Riproposizione in appello della domanda dimenticata dal primo giudice: necessario un apposito motivo di impugnazione?

Francesco Bartolini
10 Giugno 2016

Il giudizio di appello integra una “revisio prioris instantiae”, e l'omessa pronuncia su una domanda non può essere oggetto di mera riproposizione ex art. 346 c.p.c.
Massima

Il giudizio di appello integra una “revisio prioris instantiae”, sicché l'omessa pronuncia su una domanda (o su un punto di essa) non può essere oggetto di mera riproposizione ex art. 346 c.p.c. ma deve essere denunciata, ai sensi dell'art. 342 c.p.c., con la formulazione di uno specifico motivo di appello, mediante il quale si deduca l'errore commesso dal giudice di primo grado, sebbene la specificazione delle ragioni poste a fondamento di tale motivo possa esaurirsi nell'evidenziare l'omessa decisione sulla domanda ritualmente proposta.

Il caso

In un terreno privato nell'area della via Appia vennero trovate, durante lavori di scavo, vestigia di una imponente villa romana. Intervennero le autorità preposte alla tutela dei beni di valore artistico e storico e, in esito a una complessa vicenda, che vide, tra l'altro, la sospensione delle opere e l'occupazione dei luoghi, fu dichiarato il vincolo della zona per il suo valore archeologico. Onde ottenere l'indennizzo dei danni subiti e il pagamento del premio dovuto per il rinvenimento delle cose di interesse storico e archeologico, i proprietari convennero in giudizio il Ministero dei beni culturali.

Il tribunale di Napoli dichiarò prescritto il diritto al risarcimento e pronunciò la condanna del Ministero a corrispondere agli attori l'indennità di occupazione dei fondi.

Su appello degli stessi attori la Corte territoriale confermò il capo di sentenza relativo alla prescrizione, dichiarò il difetto di giurisdizione dell'autorità giudiziaria ordinaria sulla richiesta di pagamento del premio per il ritrovamento delle cose di interesse storico e archeologico e dichiarò inammissibili le domande finalizzate, rispettivamente, ad ottenere un risarcimento del danno per perdita di valore del terreno vincolato e a conseguire la condanna al pagamento dell'indennità di occupazione in una somma maggiore di quella liquidata dal giudice di primo grado.

Con il ricorso per cassazione gli appellanti soccombenti hanno proposto due motivi di gravame:

  • l'uno concerne la dichiarata prescrizione del diritto al risarcimento del danno cagionato dall'intervento della Soprintendenza nella proprietà dei ricorrenti;
  • l'altro riguarda la dichiarazione di inammissibilità, ad opera del giudice di appello, del motivo di gravame avente a oggetto la richiesta degli attori di ottenere un indennizzo per la perdita di valore cagionata alla loro proprietà, sulla quale non si era pronunciato il giudice di primo grado.

La Corte di cassazione ha dichiarato inammissibili entrambi i motivi di impugnazione.

La questione

Il primo motivo di gravame è stato dichiarato inammissibile in conseguenza del difetto di autosufficienza, sul punto, del ricorso.

I ricorrenti, ha osservato la Corte, non avevano preso in esame tutte le argomentazioni in forza delle quali era stata dichiarata la prescrizione (sostanzialmente, per la mancanza di idonei atti interruttivi in tempo utile) e per tale ragione doveva applicarsi il principio per il quale, quando una decisione di merito si fonda su distinte e autonome rationes decidendi, ognuna delle quali sufficiente, da sola, a sorreggerla, perché possa giungersi, con il ricorso, alla cassazione della stessa è indispensabile che il soccombente censuri tutte le riferite rationes e che tali censure risultino tutte fondate.

Il secondo motivo di impugnazione ha dato luogo ad una pronuncia espressamente dichiarata difforme dall'orientamento giurisprudenziale seguito in precedenza. I ricorrenti avevano impugnato la sentenza d'appello, nel capo che aveva dichiarato inammissibile la loro domanda finalizzata ad ottenere il risarcimento del danno derivato dalla perdita di valore del loro terreno in conseguenza dell'imposizione del vincolo storico-archeologico, sull'assunto che nell'atto di appello non era stata mossa alcuna censura in ordine all'omessa decisione di tale domanda da parte del giudice di primo grado. I ricorrenti deducevano, in contrario, che nelle conclusioni formulate nell'atto di appello nonché nelle due comparse conclusionali depositate nel corso del giudizio di secondo grado (che aveva veduto una sentenza definitiva seguire ad altra non definitiva) avevano espressamente richiesto tale voce di danno, e che essi: «attesa la mancata statuizione sul punto da parte del tribunale, hanno riproposto nelle conclusioni formulate in appello quanto precedentemente richiesto, non sviluppando un autonomo motivo di censura».

