La giustizia amministrativa sdogana la mediazione contumaciale?
12 Aprile 2017
Massima
Sono illegittimi i regolamenti degli organismi di mediazione che impediscono al mediatore di predisporre ipotesi di accordo laddove una delle parti non abbia partecipato o aderito alla procedura. Il caso
Una parte esperiva un tentativo di mediazione con una Asl, dinanzi ad un Organismo di mediazione di una Camera di Commercio, nel corso della quale il procuratore speciale di quest'ultima dichiarava di non voler proseguire in tale procedura conciliativa e, quindi, il mediatore si limitava a dichiarare l'esito negativo del procedimento. La stessa parte, quindi, impugnava quindi il regolamento di mediazione del servizio di conciliazione della Camera di Commercio, nella parte in cui all'articolo 7 comma 4 prevede che “Nel caso in cui le parti decidano, nel corso del primo incontro, di non proseguire, il procedimento si conclude con un verbale di mancato accordo sulla prosecuzione del procedimento. In detto verbale si dà atto unicamente delle presenze e della volontà di proseguire con il tentativo di mediazione”; e all'articolo 8 comma 2 prevede che “In caso di mancata adesione o partecipazione alla procedura di mediazione di una delle parti il mediatore non può formulare la proposta”. La questione
La ricorrente lamentava, quindi, il contrasto del citato regolamento con la disposizione di cui all'art. 11 comma 1 del d.lgs. n. 28 del 2010, secondo cui “Se è raggiunto un accordo amichevole, il mediatore forma processo verbale al quale è allegato il testo dell'accordo medesimo. Quando l'accordo non è raggiunto, il mediatore può formulare una proposta di conciliazione. In ogni caso, il mediatore formula una proposta di conciliazione se le parti gliene fanno concorde richiesta in qualunque momento del procedimento. Prima della formulazione della proposta, il mediatore informa le parti delle possibili conseguenze di cui all'articolo 13”. La soluzione giuridica
Il mediatore è legittimato a formulare la proposta conciliativa ogniqualvolta l'accordo amichevole non sia stato spontaneamente stipulato dalle parti, anche laddove una di esse, durante il primo incontro, abbia asserito l'impossibilità di iniziare la procedura di mediazione e, dunque, abbia disertato le successive sessioni. Osservazioni
In quali contesti ed in presenza di quali presupposti il mediatore è legittimato ad indirizzare ai litiganti delle proposte conciliative? L'interrogativo non è stato affrontato, se non in maniera assolutamente marginale, nei provvedimenti resi dai nostri Giudici, che, nelle poche decisioni in materia, si sono limitati ad affermare, ad esempio, che la mediazione delegata dal Giudice non può considerarsi correttamente esperita (e, quindi, la condizione di procedibilità della domanda giudiziale non può reputarsi integrarsi) qualora il mediatore non abbia verbalizzato le ragioni per cui le parti hanno abbandonato il tavolo delle trattative, né si sia peritato di redigere una proposta aggiudicativa (ord. Trib. Vasto, Giudice Dott. Fabrizio Pasquale, 15 giugno 2016). In questo contesto di scarso interesse giurisprudenziale per la problematica in questione, si distingue il recente opinamento reso dalla prima sezione del T.A.R. Abruzzo che, con sentenza n. 98 del 24 febbraio 2017 depositata il 17.03.2017, (estensore Dott. Massimiliano Balloriani), ha annullato il regolamento del servizio di mediazione erogato di una Camera di Commercio, nella parte in cui vietava al mediatore di avanzare proposte conciliative nell'ipotesi in cui una delle parti non partecipasse o non aderisse al procedimento di mediazione. Più precisamente, è stata dichiarata affetta da violazione di legge la clausola di cui all'art. 8, 2° comma, del predetto regolamento, che stabiliva quanto segue: “in caso di mancata adesione o partecipazione alla procedura di mediazione di una delle parti il mediatore non può formulare la proposta”. Tale disposizione, ad avviso dei giudici amministrativi, si sarebbe posta in contrasto con l'art. 11, 1° comma, del D.Lgs. 4 marzo 2010, n° 28, che così recita: “quando l'accordo non è concluso, il mediatore può formulare una proposta di conciliazione”. La formulazione letterale della norma di legge, sempre secondo la sentenza in esame, evidenzierebbe inequivocabilmente il potere del mediatore di elaborare proposte conciliative senza aver preventivamente acquisito il consenso delle parti e, pertanto, anche qualora sia soltanto una di esse a richiedere il compimento di tale attività. Anzi, a fronte di un'istanza di parte, il mediatore non sarebbe soltanto legittimato, ma addirittura obbligato, a predisporre la proposta conciliativa. Siffatta conclusione, suscettibile di essere direttamente ricavata