Il passaggio dal rito ordinario al rito sommario di cognizione alla luce del d.l. n. 132/2014

Cesare Trapuzzano
23 Novembre 2016

L'art. 14, primo comma, del d.l. 12 settembre 2014, n. 132, ha inserito nel codice di rito, dopo l'articolo 183, l'art. 183-bis, che regola il passaggio dal rito ordinario al rito sommario di cognizione. Secondo la novella, nelle cause in cui il tribunale giudica in composizione monocratica, il giudice nell'udienza di trattazione, valutata la complessità della lite e dell'istruzione probatoria, può disporre, previo contraddittorio anche mediante trattazione scritta, con ordinanza non impugnabile, che si proceda a norma dell'art. 702-ter, invitando in tal caso le parti ad indicare, a pena di decadenza, nella stessa udienza i mezzi di prova, ivi compresi i documenti, di cui intendono avvalersi e la relativa prova contraria.
Il quadro normativo

L'art. 14 del d.l. degiurisdizionalizzazione ha introdotto nel codice di rito l'art. 183-bis, rubricato «Passaggio dal rito ordinario al rito sommario di cognizione», con una formulazione che è rimasta invariata anche all'esito della conversione in legge. Segnatamente, l'art. 14 citato è inserito nel capo quarto, dedicato alle «Altre misure per la funzionalità del processo civile di cognizione», unitamente all'art. 13, contenente «Modifiche al regime della compensazione delle spese», e all'art. 16, che regola la riduzione del periodo di sospensione feriale dei termini processuali e delle ferie dei magistrati. Di contro, l'art. 15, che introduceva l'art. 257-ter c.p.c., riconoscendo alle parti il diritto di produrre, sui fatti rilevanti ai fini del giudizio, dichiarazioni di terzi, capaci di testimoniare, rilasciate al difensore, è stato abrogato in sede di conversione del d.l. in legge.

Pertanto, la novella prevede ora la facoltà del giudice di effettuare, in corso di causa, siffatto passaggio, quando la causa sia stata instaurata nelle forme del procedimento ordinario di cognizione. Si tratta chiaramente dell'esercizio di un potere discrezionale, condizionato ad una valutazione dei presupposti, in via cumulativa, indicati dalla nuova norma: la complessità della lite e la complessità dell'istruzione probatoria.

Cosicché il legislatore ha contemplato una facoltà omologa, che opera in senso inverso, rispetto a quella già ammessa dal codice di rito, rectius il passaggio dal rito sommario al rito ordinario. Infatti, ai sensi dell'art. 702-ter, terzo comma, c.p.c., quando una causa sia instaurata con il procedimento sommario di cognizione, il giudice, se ritiene che le difese svolte dalle parti richiedono un'istruzione non sommaria, fissa con ordinanza non impugnabile l'udienza di trattazione del procedimento ordinario di cognizione. In entrambe le ipotesi è il giudice a disporre il passaggio, che postula la necessità di un'istruzione non sommaria, quando il rito sommario sia mutato in ordinario, ovvero la ponderazione in ordine alla non complessità della lite e dell'attività probatoria da espletare, quando il rito ordinario sia mutato in sommario. In conseguenza, i due modelli di trattazione del processo di cognizione sono divenuti intercomunicabili. Nondimeno, il fatto che il legislatore abbia contemplato detta facoltà al fine di riequilibrare il sistema non è una scelta unanimemente condivisa in dottrina. E tanto perché nelle cause di pronta e facile soluzione introdotte con il rito ordinario l'esigenza di giungere in tempi brevi alla definizione del processo già può essere soddisfatta mediante altri strumenti rinvenibili nell'ordinamento. Così, ai sensi dell'art. 80-bis disp. att. c.p.c., il giudice può disporre la precisazione delle conclusioni già dall'udienza di prima comparizione e trattazione, sempre che non siano richiesti i termini di cui all'art. 183, sesto comma, c.p.c., in combinato disposto con l'art. 187 c.p.c., quando la causa sia di natura documentale ovvero quando debbano essere definite questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito potenzialmente idonee a chiudere il giudizio. Inoltre, i tempi lunghi della trattazione scritta della fase decisoria, che si snoda attraverso lo scambio di comparse conclusionali e memorie di replica, secondo i termini indicati dall'art. 190 c.p.c., anziché il più agile mezzo dell'ordinanza che conclude il procedimento sommario di cognizione, sono evitabili attraverso il ricorso, anche nel rito ordinario, alla trattazione orale della fase decisoria, con discussione e pronuncia contestuale a verbale della sentenza, che dovrà riportare solo una succinta e concisa esposizione delle ragioni in fatto e in diritto, ai sensi dell'art. 281-sexies c.p.c. In aggiunta, il riconoscimento di tale potere in capo al giudice può incentivare un'indiscriminata diffusione della tutela sommaria, considerato che, all'esito della trasformazione del rito, il giudice procede senza alcun vincolo procedurale, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, nel modo che ritiene più opportuno. Con l'aggravio che siffatto cambiamento del rito è sconnesso dal riferimento a ragioni oggettive predeterminate dal legislatore ed è ancorato ad esigenze di economia processuale nonché alla natura degli interessi in gioco, in forza di una ponderazione legata al caso concreto e non obiettivabile. Qualora il giudice appuri che una delle controversie per le quali è disposta la trattazione con il procedimento sommario di cognizione per diretta previsione di legge sia stata introdotta erroneamente nelle forme del procedimento ordinario di cognizione, non ordinerà il passaggio di rito sulla scorta dell'applicazione dell'art. 183-bis c.p.c., bensì si adeguerà immediatamente al dettato delle specifiche norme che stabiliscono la speciale forma di trattazione. In queste ipotesi, non si ricade nell'ambito delle mere facoltà che il giudice può esercitare, ma si tratta di un vero e proprio obbligo, non soggetto al previo contraddittorio delle parti in causa.

