Motivi di rito e motivi di merito nel giudizio di appello

Francesco Bartolini
10 Giugno 2016

È ammissibile l'impugnazione con cui l'appellante deduca esclusivamente vizi di rito avverso una pronuncia a lui sfavorevole anche nel merito solo qualora detti vizi comportino la rimessione al primo giudice.
Massima

È ammissibile l'impugnazione con cui l'appellante deduca esclusivamente vizi di rito avverso una pronuncia che abbia deciso in senso a lui sfavorevole anche nel merito solo qualora detti vizi comportino, se fondati, la rimessione al primo giudice ex artt. 353 e 354 c.p.c., mentre, al di fuori di tali casi, l'appellante, a pena di inammissibilità del gravame per carenza di interesse nonché per difformità rispetto al modello legale di impugnazione, è tenuto a dedurre, contestualmente a quelle di rito, anche le questioni di merito.

Il caso

Gli eredi di una persona deceduta in un incidente stradale convennero dinanzi al giudice di pace il conducente e il proprietario del veicolo antagonista per averne il risarcimento del danno.

Il detto giudice negò l'estensione del contraddittorio al proprietario dell'auto nella quale si trovava il deceduto, quale terzo trasportato, nonchè alla società assicuratrice di questi e dichiarò prescritto il diritto all'indennizzo.

Proposero appello gli attori soccombenti per lamentare l'omessa integrazione del contraddittorio e l'erroneità della pronuncia di prescrizione.

Essi chiesero la rimessione degli atti al primo giudice per la detta estensione del contraddittorio e per l'accoglimento delle istanze istruttorie formulate nell'atto di citazione.

Il tribunale dichiarò l'inammissibilità del gravame, sull'assunto della mancata proposizione di domande di merito.

Con ricorso per cassazione, gli stessi appellanti hanno affermato che il tribunale, dopo aver accolto l'appello e ritenuto inesistente la prescrizione, avrebbe dovuto procedere all'istruzione della causa e pronunciarsi sulle richieste istruttorie delle parti, all'esito decidendo nel merito.

La corte di legittimità ha dichiarato inammissibile il ricorso.

La pronuncia della Suprema Corte

La pronuncia in esame si risolve in una difesa della decisione del tribunale e nel richiamo dei principi interpretativi che di essa costituivano il fondamento.

Quanto allo specifico motivo di ricorso, la Corte si è limitata ad affermare che: «… la doglianza dei ricorrenti non ha nessuna attinenza con la decisione della sentenza impugnata, con conseguente inammissibilità del ricorso».

L'affermazione è giustificata dall'avere, i ricorrenti, riportato nel loro atto di gravame alcuni elementi della sentenza a loro favorevoli, per poi sostenere che il tribunale aveva errato perché le istanze istruttorie potevano essere formulate per relationem, senza però aver formulato correttamente la loro doglianza e non permettendo alla Corte di capire cosa si era effettivamente verificato in appello.

La decisione che si annota riveste interesse nella parte che fornisce conferma alle argomentazioni utilizzate dal giudice di appello e che riguarda direttamente, più che i motivi di ricorso, le ragioni dell'appello, espressamente condivise dal giudice di legittimità.

La questione

La questione sulla quale si è pronunciato il giudice di appello e che ha costituito oggetto di conferma ad opera della Corte di cassazione riguarda il contenuto dei motivi di appello e la loro formulazione.

Il giudice di secondo grado non ha un generale potere di annullamento dei provvedimenti impugnati ed è essenzialmente un giudice di merito, nei limiti della così detta revisio prioris instantiae (v. ad es.: Cass. civ., sez. II, 12 febbraio 2016, n. 2855).

Soltanto negli espressi casi di cui agli artt. 353 e 354 gli è consentita la rimessione del processo al giudice che lo ha preceduto; dovendo, di norma, pronunciarsi sulle domande e sulle eccezioni che costituiscono la materia del contendere.

Dall'applicazione di questa regola sorge la questione di determinare se siano ammissibili nel giudizio di appello i motivi di solo rito, al di fuori dei casi in cui esplicitamente ciò è consentito dalla legge processuale (ad es., difetto di giurisdizione del giudice a quo).

