Testimonianza: la facoltà del giudice di porre domande a chiarimenti non può supplire all'onere probatorio della parte

11 Giugno 2016

In tema di prova testimoniale, la facoltà di porre domande a chiarimenti deve essere circoscritta a meglio dettagliare lo svolgimento di un fatto, allegato e oggetto di prova con il capitolo ammesso.
Massima

In tema di prova testimoniale, la facoltà di porre domande a chiarimenti deve essere circoscritta a meglio dettagliare lo svolgimento di un fatto, allegato e oggetto di prova con il capitolo ammesso, e non ad introdurre fatti nuovi o circostanze che, pur rilevanti sul piano probatorio, non siano state oggetto di capitoli di prova oppure appartengano a capitoli non ammessi per come formulati, non potendo l'intervento del giudice assumere una funzione di supplenza rispetto all'onere probatorio della parte.

Il caso

Tizio evocava in giudizio la propria moglie e la compagnia assicuratrice dell'autovettura di proprietà della moglie, al fine di ottenere condanna al risarcimento del danno permanente riportato all'occhio destro a seguito di un sinistro verificatosi mentre veniva trasportato sull'autovettura di proprietà e condotta dalla di lui moglie. Il Tribunale adito rigettava la domanda per mancanza di prova dei fatti allegati.

Il danneggiato proponeva gravame. Anche la Corte territoriale rigettava l'Appello per mancanza di prove sulla dinamica dei fatti.

Avverso la pronuncia della Corte territoriale Tizio proponeva ricorso per cassazione affidandosi a due motivi, al quale resisteva con controricorso la compagnia assicuratrice.

La questione

La questione giuridica esaminata dalla pronuncia in commento è la seguente: qual è il confine del legittimo esercizio della facoltà del giudice di porre domande a chiarimenti? Rientra in tale potere-dovere chiedere i chiarimenti per supplire alle carenze probatorie delle parti onerate della prova dei fatti che adducono?

Le soluzioni giuridiche

Il ricorrente per Cassazione (danneggiato-trasportato) lamenta che la Corte territoriale non ha applicato in suo favore la presunzione di cui all'art. 2054, commi 2 e 3, c.c., ritenendo che egli non avesse fornito la prova relativa alla dinamica dei fatti dedotti. A tal ultimo riguardo evidenzia inoltre il ricorrente come la corte d'appello abbia ritenuto inidonea la prova testimoniale a fondare il suo convincimento perché le risposte del teste erano troppo sintetiche e generiche. Il ricorrente deduce, invero, che i capitoli di prova non erano generici, né li ha ritenuti tali la corte d'appello nel momento in cui li ha ammessi, e che il giudice nel procedere all'assunzione della prova testimoniale avrebbe potuto formulare ulteriori domande al teste al fine di ottenere i chiarimenti necessari per una migliore comprensione dei fatti che i capitoli ammessi erano tesi a provare nonché per la completezza della prova.

La Suprema Corte respinge il ricorso ritenendo corretto l'iter logico-giuridico in cui si articola il ragionamento della Corte d'Appello, la quale validamente non ha applicato la presunzione di cui all'art. 2054 c.c. in favore del preteso danneggiato-terzo trasportato, perché l'applicazione della presunzione presuppone che l'attore fornisca la prova di aver subito un danno e che questo danno sia in rapporto di causalità con la circolazione del veicolo. Con riferimento alla preminente questione giuridica suindicata il Supremo Collegio offre la seguente soluzione:la facoltà del giudice di porre domande a chiarimenti può servire per meglio dettagliare lo svolgimento di un fatto che sia stato non solo allegato ma che si tende a provare con il capitolo di prova ammesso, e non per introdurre un fatto nuovo o diverso e comunque una circostanza che avrebbe dovuto essere provata dalla parte e della quale la parte stessa non si è avveduta o sulla quale non ha formulato alcun capitolo di prova, ovvero ha formulato un capitolo di prova ma questo, per come era formulato, non è stato ammesso. La domanda a chiarimenti non può e non deve svolgere una funzione di supplenza rispetto all'onere probatorio a carico delle parti.

Osservazioni

Al fine di effettuare una compiuta osservazione circa la questione al vaglio della Suprema Corte, relativa alla facoltà riconosciuta al giudice dall'art. 253, comma 1, c.p.c. di porre delle domande ai testi a chiarimenti, si reputa necessario un breve e preliminare cenno ad uno dei fondamentali principi informatori del processo civile, i.e. il principio dispositivo.