Presupposti

La facoltà di prescrivere il passaggio al rito sommario è prevista solo per le cause davanti al tribunale, la cui trattazione e decisione spetti al giudice monocratico. E' escluso, pertanto, che la norma possa trovare applicazione davanti al giudice di pace, il cui procedimento è regolato da una disciplina ad hoc. In specie, quanto alla fase di trattazione e alla fase decisoria, gli artt. 320 e 321 c.p.c. dettano una regolamentazione assai semplificata, che non giustifica il ricorso ad altre forme di svolgimento della procedura. D'altro canto, al momento dell'introduzione del procedimento sommario di cognizione, espressamente la sua applicazione fu riservata ai soli procedimenti da instaurare davanti al tribunale. Ancora, la disposizione sul passaggio di rito attiene alle sole cause pendenti davanti al tribunale in primo grado. Non è invece ammessa la sua applicazione con riguardo alle cause in cui il tribunale monocratico sia adito in appello, atteso che la norma, in più passi, si riferisce all'attività probatoria, in particolare, con riferimento alla valutazione della sua complessità ai fini della delibazione del passaggio, all'invito ad indicare i mezzi istruttori nell'udienza di trattazione, alla concessione di termini perentori per la formulazione delle richieste istruttorie, eventualità che sono compatibili esclusivamente con lo svolgimento del procedimento in prime cure. Allo stesso tempo, il richiamo al rito ordinario e all'udienza di trattazione lascia intendere che detto passaggio possa riguardare i soli procedimenti introdotti con il rito ordinario di cognizione, non quelli introdotti con il rito speciale del lavoro e locatizio, già improntato ai principi di concentrazione, oralità e speditezza. Inoltre, le cause tassativamente indicate dall'art. 50-bis c.p.c. non possono essere trattate con il rito sommario, né per effetto di introduzione ex ante, né in ragione di mutamento ex post. Qualora erroneamente la causa sia trattata nella prospettiva della decisione monocratica, benché in realtà essa spetti alla decisione del tribunale in composizione collegiale, l'eventuale mutamento del rito disposto dal giudice nella fase di trattazione non pregiudicherà l'utilizzabilità delle prove eventualmente raccolte in forza del rito sommario, sicché il tribunale collegiale, cui la causa sia rimessa ai sensi dell'art. 281-octies c.p.c., pronuncerà provvedimento avente la forma di sentenza secondo il rito ordinario, facendo però salva l'attività istruttoria in precedenza svolta. Non sussistono ostacoli affinché il passaggio dal rito ordinario al rito sommario sia ordinato nei procedimenti di opposizione a decreto ingiuntivo, quando il giudice valuti che le ragioni poste a supporto dell'opposizione, in dinamica comparazione con le deduzioni contenute nella comparsa di risposta della parte opposta, non determinino una definizione complessa della lite ovvero una difficile attività probatoria. E ciò sia quando appaia evidente la fondatezza della pretesa fatta valere in via monitoria sia quando essa appaia palesemente destituita di pregio. Dello stesso avviso sono i primi arresti della giurisprudenza di merito, secondo cui non si frappongono a tale interpretazione ragioni di carattere letterale (art. 645 c.p.c.). Infatti, l'ordinanza conclusiva del procedimento sommario di cognizione partecipa della stessa idoneità al giudicato, formale e sostanziale, che contraddistingue la sentenza; al contrario, l'intento acceleratorio perseguito dal legislatore con l'introduzione della norma in parola (pensata specificamente per le liti “meno complesse”, tra le quali rientrano sovente quelle incardinate a fini defatigatori o dilatori, come può essere anche l'opposizione spiegata avverso il provvedimento monitorio) rende pienamente percorribile la soluzione prospettata (Trib. Vercelli 23 marzo 2016).

