisprudenza tende ad evidenziare come la nuova norma sia volta a perseguire, sia pure indirettamente, «interessi pubblici, quali il buon funzionamento e l'efficienza della giustizia civile e, più in particolare, la ragionevole durata dei processi (che dovrebbe essere garantita dalla diminuzione del contenzioso, mediante l'eliminazione delle cause pretestuose o strumentali)» (Trib. Piacenza, 7 dicembre 2010; Trib. Padova, 10 marzo 2015: la condanna ex art. 96 c.p.c. della parte che abbia condotto l'intera causa con una condotta integrante grave negligenza mira a ristorare sia il danno arrecato alla parte ingiustamente coinvolta nel procedimento sia il danno arrecato al sistema giudiziario nel suo complesso per l'aggravio di cause). Tutti concordano nel ritenere che si tratti di norma volta a punire l'«abuso del processo» (Trib. Varese, sez. Luino, ord., 23 gennaio 2010; Trib. Piacenza, 22 novembre 2010), svolgendo una funzione non (soltanto) risarcitoria ma (anche) «sanzionatoria»; Trib. Milano, ord., 20 agosto 2009; Trib. Varese, 30 ottobre 2009; Trib. Prato, 6 novembre 2009; Trib. Roma, 11 gennaio 2010; Trib. Verona, ord., 1 luglio 2010; Trib. Roma, sez. Ostia, 9 dicembre 2010. Si discosta dalla linea interpretativa seguita dalla maggioranza la sentenza del Tribunale di Terni (Trib. Terni, 17 maggio 2010), che accentua la rilevanza da attribuire alla «sussistenza di un pregiudizio della parte vittoriosa etiologicamente imputabile alla condotta di abuso processuale della parte soccombente»; così, la ratio della nuova disposizione viene individuata (anche) nell'intento di scoraggiare comportamenti contrari alla funzionalità del servizio giustizia e in genere al rispetto della legalità, Trib. Milano, ord., 20 agosto 2009, nonché Trib. Varese, 21 gennaio 2011). Essa consiste, in sostanza, in una pena privata che va a favore della parte vittoriosa, ristorandola comunque del pregiudizio costituito dall'essere stata coinvolta in un processo «ingiusto» (o condotto con modalità scorrette), ma svolge anche una funzione deterrente, deflattiva, per evitare abusi dello strumento processuale, perseguendo al contempo interessi pubblici. Così i giudici di merito hanno, in assoluta prevalenza, inteso l'istituto. Vengono, in maggioranza, disattese da essi le diverse interpretazioni proposte da quella parte della dottrina che reputa la norma esclusivamente funzionale al risarcimento del danno da lite temeraria (in termini di «sanzione» si esprime Trib. Foggia, 28 gennaio 2011 ed in termini di «proporzionata sanzione» Trib. Siena, 9 giugno 2011). La gran parte dei provvedimenti distingue, inoltre, la nuova previsione normativa da quella della responsabilità art. 96, comma 1, c.p.c. (si veda, in particolare, la motivazione di Trib. Foggia, 28 gennaio 2011, nella quale si sottolinea, a proposito dell'art. 96, comma 1 che va tenuto presente che il potere riconosciuto al giudice dalla citata norma di provvedere d'ufficio alla liquidazione del danno pur sempre presuppone che vi sia la prova di tale danno, anche se proiettato nel futuro, e pertanto non dispensa la parte istante dall'onere di fornire gli elementi probatori e i dati di fatto in suo possesso necessari ad accertarne l'esistenza e a consentire che l'apprezzamento equitativo sia, per quanto possibile, limitato e ricondotto alla sola funzione di colmare le inevitabili lacune; Cass. civ., sez. III, 27 ottobre 2015,n. 21798a mente della quale la domanda di risarcimento dei danni ex art.96 c.p.c. non può trovare accoglimento tutte le volte in cui la parte istante non abbia assolto all'onere di allegare (almeno) gli elementi di fatto necessari alla liquidazione, pur equitativa, del danno lamentato,laddove, invece, il comma 3 ha «introdotto nel nostro ordinamento un'ipotesi di danno punitivo prima sconosciuta alla tradizione giuridica italiana, e cioè una sanzione pecuniaria irrogabile anche in assenza della prova di un pregiudizio effettivamente subito dalla parte a favore della quale è pronunciata la relativa condanna»; Tribunale Pistoia, 8 novembre 2011, n. 951) tradizionalmente configurata come una species del genus della responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c. (C. cost., 23 dicembre 2008, n. 435). La giurisprudenza di meritoha inoltre ritenuto la condanna svincolata non solo dalla prova, ma anche dall'allegazione di un danno risarcibile; ritenendo altresì indispensabile il riscontro di un elemento soggettivo (Trib. Piacenza, 7 dicembre 2010; Trib. Enna, ord., 30 novembre 2009; Trib. Foggia, 28 gennaio 2011). Quanto all'individuazione di tale elemento, rilevanti sono i contrasti. Una parte, infatti, dei giudici di merito valorizza l'inserimento della norma nell'art. 96 c.p.c. e valuta i presupposti soggettivi del comma 3 alla stregua di quanto previsto dal primo comma (Trib. Verona, ord., 1 luglio 2010 e Trib. Oristano, ord. 14 dicembre 2010 ritengono la norma applicabile in caso di «mala fede»; Trib. Padova 10 novembre 2009, ne ritiene l'applicabilità in caso di «colpa grave». Fa riferimento alla lite temeraria per manifesta infondatezza, Trib. Roma, 11 gennaio 2010; Trib. Santa Maria Capua Vetere, 26 settembre 2011). Altra parte ritiene che la previsione del terzo comma abbia ampliato i confini della responsabilità per «processo ingiusto» e consenta, pertanto, di sanzionare anche condotte che non siano qualificabili in termini di dolo o colpa grave, purché connotate da colpa (Trib. Torino, ord., 16 ottobre 2010, secondo cui: «... appare eccessivo affermare che la parte ricorrente abbia agito in giudizio con malafede o colpa grave, ossia con la consapevolezza dell'infondatezza delle proprie pretese (o almeno ignorando colpevolmente i diritti della controparte); ricorrono tuttavia i presupposti per la condanna di cui all'art. 96, comma 3, implicitamente considerata da parte resistente e comunque disponibile anche d'ufficio. Tale disposizione si riferisce a situazioni di «abuso del processo» meno gravi di quelle considerate dal primo e dal secondo comma dell'art.96 e pur sempre presuppone condotte colpevoli della parte processuale (senza di che, come prevalentemente opinato, la norma si consegnerebbe alla sanzione di illegittimità costituzionale per violazione degli artt. 3 e 24 Cost.)». Ritiene sufficiente anche soltanto l'«imprudenza» nell'agire in giudizio, Trib. Roma, sez. Ostia, 9 dicembre 2010. Trib. Varese, 22 gennaio 2011, sottolinea la rilevanza, oltre alla manifesta infondatezza dell'opposizione a decreto ingiuntivo, del fatto che sia: «... per di più, sorretta da un elemento soggettivo di rimproverabilità (colpa)». In particolare si è rilevato che il presupposto per la condanna per responsabilità aggravata per lite temeraria ex art. 96, comma 3, c.p.c., rappresentato dall'aver agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, sussiste qualora una parte prima del giudizio non abbia liquidato un danno che sapeva di aver cagionato, nell'essersi difesa sulla base di circostanze poi rilevatesi equivoche e trascurabili, nell'aver confidato che la controparte straniera avrebbe avuto difficile accesso alla giustizia e, quindi, nell'aver sostanzialmente messo in atto una condotta mirata a condurre la controparte ad accettare una svantaggiosa transazione per evitare di sottostare ai lunghi tempi della giustizia(Trib. Tivoli, 10 dicembre 2015; Trib. Milano, 6 ottobre 2015). Frequente è il richiamo all'abuso processo fatto sia genericamente (Trib. Prato 6 novembre 2009), sia variamente declinando il concetto come uso improprio dello strumento processuale (Trib. Salerno, ord. 9 gennaio 2010), ovvero sinonimo di lite temeraria (Trib. Pescara 30 settembre 2010: «... responsabile di un abuso del processo per difesa temeraria (per il principio per cui la mala fede o colpa grave di cui all'art. 96 comma 1 c.p.c. si concreta nella conoscenza della infondatezza domanda e delle tesi sostenute ovvero nel difetto della normale diligenza per l'acquisizione di detta conoscenza...), od, ancora, di comportamento contrario al principio della lealtà processuale (Trib. Catanzaro, ord. 18 febbraio 2011 ritiene «che, pertanto, la norma trascritta fornisca al giudice uno strumento sanzionatorio delle condotte tenute dalla parte soccombente, che, pur non configurate dall'elemento psicologico del dolo e della colpa grave, siano comunque rimproverabili alla luce del principio di lealtà processuale»).
Osservazioni
Nonostante il testo dell'art. 96, comma 3, c.p.c. autorizzi le letture fatte proprie da alcune delle pronunce di merito, che fanno leva sulla sufficienza dell'elemento soggettivo della colpa lieve o di comportamenti definiti in termini di «abuso del processo», che tuttavia non si siano tradotti in concreto in vere e proprie liti temerarie, si ritiene più coerente l'interpretazione della norma ancorata alla temerarietà della lite; ciò per due ragioni: l'una di ordine letterale, atteso che è rimasto l'inserimento della norma nell'art. 96 c.p.c. senza che il comma 3 abbia aggiunto alla qualificazione della condotta in termini di dolo o colpa grave del comma 1 una ulteriore e/o diversa qualificazione; l'altra correlata alla ratio della norma. Tale soluzione trova conferma anche nella pronuncia in commento, nella quale i Giudici di legittimità hanno ritenuto essere manifestamente infondati i motivi di ricorso osservando che l'addetto alla riscossione non può esonerarsi dall'osservanza del disposto di cui all'art. 96 c.p.c. per il solo fatto di agire come mandatario dell'ente impositore in quanto la condanna prevista dal comma 3 del citato articolo si fonda non già sul rilievo dell'avvenuta duplicazione delle domande, ma sul successivo comportamento processuale dell'agente; egli non solo ha ignorato le motivazioni in base alle quali la domanda era stata respinta dal giudice delegato, ma neppure si è curata di operare i dovuti controlli nel corso del giudizio, nonostante avesse chiesto ed ottenuto un rinvio dell'udienza proprio a tale scopo.
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