Con riferimento alla vicenda di specie, gli appellanti avevano sollevato una questione di integrità del contraddittorio; e, nel merito, avevano chiesto di dichiarare erronea la pronuncia di prescrizione del diritto al risarcimento, con conseguente ammissione e assunzione delle prove già dedotte con l'atto di citazione in primo grado.

Le soluzioni giuridiche

La Corte di cassazione ha approvato la pronuncia del giudice di appello per la quale i detti motivi di impugnazione dovevano essere ritenuti inammissibili. La richiesta di integrazione del contraddittorio era infondata; e i motivi residui non costituivano valida esplicitazione di ragioni di merito. Pertanto, risultavano applicabili i principi per i quali, mentre nelle ipotesi di appello avente contenuto esclusivamente rescindente – in cui il riscontro del motivo di invalidità esaurisce l'oggetto della cognizione riservata al giudice di secondo grado – la parte soccombente ha interesse a dedurre un mero vizio di nullità del giudizio di primo grado, dovendo la causa essere rimessa al primo giudice, affinchè il procedimento di primo grado sia rinnovato con contraddittorio regolarmente costituito; nelle altre ipotesi, invece, in cui l'appello cumula in se iudicium rescindens e iudicium rescissorium, e cioè è diretto non alla mera eliminazione di un atto illegittimo ma alla rinnovazione del giudizio di merito, le censure con le quali si deducono vizi di mera attività del primo giudice e non rientranti nelle ipotesi di cui agli artt. 353 e 354 c.p.c. hanno carattere strumentale e meramente subordinato, perché esse non sono di per sé idonee ad assicurare alla parte appellante la tutela sostanziale invocata, che è connessa non alla mera rimozione della sentenza di primo grado ma al riesame delle questioni di merito già dibattute in prime cure, con la conseguenza che, in quest'ultima ipotesi, l'appello è inammissibile per difetto di interesse, ove non vengano, altresì, prospettati vizi di merito della sentenza impugnata (Cass. civ., sez. U., 14 dicembre 1998, n. 12541).

La Corte ha ricordato, in sintesi, che è ammissibile l'impugnazione con la quale l'appellante si limita a dedurre soltanto i vizi di rito avverso una pronuncia che abbia deciso anche nel merito in senso a lui sfavorevole solo ove i vizi denunciati comporterebbero, se fondati, una rimessione al primo giudice ai sensi degli artt. 353 e 354 c.p.c.

Nelle ipotesi in cui, invece, il vizio denunciato non rientra in uno dei casi tassativamente previsti dai detti artt. 353 e 354c.p.c., è necessario che l'appellante deduca ritualmente anche le questioni di merito, con la conseguenza che, in tali ipotesi, l'appello fondato esclusivamente su vizi di rito, senza contestuale gravame contro l'ingiustizia della sentenza di primo grado, dovrà ritenersi inammissibile, oltre che per difetto di interesse, anche per non rispondenza al modello legale di impugnazione (Cass. civ., 9 dicembre 2005, n. 27296; Cass. civ., 29 settembre 2005, n. 19159; Cass. civ., 27 aprile 2004, n. 8033; Cass. civ., 17 febbraio 2003, n. 1831).

Osservazioni

354 c.p.c., si iscrive in una più ampia regola che richiede a sostegno dei gravami (come di tutte le domande rivolte al giudice) la sussistenza di un interesse giuridicamente apprezzabile e concreto, per gli interessi della parte e in relazione al rapporto controverso. Il nostro sistema processuale non consente istanze finalizzate a pronunce di contenuto astratto, di semplice ripristino delle forme inosservate, se da queste pronunce non consegue una qualche utilità effettiva, sul piano sostanziale, per la parte istante.

Si è ripetutamente affermato che il principio dettato dall'art. 100 c.p.c. (per il quale per proporre una domanda o per resistervi è necessario avervi interesse) si applica anche al giudizio di impugnazione, in cui l'interesse ad impugnare una data sentenza o un capo di essa va desunto dall'utilità giuridica che dall'eventuale accoglimento del gravame possa derivare alla parte che lo propone e non può consistere in ragioni che non rechino la possibilità di conseguire un risultato utile e giuridicamente apprezzabile (Cass. civ., sez. I, 11 febbraio 2015, n. 2682; Cass. civ., sez. lav., 23 giugno 2014, n. 14167; Cass. civ., sez. II, 27 gennaio 2012, n. 1236; Cass. civ., sez. III, 29 gennaio 2010, n. 2053; Cass. civ., sez. III, 13 maggio 2008, n. 11903; Cass. civ., sez. U., 15 maggio 2008, n. 12637; Cass. civ., sez. lav., 23 maggio 2008, n. 13373; Cass. civ., sez. III, 4 giugno 2007, n. 12952; Cass. civ., sez. I, 27 gennaio 2006, n. 1755).