La rimessione al giudice della scelta del rito ha suscitato delle obiezioni. E tanto perché il modello-base di processo al quale le parti hanno diritto è quello che si svolge secondo il rito ordinario, che costituisce fisiologicamente lo strumento attraverso cui si ottiene giustizia sostanziale, a fronte del quale il rito sommario si configura come mera eccezione, sicché la disposizione attribuita al giudice del mutamento del rito ordinario in rito sommario sarebbe suscettibile di ledere il principio costituzionale del giusto processo ex art. 111 Cost. Avverso questa obiezione si può, tuttavia, replicare che ormai il modello del rito sommario costituisce una regola per tutti i procedimenti che abbiano gli oggetti selezionati dagli artt. 14-30 della legge sulla semplificazione dei riti, e ciò per diretta previsione legislativa. Con la conseguenza che la rimessione al giudice della possibilità di mutare il rito costituisce il mezzo attraverso il quale, anche oltre l'elencazione aprioristica del legislatore, si realizza l'obiettivo della trattazione secondo il più snello rito sommario, in guisa della connotazione assunta dalla fattispecie concreta. Sicché, anche al di là delle ipotesi tassativamente selezionate, quando la causa sia di semplice soluzione, il giudice può avvalersi di un grimaldello normativo, la cui intrinseca elasticità permette di adattare la disposizione del rito sommario alle emergenze del caso concreto, quand'anche la parte istante non abbia ritenuto di avvalersi di siffatto procedimento al momento dell'instaurazione del contenzioso giudiziale. Peraltro, se il modello-base volto a garantire una decisione conforme a giustizia sostanziale fosse esclusivamente il procedimento ordinario di cognizione, dovrebbe derivarne che il ricorso al modello del procedimento sommario di cognizione, introdotto dall'art. 51, l. 18 giugno 2009, n. 69, presupporrebbe il consenso di tutte le parti coinvolte nel giudizio. In realtà così non è. Ed invero, quando la causa sia introdotta con le forme del rito sommario per una libera scelta della parte agente, non basta l'opposizione del convenuto a giustificare il passaggio al rito ordinario, ma dovrà essere il giudice a valutare che la controversia esiga un'istruttoria non sommaria. La ponderazione positiva in ordine al passaggio dal rito ordinario al rito sommario si fonda sulla complessità della lite in concreto, più che sulla complessità in astratto del relativo oggetto, e dell'attività probatoria all'uopo necessaria. Secondo una tesi espressa in dottrina, la valutazione sulla complessità della lite deve riguardare anche l'opportunità di derogare ai principi del giusto processo che governano il rito ordinario, con la conseguenza che dovrà all'uopo farsi riferimento - da un lato - al tipo di cognizione, quando la natura e l'oggetto della controversia male si adattino ad una cognizione sommaria, e - dall'altro lato - “all'oggetto che la caratterizza, anche per i diritti che vi sono coinvolti, il che necessariamente richiama i principi fondamentali del giusto processo, così come esplicitati all'interno del giudizio ordinario di cognizione”. Detta valutazione può essere compiuta sulla scorta della posizione difensiva assunta dal convenuto e, in specie, in ragione delle difese da tale parte formulate ovvero della carenza di contestazione su alcuni fatti rilevanti posti a fondamento della domanda principale, non contestazione che produce gli effetti di cui all'art. 115 c.p.c. Segnatamente, la complessità della lite attiene alla natura delle questioni in fatto e in diritto sollevate dalle parti in giudizio mentre la complessità dell'istruttoria o dell'attività probatoria necessaria concerne precipuamente il profilo della gravosità della dimostrazione delle pretese ed eccezioni formulate. Tuttavia, affinché il giudice possa disporre il passaggio dal rito ordinario al rito sommario, i due presupposti devono concorrere, sicché non solo i motivi del contendere non devono implicare una complicata definizione della lite, ma - in aggiunta - non devono comportare un'istruttoria articolata e dispendiosa. Ne consegue che, quando la lite appaia intricata in fatto o in diritto, benché non esiga lo svolgimento di alcuna attività probatoria, il passaggio non può essere ordinato. E allo stesso modo accade quando l'oggetto del contendere verta su questioni che non presentano particolari difficoltà fattuali o giuridiche, ma la decisione imponga l'espletamento di una diffusa attività istruttoria. Per l'effetto, l'applicazione dell'art. 183-bis c.p.c. si adatta prevalentemente alle liti che appaiano prima facie di semplice soluzione in fatto e in diritto e che, al contempo, possano essere definite in via documentale ovvero con un'attività probatoria costituenda del tutto marginale e celere. Segnatamente, il passaggio di rito si adatta alle seguenti fattispecie: a. quando la causa sia interamente documentale e la mole dei documenti non sia eccessiva, né vi siano disconoscimenti che esigano apposita istruzione probatoria (salvo che le prove sull'autografia non siano schiaccianti e non basti una rapida consulenza tecnica d'ufficio grafologica per rimuovere ogni dubbio); b. quando occorrano poche e circoscritte prove costituende ovvero una consulenza tecnica d'ufficio più o meno rapida. A sua volta, la semplice soluzione della lite può dipendere dalla piana e assoluta chiarezza ed univocità dei fatti esposti, tutti convergenti verso una conclusione perentoria e netta, ovvero dalla consolidata giurisprudenza che si è formata nel corso degli anni su determinate questioni sollevate dalle parti in causa. Sicché, nella prospettiva della novella, il granitico orientamento della giurisprudenza in ordine alle questioni dirimenti costituisce presupposto per il passaggio del rito mentre, ai sensi dell'art. 13, che ha sostituito il secondo comma dell'art. 92 c.p.c., il mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti giustifica la compensazione, integrale o parziale, delle spese di lite. Lo scopo perseguito è quello, almeno teorico, di accelerare i tempi di definizione del processo, alla stregua dell'effettiva entità della controversia. Ovviamente l'esercizio di questa facoltà esige, da parte del giudice, una previa accurata lettura degli atti di costituzione sin dal loro deposito anteriormente all'udienza di prima comparizione e trattazione. Sicché la valutazione giudiziale in merito alla ridotta complessità della lite e dell'istruzione probatoria, secondo un metro inevitabilmente discrezionale e subiettivo, dipende da preparazione, capacità, prontezza di spirito, carattere (decisionista o meno) nonché, anche se la legge non lo dice, dal carico dei ruoli del singolo giudice. Si rientra, in proposito, tra le forme di manifestazione del potere di direzione del processo, avvalendosi di tutte le possibilità intese al più sollecito e leale svolgimento del procedimento, ai sensi dell'art. 175 c.p.c. La facoltà di disposizione del mutamento riservata al giudice è invece preclusa in radice quando, avendo ad oggetto la controversia più domande, solo una di esse sia trattabile con il rito sommario, poiché è inibito al giudice di disporre la separazione dei procedimenti, ipotesi questa specificamente regolata per il solo passaggio dal rito sommario al rito ordinario, ai sensi dell'art. 702-ter, comma 4, c.p.c. Ne discende che il presupposto del mutamento del rito è afferente alla semplice definizione ovvero alla pronta soluzione della causa nel suo complesso. Quando tali requisiti ineriscano solo ad alcune domande, l'intero procedimento deve continuare nelle forme del rito ordinario. Il mutamento del rito può essere disposto anche nel caso di contumacia del convenuto, poiché il presupposto che giustifica il passaggio è indipendente dalla costituzione delle parti. Pertanto, la complessità della lite e dell'istruttoria prescinde dalla costituzione del convenuto. Quando il passaggio sia ordinato nella situazione di contumacia della parte convenuta, l'ordinanza di mutamento non deve essere notificata al contumace, atteso che tale fattispecie non ricade tra quelle elencate dall'art. 292 c.p.c. né incide di per sé sugli aspetti sostanziali della lite, avendo una rilevanza meramente interna e strumentale.

