Rimedi endoesecutivi e inammissibilità dell'azione di ingiustificato arricchimento
11 Ottobre 2016
Massima
È inammissibile l'azione di ingiustificato arricchimento proposta nei confronti dell'aggiudicatario dal debitore esecutato, in ragione delle opere dallo stesso volontariamente eseguite sul bene pignorato durante il processo esecutivo, dovendo le relative questioni essere tempestivamente dedotte con gli strumenti propri di tale processo. Il caso
All'esito di una procedura esecutiva, la debitrice esecutata propone azione di ingiustificato arricchimento nei confronti dell'aggiudicatario del bene espropriato. L'azione viene finalizzata ad ottenere il pagamento di una somma corrispondente al valore delle opere eseguite dalla stessa debitrice per il completamento del bene, e delle quali non si sarebbe tenuto conto nella determinazione del prezzo base e del prezzo di vendita. La Cassazione ha infine respinto il ricorso della debitrice, operando alcune puntualizzazioni che meritano di essere approfondite.
La questione
Nella specie, i profili problematici da esaminare, tra loro collegati, devono essere individuati nelle reazioni possibili avverso gli atti delle procedure esecutive, e nella ammissibilità –in assenza di tali reazioni- di far valere eventuali ragioni economiche mediante l'azione di ingiustificato arricchimento. Le soluzioni giuridiche
La giurisprudenza si è già occupata del tema relativo ai limiti procedimentali dei rimedi, avverso gli atti delle procedure esecutive. Da ultimo Cass. civ., sez. III, 02 aprile 2014 n. 7708 ha stabilito che «Nella vendita forzata l'aggiudicatario del bene pignorato, in quanto parte del processo di esecuzione, ha l'onere di far valere l'ipotesi di "aliud pro alio" con il solo rimedio dell'opposizione agli atti esecutivi, che va esperita -nel limite temporale massimo dell'esaurimento della fase satisfattiva dell'espropriazione, costituito dalla definitiva approvazione del progetto di distribuzione- comunque entro il termine perentorio di venti giorni dalla legale conoscenza dell'atto viziato, ovvero dal momento in cui la conoscenza del vizio si è conseguita o sarebbe stata conseguibile secondo una diligenza ordinaria». In precedenza, tuttavia, e tra le altre, Cass. civ., sez. II, 03 ottobre 1991 n. 10320, aveva affermato che «Qualora l'immobile aggiudicato, in esito ad esecuzione per espropriazione forzata, risulti difforme o privo delle qualità indicate negli atti della procedura, senza che l'aggiudicatario sia a conoscenza della situazione reale, deve riconoscersi a questi il diritto di denunciare la mancanza di quelle qualità, ovvero la consegna di "aliud pro alio", secondo le regole comuni, tenuto conto che tali regole trovano deroga nella vendita forzata, inclusa quella promossa da istituto di credito in base alla disciplina sul credito fondiario, solo con riguardo alla garanzia per vizi, esclusa dall'art. 2922, comma 1,c.c., e che, inoltre, non è onere dell'aggiudicatario medesimo di controllare l'esattezza delle menzionate indicazioni».
Osservazioni
La decisione in commento si inserisce in un dibattito giurisprudenziale sul quale occorre fare alcune considerazioni. È bene premettere brevemente, da un punto di vista di fatto, che nella specie il ricorrente ha fatto valere, con una azione autonoma e svincolata dalla procedura esecutiva (azione di ingiustificato arricchimento), il proprio preteso diritto ad ottenere la restituzione delle somme spese per l'ultimazione del bene staggito, sul presupposto per il quale delle stesse non si fosse tenuto conto in sede di determinazione del prezzo base, e a seguire nella fissazione definitiva del prezzo di vendita. La questione che appare di maggiore immediatezza di risoluzione attiene proprio alla qualificazione del rapporto tra rimedio endoesecutivo, e azione di ingiustificato arricchimento. Supponendo, come comunque meglio si dirà, che le problematiche relative al prezzo base, e al prezzo di aggiudicazione, quando pure investano profili attinenti la congruità di tali valori, attengano ad aspetti del subprocedimento costituito dalla vendita forzata (parte del più ampio processo esecutivo), risulta chiaro che agire, come accaduto nella specie, con l'azione di ingiustificato arricchimento, piuttosto che con i rimedi propri del processo esecutivo, rappresenti una violazione del principio di residualità di tale azione. La norma di cui all'art. 2042 c.c. limitando l'esperibilità dell'azione di arricchimento alle sole ipotesi, residuali, nelle quali il danneggiato non possa esercitare un'altra azione per farsi indennizzare del pregiudizio subìto, stabilisce infatti un requisito di tale azione, consistente