La compensazione delle spese non può essere rimessa all'arbitrio del giudice
10 Giugno 2016
Massima
In tema di spese giudiziali, in forza dell'art. 92, comma 2, c.p.c. (nella formulazione introdotta dalla l. n. 69 del 2009, applicabile ratione temporis) può essere disposta la compensazione in assenza di reciproca soccombenza soltanto ove ricorrano «gravi ed eccezionali ragioni», che devono trovare riferimento in specifiche circostanze o aspetti della controversia decisa da indicare esplicitamente nella motivazione della sentenza, senza che possa darsi meramente rilievo alla «natura dell'impugnazione», o alla «riduzione della domanda in sede decisoria», ovvero alla «contumacia della controparte», permanendo in tali casi la sostanziale soccombenza di quest'ultima, che deve essere adeguatamente riconosciuta sotto il profilo della suddivisione del carico delle spese.
Il caso
Il Tribunale territorialmente competente accoglieva l'appello proposto avverso una sentenza del giudice di pace in tema di sinistro stradale, ma compensava per intero le spese del secondo grado di giudizio. L'appellante, integralmente vittorioso, proponeva ricorso in Cassazione evidenziando che i due motivi di gravame erano stati accolti, di modo che era errata la decisione del giudice di appello di compensare le spese fondata «sulle ragioni della decisione, la natura dell'impugnazione, l'esito complessivo del gravame (accolto soltanto in maniera parziale) nonché il comportamento tenuto dalle parti appellate (rimaste contumaci)». I Giudici di legittimità accolgono il ricorso sul rilievo che ai sensi dell'art. 92 c.p.c., comma 2, nella formulazione introdotta dalla l. 18 giugno 2009, n. 69, art. 45, comma 11, a decorrere dal 4 luglio 2009, applicabile, ai sensi dell'art. 58, comma 1, della predetta legge, ai giudizi instaurati dopo la data della sua entrata in vigore e, quindi, applicabile al caso all'esame ratione temporis (atto di citazione notificato il 13 luglio 2009), può essere disposta la compensazione totale o parziale delle spese, in assenza di reciproca soccombenza, soltanto in presenza di «gravi ed eccezionali ragioni». In motivazione
«Per la configurabilità di siffatte ragioni (gravi ed eccezionali ragioni, n.d.e.) non è sufficiente la mancata opposizione alla domanda da parte del convenuto o, come nel caso all'esame, la contumacia dello stesso né la mera riduzione della domanda operata dal giudice in sede decisoria, permanendo comunque la sostanziale soccombenza della controparte che deve essere adeguatamente riconosciuta sotto il profilo della suddivisione del carico delle spese (Cass. civ., 23 gennaio 2012,n. 901; Cass. civ., 17 ottobre 2013, n. 23632); né tali ragioni possono essere tratte dalla natura della controversia o della pronuncia o dalla struttura del tipo di procedimento contenzioso applicato o dalle disposizioni processuali che lo regolano o, come nella fattispecie pure ritenuto dal Giudice dal merito, dalla "natura dell'impugnazione" (Cass. civ., ord., 19 novembre 2014,n. 24634; Cass. civ., ord., 11 luglio 2014, n. 16037; Cass. civ., ord., 15 dicembre 2011, n. 26987), ma devono trovare riferimento in specifiche circostanze o aspetti della controversia decisa che il Giudice è tenuto ad indicare esplicitamente e specificamente nella motivazione della sentenza». La questione
La questione in esame è la seguente: nel caso di assenza di reciproca soccombenza, quali sono le «gravi ed eccezionali ragioni» che giustificano la compensazione delle spese? Le soluzioni giuridiche
L'art. 92 c.p.c., nella sua originaria formulazione, consentiva la compensazione, oltre che in caso di soccombenza reciproca, in ipotesi di sussistenza di «altri giusti motivi». L'interpretazione giurisprudenziale della norma riconosceva in proposito al giudice un amplissimo ed insindacabile potere discrezionale: e ciò stava a significare che egli, nel disporre la compensazione per giusti motivi, non era sottoposto, secondo un primo indirizzo pressoché totalitario, a nessun obbligo di motivazione, sicché neppure era tenuto ad indicare quali fossero i motivi giustificativi adottati a fondamento della compensazione. E, naturalmente, il provvedimento di compensazione così disposto non