Limite temporale

Il passaggio può essere disposto dal giudice nell'udienza di prima trattazione, come è espressamente previsto dalla nuova norma. La cristallizzazione di un frangente temporale determinato per la disposizione della modifica del rito porta con sé due conseguenze in negativo: il cambiamento non può essere ordinato, né successivamente all'udienza di trattazione, né prima che essa sia svolta. Pertanto, può accadere che il mutamento sia ordinato anche quando il giudice rinvii tale udienza per consentire la comparizione delle parti al fine di raccogliere il loro interrogatorio libero in prospettiva conciliativa ex art. 185 c.p.c. All'esito di tale interrogatorio, benché la conciliazione non sia raggiunta, comunque il giudice può trarre ulteriori spunti utili di valutazione per ritenere che la causa possa essere trattata e definita nelle forme del rito sommario. In ogni caso, il passaggio non può essere più disposto, una volta che il giudice abbia concesso i termini di cui all'art. 183, sesto comma, c.p.c., poiché - se così fosse - verrebbe meno l'utilità pratica della disposizione del mutamento: cioè l'accelerazione dei tempi di definizione. Nondimeno, tale passaggio non può essere disposto neanche prima che l'udienza di prima comparizione e trattazione sia tenuta, poiché il giudice, affinché possa disporre alcunché, deve - da un lato - attendere che il contraddittorio tra le parti sia interamente e regolarmente instaurato, eventualmente con la costituzione dei terzi chiamati, e - dall'altro - consentire alle parti l'esercizio delle facoltà regolate dall'art. 183, quinto comma, c.p.c.: a. la precisazione e modificazione delle domande, eccezioni e conclusioni già formulate; b. la proposizione, a cura dell'attore, delle domande e delle eccezioni che siano conseguenza delle domande riconvenzionali e delle eccezioni spiegate dal convenuto e l'eventuale autorizzazione alla chiamata di terzo, la cui esigenza nasca sempre dal tenore delle difese del convenuto. La circostanza che la novella qualifichi l'ordinanza che dispone il mutamento del rito come non impugnabile esclude in radice l'applicazione dell'art. 702-ter, terzo comma, c.p.c., che regola il passaggio dal rito sommario al rito ordinario, sicché il procedimento non può ritornare allo stadio originario successivamente alla disposizione del passaggio al rito sommario. Si tratta di ordinanza interlocutoria che provvede sul rito, quindi priva di efficacia decisoria e non soggetta al ricorso straordinario per cassazione di cui all'art. 111, settimo comma, Cost. La contestazione dell'integrazione dei presupposti per ordinare il cambiamento di rito può semmai riverberarsi sull'impugnazione dell'ordinanza conclusiva del giudizio, in quanto il relativo mutamento abbia provocato il sacrificio del diritto di difesa, specie con riguardo alla formulazione delle richieste istruttorie. L'art. 183-bis c.p.c. richiede che il giudice, anche in ordine alla definizione della questione processuale relativa al mutamento del rito ordinario in rito sommario, osservi il contraddittorio. In questa precisazione si coglie la rilevanza trilatera del contradditorio, posto che il giudice non solo deve garantirne il rispetto, ma deve soggiacervi egli stesso. Si tratta di un'applicazione specifica dell'art. 101, secondo comma, c.p.c., che impone al giudice di sentire le parti e di consentire loro le relative controdeduzioni in ordine alle questioni rilevabili d'ufficio. Il contraddittorio, con precipuo riguardo alla disposizione del mutamento del rito, può attuarsi attraverso l'esposizione orale delle relative deduzioni di parte. Ma il giudice può anche concedere termine per il deposito di memorie scritte. Quanto alla trattazione scritta della questione inerente al mutamento del rito, si ritiene che sia nella discrezionalità del giudice fissare un unico termine per il deposito di note illustrative sull'argomento. Non ha senso, per converso, la fissazione di due termini ristretti in successione per il deposito di memorie e repliche, poiché l'iniziativa è assunta d'ufficio dal giudice e non dalla controparte. E quand'anche il convenuto solleciti il giudice ad esercitare tale potere d'ufficio, a fronte di una questione di mero rito, non ha senso permettere la replica avverso le deduzioni avversarie. Infatti, di regola, il contraddittorio sulla questione dovrebbe avvenire in udienza secondo il principio di oralità. Quando propenda per la trattazione scritta della questione, il giudice può aderire al modello della riserva, previa concessione di termine per note inerenti al punto discusso. In questo caso, l'eventuale ordinanza che dispone il passaggio del rito sarebbe emessa fuori udienza. Ne discende, per un verso, che deve essere comunicata alle parti e, per altro verso, che deve fissare altra udienza di trattazione.