Interessa in questa sede sviluppare alcune brevi note di commento in ordine a questo secondo motivo di ricorso.

Le soluzioni giuridiche

Nella sentenza che si annota (e con riguardo all'argomento che qui interessa) la Corte esordisce con il dichiarare espressamente di volersi porre in contrasto con l'orientamento precedentemente seguito sulla questione ad essa proposta. In proposito, nella motivazione si richiamano, quali espressioni di questo orientamento che si è inteso disattendere, le decisioni di Cass. civ., sez. I, 30 aprile 2014, n. 9485, e di sez. III, 20 giugno 1978, n. 3054. Si era, con esse, affermato che, nel caso di omessa pronuncia ad opera del giudice di primo grado su una domanda ritualmente proposta nel giudizio, era sufficiente, per la parte interessata ad averne l'esame, la mera riproposizione in appello di quella stessa domanda, mediante un rinvio alle istanze in atti e senza necessità di formulare al riguardo un apposito motivo di gravame. Se si consente un siffatto comporta mento processuale, però, osserva ora la Corte, si nega la reale natura del giudizio di appello, quale disegnata dalle riforme del processo civile e quale descritta dalla più recente giurisprudenza delle Sezioni Unite.

Nel vigente ordinamento processuale, infatti, il giudizio d'appello non costituisce (o non costituisce più) un riesame pieno, nel merito, della decisione impugnata (novum judicium) ma ha assunto le caratteristiche di una impugnazione a critica vincolata (revisio prioris instantiae). Ne segue che la critica alla sentenza di primo grado deve necessariamente passare attraverso la proposizione di un puntuale motivo di appello. Non è sufficiente la deduzione del vizio costituito dall'omessa decisione ma è necessario che le contestazioni della pronuncia impugnata trovino formale esplicitazione in un espresso motivo di impugnazione. Soltanto così, si conclude, è possibile assicurare che il giudizio di appello conservi la sua natura di revisio prioris instantiae.

Osservazioni

Nel momento in cui gli attori, soccombenti in primo grado, proponevano appello, la pronuncia di Cass. n. 3054 del 1978 (che poteva-doveva essere conosciuta) consentiva la riproposizione in appello della domanda sfuggita alla decisione del giudice a quo, senza che fosse necessario in proposito formulare uno specifico motivo di gravame. Questa modalità di sottoposizione della questione, dimenticata, al giudice del secondo grado di giudizio avrebbe poi trovato conferma, nel corso del giudizio, in Cass. civ.,sez. I, 30 aprile 2014, n. 9585, la quale aveva stabilito: «In caso di omessa pronuncia da parte del giudice di primo grado su un punto della domanda, l'appellante, ai fini della specificità del motivo di gravame, deve soltanto reiterare la richiesta non esaminata in prime cure. (Nella specie, la S.C. aveva cassato la sentenza con cui la corte d'appello, a fronte dell'omessa pronuncia da parte del giudice di primo grado, aveva ritenuto nullo l'atto di appello nel quale la parte si era limitata ad insistere per l'accoglimento della domanda non esaminata, senza formulare un apposito motivo di impugnazione)» (Cass. civ., sez. I, 30 aprile 2014, n. 9585).

Il principio così affermato è stato disatteso con la sentenza che brevemente si annota. Si addebita molto spesso ai difensori una certa superficialità nell'impostazione delle loro strategie; e si imputa pertanto alla conseguente loro approssimazione la responsabilità degli insuccessi processuali. Questa volta, però, nessuna insufficienza può essere colta nell'operato difensivo, adeguato all'interpretazione giurisprudenziale dell'epoca in cui veniva posto in essere, ma sfortunato nel suo risultato ultimo.

La Suprema Corte ha mutato il suo parere su una questione in diritto che è apparsa risolutiva.

Indubbiamente, il processo è regola e ordine; e le forme spesso sono anche sostanza. Esse vanno osservate perché sono garanzia di organizzazione e debbono valere per tutti.