Sintetizza il principio la seguente massima di una recente pronuncia della Suprema Corte: «La denuncia di vizi fondati sulla pretesa violazione di norme processuali non tutela l'interesse all'astratta regolarità dell'attività giudiziaria ma garantisce solo l'eliminazione del pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte in conseguenza della denunciata violazione. Ne consegue che è inammissibile l'impugnazione con la quale si lamenti un mero vizio del processo, senza prospettare anche le ragioni per le quali l'erronea applicazione della regola processuale abbia comportato, per la parte, una lesione del diritto di difesa o altro pregiudizio per la decisione di merito» (Cass. civ., sez. V, 18 dicembre 2014, n. 26831).

Nella vicenda oggetto di processo, gli appellanti confidavano nell'accoglimento del loro motivo in diritto, che, se recepito, avrebbe condotto alla rimessione del giudizio al primo grado, in quanto, asseritamente, in esso non era stato integrato il contraddittorio necessario.

Nel merito, essi proponevano istanze, costituite dalla riforma della pronuncia di prescrizione del diritto al risarcimento e, condizionatamente alla rimessione al primo giudice, dalla richiesta di ammissione e di assunzione delle prove già dedotte. Il giudice di appello ha dichiarato, nella sola motivazione, che la prescrizione non era maturata ma, disatteso il motivo in rito concernente l'integrità del contraddittorio, ha ritenuto di non trovare negli atti motivi formulati nel merito, sui quali pronunciarsi. Ne è seguita la declaratoria di inammissibilità del gravame. La sola richiesta di riformare la pronuncia di primo grado sul punto relativo alla prescrizione non è stata considerata sufficiente ad integrare quella istanza di merito che, per il ricordato e costante orientamento giurisprudenziale, è necessaria a dare concretezza ai motivi di appello. E neppure è stata considerata sufficiente la richiesta di assunzione ed esperimento delle prove già indicate negli atti del primo grado: istanza istruttoria, certamente, e tuttavia direttamente collegata a quella che in tale primo grado di giudizio aveva ad oggetto la condanna dei convenuti al risarcimento del danno. All'accoglimento di entrambe le domande gli attori avevano un indubbio interesse di natura sostanziale. L'integrazione del contraddittorio avrebbe esteso la platea dei debitori, cui opporre la sentenza, e avrebbe sanato quello che ritenevano fosse un vizio nella costituzione regolare del processo; la riforma della pronuncia sulla prescrizione del diritto al risarcimento del danno avrebbe spianato la strada alla pretesa di ottenere l'indennizzo; e l'assunzione delle prove avrebbe condotto alla dimostrazione del fondamento dell'azione esercitata. Perché, allora, la chiusura ad opera del giudice d'appello con la sua declaratoria di inammissibilità ?

L'interesse all'impugnazione è soltanto una delle condizioni dell'azione intrapresa con il gravame. Il giudizio di appello non ha natura di giudizio a critica libera ed esige la formulazione di precisi motivi che lo sostengano e che delimitino la materia del decidere affidata alla cognizione del giudice di secondo grado. Nella tradizione del nostro sistema processuale, questi motivi dovevano essere «specifici». L'aggettivo utilizzato nella normativa (ora mutata) si riferiva al grado di precisione e di direzione delle ragioni di gravame rispetto alle affermazioni contenute nella pronuncia impugnata. Esso veniva, nell'interpretazione corrente, oggettivizzato con riguardo a due aspetti che gli fornivano il suo significato: una enunciazione di argomentazioni contrapposte a quelle della sentenza e volte a incrinare il fondamento logico giuridico del provvedimento (Cass. civ., sez. VI, ord., 22 settembre 2015, n. 18704; Cass. civ., sez. I, 27 ottobre 2014, n. 22781; Cass. civ., sez. U., 9 novembre 2011, n. 23299); e la formulazione di concrete domande al giudice d'appello, nei limiti delle attribuzioni stabilite dalla legge processuale (nei limiti, cioè, della revisio prioris instantiae). Nella vicenda cui si riferisce la pronuncia oggetto di annotazione gli appellanti omisero di formulare al giudice di appello la precisa domanda, nel merito, sulla quale tale giudice avrebbe dovuto pronunciarsi per riformare o porre nel nulla la sentenza di primo grado. Da quanto può comprendersi dalla lettura della decisione della Corte di cassazione, essi argomentarono in ordine all'asserita erronea negazione dell'integrazione del contraddittorio e in ordine all'altrettanto asserita erronea dichiarazione di prescrizione dell'azione risarcitoria.