Preclusioni istruttorie conseguenti al mutamento di rito

Di contro, il legislatore si riferisce all'ipotesi in cui l'ordinanza che dispone il passaggio di rito sia emessa in udienza. In questo caso, nella stessa udienza il giudice invita le parti ad indicare, a pena di decadenza, i mezzi di prova, ivi compresi i documenti, di cui intendono avvalersi e la relativa prova contraria. E' chiaramente un'ipotesi estrema, atteso che le parti devono essere pronte nella stessa udienza in cui il giudice opta per il mutamento del rito, e senza che esse abbiano alcuna previa avvisaglia in ordine all'intenzione del giudice di avvalersi di tale facoltà, ad indicare i mezzi di prova costituendi diretti e a depositare documenti e, come se ciò non bastasse, a richiedere altresì contestualmente i mezzi di prova contrari. Sicché il solo fatto che il giudice possa avvalersi di tale facoltà potrebbe consigliare le parti a formulare le rispettive istanze istruttorie e a curare la produzione documentale unitamente alla redazione e al deposito dei rispettivi atti di costituzione. E ciò cautelativamente per evitare possibili spiacevoli sorprese. In questa ipotesi, l'onere ricadente sulle parti nell'udienza in cui è disposto il mutamento del rito si ridurrebbe alla mera indicazione dei mezzi di prova contrari. O addirittura, come è stato sostenuto in dottrina, le rigide preclusioni previste sulla prova in caso di mutamento del rito potrebbero indurre le parti che intendano proporre domanda giudiziale ad instaurare sempre il procedimento nelle forme del rito sommario, anche per dare una prova di forza in ordine alla convinzione della fondatezza delle pretese vantate, cosicché il rischio ben più esiguo che esse corrono sul piano processuale sarebbe limitato alla sola possibilità che il giudice, ritenendo che la causa abbisogni di un'istruttoria non sommaria, disponga il passaggio al rito ordinario. Sul punto, è stato correttamente osservato che la novella così letta non si limita ad introdurre la possibilità che dal rito ordinario possa pervenirsi al rito sommario, ma ha introdotto altresì, seppure in forma surrettizia, nuove significative preclusioni nel processo, peraltro trascurando le difficoltà pratiche che cagiona l'onere dell'indicazione, quantomeno della controprova, in udienza, il che denota scarsa dimestichezza con le concrete modalità di funzionamento del processo, oltre che un aggravio notevole dei tempi e dell'oggetto della verbalizzazione in udienza, mediante scrittura al computer e non più in via cartacea, possibilità difficilmente compatibile con le regole del nuovo processo civile telematico. Ma vi è di più. A rigore, il riconoscimento della facoltà di disporre il mutamento del rito nella causa introdotta nelle forme del procedimento ordinario di cognizione crea un rito assestante, caratterizzato dalla previsione di rigide preclusioni istruttorie, addirittura implicanti la necessità della formulazione di prove e controprove nel corso della stessa udienza in cui avviene il mutamento ed a seguito della sua disposizione. E ciò per assicurare lo svolgimento rapido del giudizio. Infatti, la regola stabilita è quella dell'indicazione contestuale in udienza, costituendo la possibilità di concedere dei termini solo un'eventualità. Viceversa, nelle cause introdotte sin dalla genesi con le forme del procedimento sommario di cognizione le prove dirette devono essere indicate nei rispettivi atti di costituzione mentre la controprova deve essere indicata dall'attore nella prima udienza fissata con il decreto del giudice designato. Segnatamente, l'attore-ricorrente deve riportare nell'atto introduttivo l'indicazione specifica dei mezzi di prova di cui intende avvalersi e, in particolare, dei documenti che offre in comunicazione, in forza del richiamo dell'art. 702-bis, primo comma, all'art. 163, terzo comma, n. 5, c.p.c. Per converso, il convenuto-resistente ha uno spazio temporale di almeno 30 giorni per il deposito della comparsa di risposta in cancelleria, nella quale deve indicare i mezzi di prova di cui intende avvalersi e i documenti che offre in comunicazione nonché la prova contraria a fronte della prova diretta chiesta dall'attore nel ricorso introduttivo, ai sensi dell'art. 702-bis, terzo e quarto comma, c.p.c. A sua volta, l'attore ha un intervallo di almeno 10 giorni per l'individuazione e la formulazione in udienza della controprova. Sicché le preclusioni istruttorie stabilite per il procedimento instaurato sin dalla genesi nelle forme del rito sommario sono meno rigide e i tempi di ricerca e prospettazione dei mezzi istruttori sono più dilatati. Ne discende che la costruzione nei termini anzidetti dell'art. 183-bis c.p.c. implica l'inserimento nel codice di procedura di una sottospecie di rito sommario di cognizione ovvero di un rito sommario sui generis, qualificato dalla previsione di ferree preclusioni, ben più limitative altresì di quelle prescritte nel rito ordinario. Il che è peraltro in controtendenza con l'ispirazione del rito sommario di cognizione nella sua versione originale al principio della libertà delle forme. Sotto questo profilo, le conseguenze che derivano dal mutamento del rito determinano la creazione di un rito che, oltre ad essere speciale, è anche ibrido. Sennonché, la considerazione del rito come un mero protocollo da osservare, nella sola prospettiva di garanzia della ragionevole durata, potrebbe alterare il principio della valenza