Tuttavia, qualche volta l'osservanza delle forme rischia di diventare fine a se stessa e non può negarsi che in moltissimi casi i processi si chiudono con pronunce sul processo e non sul merito dell'azione esercitata. Sovente si corre il rischio che la disquisizione sulla forma vada ad ingiusto detrimento degli interessi concreti sottesi al giudizio e che questi ne vengano sacrificati in nome di un mero ordine concettuale.

Qualche osservazione sulla reale necessità di un apposito motivo di gravame, nel caso di omessa pronuncia ad opera del primo giudice, può essere svolta, con riguardo alla sentenza in esame. Essa afferma che la deduzione di omessa pronuncia deve costituire oggetto di un puntuale motivo di appello, con il quale si segnali l'errore commesso dal giudice di primo grado. Solo a tale condizione, si sostiene, e cioè imponendosi che le critiche alla sentenza impugnata trovino formale esplicitazione in un espresso motivo di impugnazione, è possibile assicurare che il giudizio di appello conservi la natura di revisio prioris instantiae: la semplice riproposizione della domanda non esaminata, non accompagnata anche dalla concreta individuazione dell'errore commesso dal giudice di primo grado, determinerebbe l'assimilazione del giudizio di secondo grado ad un judicium novum.

Tanto affermato in linea di principio, la stessa sentenza aggiunge poi una considerazione che appare in contrasto con esso: si afferma, infatti, che la specificazione delle ragioni poste a fondamento del motivo può esaurirsi nell'evidenziare la mancata adozione in sentenza di una decisione sulla domanda ritualmente proposta. Pare allora a chi scrive che le argomentazioni della pronuncia non siano del tutto coerenti tra loro. Essa richiede un motivo espresso di appello e poi reputa sufficiente, quale ragione che ne spieghi il fondamento, la sola indicazione dell'errore commesso dal giudice di prime cure (né ve ne potrebbe essere un'altra). Nega l'idoneità della riproposizione della domanda, non giudicata, senza la formulazione di un espresso motivo di appello, ma questo non consiste in altro che nell'indicazione dell'essere stata omessa la pronuncia della domanda che viene ripresentata.

E dunque, che differenza può fare se con l'appello ci si limita a dedurre che è mancata la decisione sulla domanda di cui in citazione e a chiederne la decisione nella precisazione delle conclusioni?

Questo modo di introdurre il giudizio di gravame implica forse l'apertura di un judicium novum, esteso a qualcosa che il giudice ad quem possa liberamente apprezzare, di sua iniziativa, e diverso dal semplice esame della domanda dimenticata in prime cure? Non sembra proprio, attesa la precisa delimitazione dell'oggetto della richiesta proposta all'attenzione del giudice di appello. E la pretesa della Corte di cassazione che quella richiesta sia espressa nella forma di un motivo di appello anziché in una doglianza priva di questa intestazione o specificazione, ma che pur chiarisca l'intento dell'appellante, appare come l'accollo, alla parte, di un onere del tutto superfluo. Il timore che si tradisca la natura del processo di appello per il solo fatto che l'atto introduttivo del giudizio non contenga la testuale formulazione di un motivo ma che questo lo si ricavi dal fatto della riproposizione della domanda, affinchè essa venga decisa, non sembra essere giustificato.

Vale la pena di osservare che il vigente testo dell'art. 342 c.p.c. impone di considerare la materia da un punto di vista totalmente mutato. La disposizione ha perduto i suoi riferimenti testuali alla specificità dei motivi di appello e descrive in modo tassativo il loro contenuto. I motivi devono indicare le parti del provvedimento impugnato e le modifiche richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado; nonché le circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata.

Alla luce di questo disposto può ritenersi sia oggi consentito un minor formalismo nella esposizione delle ragioni dell'appello, non ingessate nella formula di una domanda che attende una risposta ma chiare nell'esporre le argomentazioni in base alle quali l'errato apprezzamento del fatto e l'errata applicazione delle norme ha condotto ad una decisione che si chiede debba essere diversa.

Attualmente è sufficiente che l'appello sia motivato (art. 342, comma 1) e abbia il contenuto imprescindibile imposto dalla norma ricordata (art. 342, comma 2). Non è più necessario che esso sia articolato attraverso l'esposizione di motivi autonomi, separati o specifici.

Guida all'approfondimento

G. BASILICO, Sulla riproposizione di domande ed eccezioni in appello, in Riv. dir. proc., 1996, 104 ss.;

RASCIO, L'oggetto dell'appello civile, Napoli, 1996, 108 ss.

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