Orbene, in virtù del principio dispositivo (art. 115 c.p.c.) sono le parti a proporre al giudice gli elementi di prova su cui basare il proprio convincimento. La legge vieta al giudice, salvo rare eccezioni, di esperire indagini d'ufficio, sicché la raccolta del materiale probatorio è nella disponibilità delle parti. Per ciò che nello specifico concerne la prova testimoniale, l'art. 244 c.p.c. prevede le modalità con cui la prova testimoniale deve essere dedotta dalla parte che la propone; segnatamente, tale norma prevede che la parte che la propone debba indicare in maniera specifica le persone da interrogare e i fatti su cui ciascuna deve essere interrogata, allo scopo di fissare i termini precisi dell'interrogatorio, escludendo così ogni forma di inquisizione e consentendo al teste di valutare i limiti del suo potere di risposta.

Pertanto, la facoltà attribuita al giudice di cui all'art. 253, comma 1, c.p.c., invocata dal ricorrente per Cassazione, si colloca nella fase successiva di assunzione della prova testimoniale così come dedotta, articolata e ammessa dal giudice. La Suprema Corte, nel rispetto del principio dispositivo, ha quindi correttamente fissato il confine del legittimo esercizio di tale facoltà, affermando che la domanda a chiarimenti può servire per meglio dettagliare lo svolgimento di un fatto che sia stato non solo allegato ma che si tende a provare con il capitolo di prova ammesso, e non per introdurre un fatto nuovo o diverso,ovveroancora una circostanza che avrebbe dovuto essere provata dalla parte e della quale la parte stessa non si è avveduta o sulla quale non ha formulato un autonomo capitolo di prova. Al verificarsi di tali carenze probatorie non può invocarsi la facoltà concessa al giudice (esercitabile d'ufficio ovvero su istanza di parte) di porre domande a chiarimenti, poiché questa non può e non deve svolgere una funzione di supplenza rispetto all'onere probatorio incombente sulle parti.

Detto ciò, quindi,secondo la pronuncia che si commenta, se la prova testimoniale ammessa non contiene un capitolo su un determinato fatto decisivo (ad es. perché costitutivo della pretesa, o perché determinante per completare la fattispecie) non si può in alcun modo pretendere che il giudice con la domanda a chiarimenti introduca un fatto che non è nel capitolo; in tal modo, infatti, si verrebbe a supplire ad una deficienza probatoria della parte, nonché a violare il principio dispositivo dell'onere della prova e, quindi, a squilibrare la parità delle "armi" che il rispetto del contraddittorio tende ad assicurare.

La linea di demarcazione del confine, validamente tracciata dalla Corte di Cassazione con la pronuncia de qua nel rispetto del fondamentale principio dispositivo, che segna il corretto e legittimo esercizio della facoltà del giudice di porre domande a chiarimenti, non sembrerebbe però, a sommesso parere di chi scrive, di così agevole individuazione. Ciò soprattutto alla luce diuna precedente e recente pronuncia resa dalla medesima sezione della Suprema Corte (Cass. civ., sent.,24 settembre 2015 n. 18896), che si segnala all'attenzione, e che potrebbe essere invocata dalle parti al fine di contraddire la soluzione cui è pervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza in esame, rischiando di ingenerare un contrasto di interpretazioni.

Infatti, secondo la sentenza della Corte di Cassazione n. 18896 del 2015, se un testimone nulla riferisce su circostanze rilevanti ai fini dell'accoglimento della domanda, ma che non hanno formato oggetto dei capitoli ammessi, il giudice non può, senza contraddirsi, dapprima omettere di chiedere al testimone chiarimenti in merito e poi, in sentenza, rigettare la domanda processuale, ritenendo non provate le circostanze taciute dal teste. Se, infatti, il giudice ritiene decisiva la conoscenza di una circostanza di fatto sulla quale il testimone non era formalmente chiamato a riferire (perché non compresa nei capitoli ammessi), l'ordinamento gli accorda il potere di rivolgere al testimone «tutte le domande che ritiene utili a chiarire i fatti» (art. 253 c.p.c., comma 1), come pure di richiamare il testimone già escusso (art. 257 c.p.c.). Da queste norme, soggiunge il Supremo Collegio, si ricava il principio per il quale il giudice di merito non è un mero registratore passivo di quanto dichiarato dal testimone, bensì un soggetto attivo e partecipe dell'escussione testimoniale, al quale l'ordinamento attribuisce il potere-dovere in primo luogo di sondare con zelo l'attendibilità del testimone, ed in secondo luogo di acquisire dal testimone (vuoi con le domande di chiarimento, vuoi incalzandolo, vuoi contestandogli contraddizioni tra quanto dichiarato ed altre prove già raccolte) tutte le informazioni ritenute indispensabili per una giusta decisione. Quel che invece il giudice di merito non può fare, senza contraddirsi, è da un lato non rivolgere al testimone nessuna domanda a chiarimento e non riconvocarlo; e dall'altro ritenere lacunosa la testimonianza perché carente su circostanze non capitolate, e sulle quali nessuno ha chiesto al testimone di riferire (per l'affermazione di questo principio la pronuncia richiama Cass. civ., sez. U., sent., 29 marzo 1963, n. 789).

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