per l'appunto nella sussidiarietà della stessa. È il caso di dire che il tema della sussidiarietà è a sua volta oggetto di profondo dibattito. A fronte di un orientamento della giurisprudenza molto rigoroso nella individuazione dei presupposti di ammissibilità dell'azione (ad esempio Cass. civ. sez. III, 12 novembre 2003, n. 17028, in Foro Italiano, 2004, I, 770, secondo cui «Va escluso il requisito della sussidiarietà dell'azione di arricchimento senza causa nell'ipotesi in cui sia data azione nei confronti di persone diverse dall'arricchito, obbligate per legge o per contratto», ma anche Cass. civ. sez. III, sent., 03 ottobre 2007, n. 20747, che ha affermato la necessità di valutare la possibilità di azioni diverse solo in astratto, e non anche in concreto -«L'azione di arricchimento senza causa, ai sensi dell'art. 2041 c.c., ha carattere sussidiario e, quindi, non è proponibile quando il danneggiato può esercitare azioni tipiche per farsi indennizzare del pregiudizio subito; la valutazione dell'esistenza delle altre azioni va effettuata in astratto, prescindendo dall'esito concreto delle stesse»-), non sono infatti mancate voci critiche (SALCIARINI, Esequie all'art. 2041, in GI, 1956, I, 1, 689; GALLO, Arricchimento senza causa e quasi contratti. I rimedi restitutori, in Tratt. Sacco, Torino, 1996, 53). Gli approdi recenti della giurisprudenza di legittimità (Cass. civ. sez. III, 13 marzo 2013, n. 6295) sono comunque nel senso per il quale «L'azione di arricchimento può essere proposta, in via subordinata rispetto all'azione contrattuale proposta in via principale, soltanto qualora quest'ultima sia rigettata per un difetto del titolo posto a suo fondamento, ma non anche nel caso in cui sia stata proposta domanda ordinaria, fondata su titolo contrattuale, senza offrire prove sufficienti all'accoglimento, ovvero in quello in cui tale domanda, dopo essere stata proposta, non sia stata più coltivata dall'interessato». Non a caso la decisione in commento ha dato continuità all'indirizzo consolidato, ribadendo che «l'inammissibilità, dovuta alla non residualità, dell'azione di indebito arricchimento non è certo esclusa -ed anzi è confermata- dalla circostanza che chi aveva a sua disposizione l'azione tipica abbia volontariamente perduto la possibilità di esperirla», e richiamando il principio generale per il quale l'azione di ingiustificato arricchimento resta preclusa sia per l'infondatezza e sia per l'inammissibilità (anche per violazione dei relativi termini di proposizione, e in questo senso si pensi anche alla prescrizione e alla decadenza) dell'azione tipica spettante alla parte impoverita (con la valutazione di sussidiarietà da compiersi in astratto e quindi a prescindere dalle concrete circostanze per le quali non si sia potuto ottenere soddisfazione). Va da sé, nel quadro delineato, che alla parte ricorrente fosse allora preclusa la possibilità di agire con l'azione di ingiustificato arricchimento, essendo in astratto possibile impugnare, per i vizi relativi, i provvedimenti del giudice mediante l'opposizione agli atti esecutivi. Sotto altro profilo, non può comunque fare a meno di notarsi come anche da un punto di vista sostanziale l'azione proposta apparisse eccentrica rispetto alla situazione di fatto. Ove si consideri, infatti, che nella fattispecie dovrebbero contemperarsi le opposte esigenze da un lato di chi effettui delle spese per il bene altrui, e dall'altro lato di chi potrebbe vedersi imposte spese non volute (responsabilità da arricchimento), dovrebbe convenirsi che ai fini di cui all'art. 2041 c.c. sarebbe stata rilevante la buona fede dell'impoverito (art. 936, ultimo comma,c.c., che valorizza proprio la buona fede del terzo, e su cui cfr. Cass. civ., sez. II, 17 giugno 1974 n. 1762, secondo cui «L'ignoranza del terzo che ha eseguito costruzioni su suolo altrui con materiali propri, di ledere l'altrui diritto (ignoranza che impedisce al proprietario del suolo di chiedere la rimozione della costruzione) non deve dipendere - secondo il concetto unitario della buona fede posto dall'art 1147 c.c. - da colpa grave, la cui esistenza va accertata tenendo conto della categoria sociale, della professione ed attività dell'agente, del tempo, del luogo e delle altre modalità dell'Azione»). Da un punto di vista più strettamente processuale, e quanto alla ammissibilità di azioni di tutela, secondo le regole comuni, come si è rilevato la giurisprudenza ha avuto orientamenti non univoci. Ad esempio, Cass. civ., sez. III, 04 novembre 2005 n. 21384 aveva stabilito come «In tema di esecuzione per espropriazione forzata, qualora l'immobile aggiudicato risulti gravato da diritti reali