strumentale del processo al raggiungimento dello scopo della giustizia sostanziale. Durata del processo e giustizia della decisione sono stati sempre valori difficilmente compatibili. Al riguardo, non bisogna dimenticare, benché l'esemplificazione del principio abbia sotto più versi connotati di ovvietà, che - nell'immanenza fisiologica del conflitto tra i due valori - l'esigenza di tutelare l'idea del processo come mezzo per raggiungere la verità prevale sulle altrettanto rilevanti spinte verso la celerità della sua definizione: quality before speed. Ove, per contro, la disposizione del mutamento del rito da ordinario in sommario avvenga con ordinanza emessa a seguito dello scioglimento di riserva specificamente assunta sul punto, le parti hanno quantomeno uno spazio temporale idoneo ad individuare i mezzi di prova costituendi da richiedere e i documenti da depositare, sino all'udienza fissata nell'ordinanza per la prosecuzione del giudizio, udienza in cui dovranno eventualmente indicare le prove contrarie contestualmente alla conoscenza dei mezzi di prova diretta articolati dalle rispettive controparti. Nondimeno, il nuovo art. 183-bis c.p.c. prevede che il giudice, se richiesto, può fissare una nuova udienza, con termine perentorio non superiore a 15 giorni per l'indicazione dei mezzi di prova e produzioni documentali ed ulteriore termine perentorio di 10 giorni per le sole indicazioni di prova contraria. Ne discende che la discrezionalità riservata al giudice dall'art. 183-bis c.p.c. si attua su un duplice piano: per un verso, il giudice può consentire le controdeduzioni in ordine alla questione inerente al cambiamento del rito mediante memoria scritta; per altro verso, può concedere alle parti appositi termini per la formulazione delle prove e controprove, in alternativa all'indicazione in udienza, a pena di decadenza. Siffatta previsione ha alcuni aspetti di affinità con la disposizione dell'art. 183, sesto comma, c.p.c. nel rito ordinario, in cui è previsto che il giudice, su richiesta delle parti, concede i termini di giorni 30 + 30 + 20 rispettivamente per il deposito di memorie assertorie, istruttorie e di replica. Tuttavia, confrontando le due norme, si possono cogliere le seguenti significative differenze: a. i termini concessi sono due e non tre, poiché nessuno spazio è previsto per l'ampliamento del thema decidendum, che eventualmente potrà avvenire solo all'udienza di trattazione, prima che il giudice provveda ai sensi dell'art. 183 bis c.p.c.; b. in presenza della richiesta, anche di una sola delle parti, nel rito ordinario il giudice deve concedere i termini per il deposito delle memorie integrative; per converso, per effetto del passaggio dal rito ordinario al rito sommario, sia che la richiesta provenga da una sola parte, sia che provenga da tutte le parti, il giudice “puòconcedere tali termini, sicché la richiesta delle parti o della parte non è vincolante per il giudice; c. in ultimo, i termini previsti per l'integrazione probatoria sono molto più ristretti, e precisamente sono dimezzati, rispetto ai termini corrispondenti stabiliti nel procedimento ordinario. Tra l'altro, rimettere la concessione dei termini ad una mera facoltà del giudice, e non già ad un obbligo, benché vi sia l'esplicita istanza rivolta dalle parti, implica un netto scostamento, non solo dall'art. 183, sesto comma, c.p.c., ma anche dall'art. 426 c.p.c., norma richiamata anche in tema di passaggio dalla fase monitoria della convalida di licenza o sfratto alla fase a cognizione piena ex art. 667 c.p.c., poiché il mutamento del rito ordinario in rito del lavoro, che è comunque un rito ordinario speciale, importa la necessità di concedere il termine perentorio per l'integrazione degli atti di costituzione mediante deposito di memorie e documenti in cancelleria. A fortiori le rigide barriere stabilite dall'art. 183-bis c.p.c. in ordine alla formulazione delle prove non sono applicabili al procedimento incardinato nelle forme del rito sommario sin dalla sua genesi e tanto perché le preclusioni hanno natura eccezionale rispetto a un garantistico principium libertatis e non sono suscettibili di applicazione analogica. Ora, alla luce del quadro descritto e del fine di accelerazione che la nuova previsione si prefigge, deve ritenersi che, qualora il giudice opti per il mutamento del rito con ordinanza emessa fuori udienza, per effetto di assunzione in riserva della questione, d'ufficio può concedere i termini di giorni 15 + 10 per le integrazioni istruttorie già nel corpo della medesima ordinanza, con maturazione delle relative scadenze in data anteriore alla nuova udienza fissata per la prosecuzione. E ciò allo scopo di semplificare e ridurre i tempi di svolgimento. Comunque, il giudice non può disconoscere il diritto alla formulazione delle prove dirette e contrarie. Può negare la concessione dei termini perentori per la formulazione, ma non può escludere che le parti avanzino la richiesta dei mezzi istruttori nel corpo della stessa udienza di trattazione in cui è ordinato il passaggio dal rito ordinario al rito sommario. Ove negasse anche tale possibilità, l'ordinanza conclusiva sarebbe nulla per palese violazione del principio del contraddittorio e, dunque, potrebbe essere impugnata sotto tale profilo. Questione diversa è quella del rigetto delle prove articolate, con succinta motivazione di inammissibilità o irrilevanza, all'esito della loro formulazione.