era assoggettabile ad alcun controllo in sede di legittimità. L'esigenza di evitare che la discrezionalità potesse sconfinare nell'arbitrio aveva poi indotto parte della giurisprudenza ad ammettere la sindacabilità della statuizione sulle spese quando il giudice avesse esplicitato i giusti motivi di compensazione, ed essi fossero risultati illogici od incongrui: ciò con l'esito evidentemente paradossale di sottrarre ad ogni controllo il provvedimento di compensazione motivato e di sottoporvi soltanto quello che per avventura un giudice non troppo scaltro avesse motivato. In seguito, in anni recenti, l'atteggiamento della giurisprudenza è mutato. Si è così giunti ad affermare che solo il diniego di compensazione può non essere motivato: e cioè che, se il giudice applica il principio della soccombenza, non è tenuto a spiegare perché non ritiene di compensare le spese. Viceversa, è stato stabilito che l'esercizio del potere di compensazione, per non risolversi in mero arbitrio, deve essere necessariamente motivato, nel senso che le ragioni in base alle quali il giudice abbia accertato e valutato la sussistenza dei presupposti di legge devono emergere, se non da una motivazione esplicitamente «specifica», quantomeno da quella complessivamente adottata a fondamento dell'intera pronuncia, cui la decisione di compensazione delle spese accede (Cass. civ., sez. III, 19 ottobre 2015, n. 21083). Sulla materia è poi intervenuto il legislatore. L'art. 2, comma 1, lett. a, della l. 28 dicembre 2005, n. 263, entrato in vigore il 1° marzo 2006 ed applicabile ai soli procedimenti successivamente instaurati, nel lasciare inalterato il riferimento ai «giusti motivi» ha aggiunto che essi dovessero essere «esplicitamente indicati nella motivazione». In tal modo, l'obbligo di motivazione già riconosciuto dalla giurisprudenza è stato direttamente contemplato dalla norma. La successiva riforma del codice di procedura civile (art. 45, comma 11, della l. 18 giugno 2009, n. 69, applicabile ai procedimenti instaurati dopo il 4 luglio 2009), ha ulteriormente modificato la norma, la quale ha poi richiesto non più «giusti motivi», ma «gravi ed eccezionali ragioni». La spiegazione «politica» dell'innovazione è da individuare nell'opinione che la condanna al rimborso delle spese di lite, oltre ad essere evidentemente necessaria ai fini della piena tutela del diritto fatto valere in giudizio, costituisca utile strumento di deflazione del contenzioso giudiziario, mentre l'abuso dello strumento della compensazione, particolarmente ricorrente soprattutto in taluni settori, possa essere elemento di incentivazione alle liti. Non basta. L'art. 13 d.l. 12 settembre 2014, n. 132, convertito con modificazioni dalla l. 10 novembre 2014, n. 162, ha modificato il comma 2 dell'art. 92, che oggi testualmente recita: «Se vi è soccombenza reciproca ovvero nel caso di novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti, il giudice può compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero». Con riguardo al testo della norma derivante dalla riforma del 2009, la Cassazione ha in più occasioni osservato che non è sufficiente per giustificare la compensazione delle spese di lite il riferimento alla mera riduzione della domanda operata dal giudice in sede decisoria, permanendo, comunque, la sostanziale soccombenza della controparte che deve essere adeguatamente riconosciuta sotto il profilo della suddivisione del carico delle spese (Cass. civ., sez. VI, 11 febbraio 2016 ,n. 2709); ovvero la reciproca soccombenza che giustifica la possibile applicazione della regola della totale o parziale compensazione delle spese di giudizio, ai sensi dell'art. 92, comma 2, c.p.c., va ravvisata sia in ipotesi di pluralità di domande contrapposte, accolte o rigettate, che si siano trovate in cumulo nel medesimo processo fra le stesse parti, sia in ipotesi di accoglimento parziale dell'unica domanda proposta, tanto allorché essa sia stata articolata in più capi e ne siano stati accolti uno o alcuni e rigettati gli altri, quanto laddove la parzialità dell'accoglimento sia meramente quantitativa e riguardi una domanda articolata in un unico capo (Cass. civ., sez. III, 22 febbraio 2016, n. 3438). |