non apparenti né indicati negli atti della procedura, senza che l'aggiudicatario sia a conoscenza della situazione reale, deve riconoscersi a questo il diritto a far valere non la garanzia per evizione, limitata al solo diritto di proprietà, ma quelle di cui all'art. 1489 c.c. secondo le regole comuni, tenuto conto che tali regole incontrano una deroga nella vendita forzata solo con riguardo alla garanzia per vizi, esclusa dall'art. 2922, comma 1, c.c. Altrettanto vale con riferimento al caso in cui l'immobile espropriato sia gravato da un diritto personale (nella specie locazione), sottoposto dall'art. 1489 c.c. allo stesso trattamento dei diritti reali» (ma cfr. altresì Cass. civ., 14 ottobre 2010, n. 21249; Cass. civ., 9 ottobre 1998, n. 10015; Cass. civ., 3 ottobre 1991, n. 10320). Sul tema, e in particolare in ordine ai rimedi previsti per l'aggiudicatario, è comunque da ultimo intervenuta la puntualizzazione operata da Cass. civ., sez. III, 02 aprile 2014 n. 7708, che ha chiarito come «Nella vendita forzata l'aggiudicatario del bene pignorato, in quanto parte del processo di esecuzione, ha l'onere di far valere l'ipotesi di "aliud pro alio" con il solo rimedio dell'opposizione agli atti esecutivi, che va esperita -nel limite temporale massimo dell'esaurimento della fase satisfattiva dell'espropriazione, costituito dalla definitiva approvazione del progetto di distribuzione- comunque entro il termine perentorio di venti giorni dalla legale conoscenza dell'atto viziato, ovvero dal momento in cui la conoscenza del vizio si è conseguita o sarebbe stata conseguibile secondo una diligenza ordinaria». È una decisione significativa, perché chiarisce come l'estensione anche all'azione di aliud pro alio, intentata dall'aggiudicatario, del regime ordinario dell'opposizione agli atti esecutivi e del relativo ordinario termine decadenziale, si giustifichi proprio in virtù dell'assunzione, ad opera dell'aggiudicatario, della qualità di parte del processo (quello esecutivo, caratterizzato da un sistema chiuso, tipizzato ed inderogabile, di rimedi interni). Nella specie, tale veste viene assunta dal momento in cui venga a manifestarsi un contrasto -ancorché non formalizzato in opposizione agli atti esecutivi- in cui sia coinvolto lo stesso aggiudicatario, e per il quale sia richiesto l'intervento del giudice dell'esecuzione. Tanto è vero che è stata ritenuta idonea tutela offerta all'aggiudicatario («tranne i soli casi in cui sia espressamente prevista oppure quelli in cui una disciplina positiva speciale, come quella dell'art. 2929 c.c., comunque la presupponga» -così la richiamata Cass. civ., n. 7708/2014), quella del rimedio generale dell'opposizione agli atti esecutivi, sebbene soggetto al relativo termine decadenziale, purché questo sia fatto decorrere dal momento in cui l'interessato si sia avveduto o abbia potuto avvedersi -con l'ordinaria diligenza- del vizio. Ma se così è, è chiaro che la medesima regola debba essere applicata anche al debitore esecutato. Come chiarito dalla giurisprudenza (Cass. civ., sez. VI, 07 gennaio 2016 n. 89) «Nel processo di esecuzione […] il debitore non è parte nel senso pieno del termine poiché non dispone di pari poteri processuali, essendo tale processo preordinato unicamente al soddisfacimento dell'interesse del creditore. È solo nelle eventuali fasi d'opposizione ai sensi degli artt. 615 e 617 c.p.c. che il debitore recupera la posizione di parte, atteso che la funzione delle opposizioni esecutive è proprio quella di stabilire un separato ambito cognitivo nel quale l'esecutato possa svolgere (in conformità al precetto dell'art. 111, comma 2, Cost., ricognitivo di principi già esistenti nel sistema processuale) contraddittorio e difesa tecnica, diversamente incompatibili con il potere coattivo del creditore». E ne discende che anche il debitore esecutato, in questo caso per le questioni inerenti il prezzo di vendita dell'immobile staggito, debba avvalersi dei rimedi endoesecutivi, al fine di contestare la congruità dello stesso, in vista della successiva vendita. Senza potersi avvalere, in seguito, del rimedio ex art. 2041 c.c., che da un punto di vista processuale non sarebbe sussidiaria in astratto, proprio in ragione della possibilità di avvalersi del rimedio ex art. 617 c.p.c BONSIGNORI ANGELO, voce Esecuzione forzata in genere, in Digesto, Torino, 1991. COSSIGNANI FABIO, Aliud pro alio e opposizione agli atti esecutivi, in La nuova giurisprudenza civile commentata, 2014, 10, I, 873; MOSCHELLA CONSUELO, I rimedi a tutela dell'aggiudicatario nella vendita forzata per l'ipotesi di aliud pro alio, in Rivista di diritto processuale, 2015, 4-5, 1309; |