Per questo aspetto potrebbe ritenersi soddisfatta l'esigenza di specificità dei motivi di appello nel suo primo elemento, costituito dalla critica al provvedimento gravato. Del resto, il primo giudice non aveva pronunciato su altre questioni, diverse, e pertanto non sussistevano per gli appellanti ragioni di estendere oltre le loro contestazioni. Ma, quanto alle domande sulle quali far svolgere il giudizio di secondo grado, essi si limitarono a chiedere l'assunzione delle prove, condizionatamente alla rimessione degli atti al giudice di pace. Una siffatta richiesta non avrebbe potuto essere considerata come una domanda, proposta in giudizio, comportante una pronuncia giurisdizionale di composizione di un rapporto conflittuale tra parti litigiose. Essa aveva riferimento alla sollecitazione di una fase istruttoria processuale ma non veniva formulata con attinenza ad un petitum ed a una causa petendi chiaramente indicati ed esattamente delimitati. Per di più, la detta richiesta, condizionata alla rimessione degli atti al primo giudice, era formulata con rinvio a quanto esposto negli atti del primo grado, mentre: «L'appellante che intende ottenere il riesame delle istanze istruttorie non ammesse o non esaminate in primo grado ha l'onere, in ragione dell'effetto devolutivo dell'appello, di reiterarle nell'atto introduttivo del gravame ai sensi degli artt. 342 e 345 c.p.c.» (Cass. civ., sez. I, 24 novembre 2015, n. 23978).

In definitiva, l'inammissibilità dell'appello che la Corte di cassazione ha considerato correttamente pronunciata ha trovato ragione nel difetto di formulazione di una domanda espressa rivolta al secondo giudice. Poteva, verosimilmente, comprendersi dal contesto degli atti che gli attori appellanti intendevano perseguire un intento risarcitorio nei confronti delle controparti: ma questo intento non avrebbe dovuto essere limitato ad una istanza di prove, bensì costituire oggetto di una formale domanda di condanna.

Ci sia consentito di osservare, da un lato, che la sentenza può essere sospettata di un qualche eccesso formalista: in quante occasioni il giudice, e la stessa Corte, hanno salvato il merito con interpretazioni estensive e presuntive! Si veda ad esempio: «In materia di appello, l'inammissibilità del gravame per violazione dell'art. 342 c.p.c. sussiste solo quando il vizio investa l'intero contenuto dell'atto, mentre quando sia possibile individuare motivi o profili di doglianza, sufficientemente identificati, è legittimo scrutinare questi ultimi nel merito, resecandoli dalle ragioni d'impugnazione viziate da genericità…»(Cass. civ., sez. III, 7 ottobre 2015, n. 20124).

Dall'altro, va rilevato che certamente la costruzione della difesa degli appellanti ha peccato di superficialità, con rimando per relationem a quanto già detto e scritto, così fornendo occasione al tribunale, prima, e alla Corte, poi, di ribadire una affermazione di principio tranciante.

Può cogliersi l'occasione per osservare che, dopo la modifica del testo dell'art. 342 c.p.c. ad opera del d.l. 22 giugno 2012, n. 83 (conv. in l. 7 agosto 2012, n. 134), l'esigenza della specificità dei motivi è divenuta ancora più stringente.

Essi devono, attualmente, indicare non solo le parti del provvedimento che si intende appellare e le modifiche richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado, ma anche le circostanze da cui deriva la violazione della legge e la loro rilevanza ai fini della decisione impugnata.

In applicazione della norma così riformulata l'inammissibilità dell'appello nella vicenda di specie sarebbe apparsa del tutto scontata.

Guida all'approfondimento

M. MARINELLI, La clausola generale dell'art. 100 c.p.c. – origini, metamorfosi e nuovi riti, Trento, 2005.

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