Prosecuzione del procedimento

Dal momento in cui il giudice dispone il passaggio di rito, con o senza i termini per l'integrazione del solo thema probandum, il processo prosegue secondo le regole proprie del rito sommario di cognizione. È quindi destinato a concludersi con un provvedimento decisorio avente la forma di ordinanza. Quanto agli effetti del passaggio, genericamente la nuova norma prevede che il giudice proceda ai sensi dell'art. 702-ter c.p.c. Il richiamo integrale alla disposizione in tema di procedimento sommario di cognizione è in realtà impreciso. Infatti, il secondo comma di tale norma, che dispone la declaratoria di inammissibilità della domanda proposta nelle forme del rito sommario, quando la causa rientri nella competenza del tribunale collegiale, non si applica al caso in cui sia il giudice della causa di spettanza monocratica ad ordinare il mutamento del rito ordinario in sommario. Anche il terzo comma, per le ragioni innanzi esposte, non può trovare applicazione, sicché, una volta che il giudice abbia ordinato il passaggio dal rito ordinario al rito sommario, la causa non può più tornare all'originario rito ordinario. Anche il quarto comma non si adatta alla fattispecie. In proposito, è stato già chiarito che il passaggio dal rito ordinario al rito sommario postula una valutazione globale sull'opportunità del mutamento, con la conseguenza che la complessa definizione di alcune delle domande preclude in radice il passaggio e non consente alcuna separazione. Troveranno, di contro, applicazione: a. il primo comma, che consente di dichiarare l'incompetenza per territorio o per materia o per valore con provvedimento avente la forma di ordinanza; b. il quinto comma, che consente al giudice, per effetto del disposto mutamento, di procedere in modo deformalizzato, omettendo ogni formalità non essenziale al contraddittorio, provvedendo all'eventuale ammissione e all'assunzione dei mezzi istruttori reputati rilevanti in relazione all'oggetto del provvedimento decisorio auspicato dalle parti e, infine, provvedendo con ordinanza all'accoglimento o al rigetto delle domande; c. il sesto comma, che attribuisce all'ordinanza che definisce il giudizio la natura di titolo provvisoriamente esecutivo, purché si tratti di pronuncia di condanna, nonché idoneo per l'iscrizione di ipoteca giudiziale e per la trascrizione; d. il settimo comma, che riconosce all'ordinanza la veste di provvedimento conclusivo del giudizio, che deve provvedere sulle spese e compensi di lite, in applicazione del principio di soccombenza ex art. 91 c.p.c. Anche l'eventuale appello interposto avverso l'ordinanza conclusiva seguirà il regime normativo regolato dall'art. 702-quater c.p.c.

In conclusione

Nelle cause in cui il tribunale giudica in composizione monocratica in primo grado, il giudice può disporre il mutamento del rito ordinario con cui è stata introdotta la controversia in rito sommario di cognizione. Tale facoltà può essere esercitata dal giudice all'udienza di trattazione, sulla scorta della previa valutazione della complessità della lite e dell'attività probatoria all'uopo richiesta. Prima di disporre il mutamento del rito il giudice deve consentire alle parti di dedurre sul punto, eventualmente mediante trattazione scritta, nel rispetto del principio del contraddittorio che ha valenza trilatera. Qualora il giudice disponga il mutamento del rito, inviterà le parti ad indicare, nello stesso processo verbale di udienza in cui è stato ordinato il mutamento, a pena di decadenza, i mezzi di prova di cui intendono avvalersi, ivi compresi i documenti, e la relativa prova contraria. Per converso, ove sia richiesto dalle parti o da una di esse, il giudice può fissare una nuova udienza ed assegnare alle parti termine perentorio non superiore a quindici giorni per l'indicazione dei mezzi di prova e per produzioni documentali ed ulteriore termine perentorio di dieci giorni per le sole indicazioni di prova contraria. All'esito, il procedimento si svolgerà secondo le regole del rito sommario di cognizione, con un'attività deformalizzata, e si concluderà con la pronuncia di un provvedimento avente la forma di ordinanza. Anche l'appello dell'ordinanza conclusiva soggiacerà alla disciplina prevista per l'impugnazione avverso il provvedimento che definisce il procedimento sommario. La norma che regola il passaggio dal rito ordinario al rito sommario si applicherà ai procedimenti instaurati a decorrere dall'11 dicembre 2014.

Guida all'approfondimento

In dottrina sul tema:

  • Ansanelli, Flessibilità, proporzionalità ed efficienza. Il nuovo art. 183-bis c.p.c., in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2015, 339;
  • Basilico, Art. 183 bis: passaggio dal rito ordinario al rito sommario di cognizione, in Giur. it., 2015, 1749;
  • Briguglio, Nuovi ritocchi in vista per il processo civile: mini-riforma ad iniziativa governativa, con promessa di fare (si confida su altri e più utili versanti) sul serio, in www.giustiziacivile.com, 15 settembre 2014;
  • Consolo, Un d.l. processuale in bianco e nerofumo sullo equivoco della “degiurisdizionalizzazione”, in Corr. giur., 2014, 10, 1176;
  • Costantino, Prevedibilità delle decisioni, in La trasparenza nel processo civile, in www.cnpds.it, 5 febbraio 2015;
  • D'Agosto - Criscuolo, Prime note sulle misure urgenti di degiurisdizionalizzazione e altri interventi per la definizione dell'arretrato in materia di processo civile, in www.ilcaso.it, 2014;
  • Della Vedova, Alcune riflessioni intorno all'art. 183 bis del codice di rito civile ed al giudizio sommario di cognizione, in www.jucidium.it, 20 aprile 2015;
  • Finocchiaro, Il giudice può disporre il passaggio al rito sommario, in Guida al dir., 2014, 40, XXV;
  • Martino, Conversione del rito ordinario in sommario e processo semplificato di cognizione, in Giur. it., 2015, 916;
  • Mastrangelo, Passaggio dal rito ordinario al rito sommario di cognizione, in Misure urgenti per la funzionalità e l'efficienza della giustizia civile, (a cura di) Dalfino, Torino, 2015, 109;
  • Scarcella, Riforma giustizia civile: dalla semplificazione di separazione e divorzio al processo civile di cognizione, in www.quotidianogiuridico.it, 30 settembre 2014;
  • Scarselli, Il nuovo art. 183-bis c.p.c., VII, in Degiurisdizionalizzazione e altri interventi per la definizione dell'arretrato, Aa.Vv., Torino, 2015, 87;
  • Tedoldi, Processo civile di cognizione: le novità del d.l. giustizia civile, in www.quotidianogiuridico.it, 24 ottobre 2014;
  • Tedoldi, La conversione del rito ordinario nel rito sommario ad nutum iudicis (art. 183 bis c.p.c.), in Riv. dir. proc., 2015, 490;
  • Valerini, Il potenziamento del rito sommario di cognizione, 2, Le altre misure per la funzionalità del processo civile di cognizione, IV, in Processo civile efficiente e riduzione arretrato, (a cura di) Luiso, Torino, 2014, 47.

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