dal tenore testuale della legge, troverebbe ulteriore conferma nella “funzione attiva e deflattiva della mediazione, non limitata, cioè, ad una mera ricognizione dell'attività delle parti”, che permetterebbe al mediatore di svolgere l'attività di facilitazione anche su impulso di una sola delle parti e, perciò, anche quando l'altra sia assente o abbia smesso di partecipare agli incontri. Chiosa, infine, il Giudice amministrativo che sarebbe chiaro l'interesse della parte più diligente a partecipare a – ed a provocare l'esperimento di – un valido procedimento di mediazione, sì da poter, in caso di fallimento del tentativo di conciliazione, esperire l'azione giudiziale. Sia consentito esprimere un rispettoso, ma pur doveroso, dissenso rispetto alla decisione in commento e, soprattutto, al ventaglio di argomentazioni poste a suo corredo. A questo proposito, è doveroso rilevare, innanzitutto, come il Tar abruzzese abbia ignorato (o, comunque, reputato ininfluente), la regola contenuta nell'art. 8, 1° comma, 5° periodo, del D.Lgs. n° 28/2010, la quale stabilisce che il mediatore, dopo aver assolto i propri doveri informativi, “invita poi le parti e i loro avvocati a esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso positivo, procede con lo svolgimento”. L'articolazione della proposizione normativa rende palese, specialmente alla stregua di una valutazione strettamente letterale, come lo svolgimento della mediazione sia condizionato all'espressione, ad opera delle parti e dei loro avvocati, di un parere positivo in ordine alla possibilità di iniziare il procedimento. Se così non fosse, la locuzione “nel caso positivo” rimarrebbe priva di qualunque significato logico, anzi si trasformerebbe in un corpo estraneo al periodo ed alla sua dinamica. Non depone in senso contrario l'art. 11, 1° comma, 2° periodo, del D.Lgs. n° 28/2010, cioè la norma che ii Giudici abruzzesi hanno valorizzato, forse in misura eccessiva, per sostenere il potere del mediatore (che, invero, si trasforma in un dovere, in presenza di un'istanza di parte) di rendere proposte conciliative nei procedimenti disertati o abbandonati da una delle parti. La norma richiamata dal T.A.R. Abruzzo, infatti, è inserita nel contesto di un articolo eloquentemente denominato “conciliazione”, la quale presuppone, appunto, che vi sia stato un confronto d'interessi o, quantomeno, uno scambio di vedute fra le parti, ovviamente non configurabili nell'ipotesi in cui uno dei contendenti non abbia partecipato al procedimento. Non sembra casuale, d'altronde, che tale norma, specificamente dedicata ai tentativi di conciliazione, sia stata inserita successivamente all'art. 8, che, invece, abbraccia anche le ipotesi in cui uno dei contendenti, pur presenziando materialmente al primo incontro, si sia dimostrato refrattario a qualunque accordo e si sia limitato a dichiarare l'impossibilità di iniziare la procedura: il legislatore ha regolato, dapprima, gli incombenti destinati all'informazione delle parti ed alla verifica in merita all'eventuale sussistenza di margini transattivi e, successivamente, le attività da compiersi laddove tale sindacato preliminare abbia esito affermativo. In altre parole, l'art. 11, 1° comma, 2° periodo, del D.Lgs. n° 28/2010, per collocazione topografica e per ragioni sistematiche, pare riferirsi ai soli casi in cui i negoziati, pur fattivamente introdotti e sviluppati dalle parti, si siano venuti a trovare in una situazione di stallo, tale da giustificare l'intervento facilitativo del mediatore. Le perplessità in ordine alle tesi giuridiche esposte nella decisione in parola sono destinate ad accrescersi ove si consideri la forte difficoltà di immaginare che, nell'ambito di un procedimento conciliativo, talune attività possano compiersi nei confronti o, addirittura, a beneficio di una parte che si sia volontariamente collocata in una posizione sostanzialmente assimilabile alla contumacia. Infatti, se il processo, essendo orientato all'enunciazione di una regola di diritto, può agevolmente celebrarsi anche laddove una delle parti non vi partecipi, è piuttosto arduo immaginare come un procedimento di conciliazione, naturalmente proteso alla stipulazione di un atto di autonomia privata, possa giungere alla sua naturale conclusione (o, comunque, risultare utile), nonostante uno dei potenziali contraenti vi sia rimasto estraneo. Non si capisce, d'altra parte, come possa il mediatore, dopo aver ascoltato una sola delle parti, realizzare una proposta conciliativa capace di riscuotere anche il consenso dell'altra, se non trasformando arbitrariamente tale attività in una sorta di anticipazione della sentenza, che il D.Lgs. n. 28/2010 si preoccupa meticolosamente di escludere (negando, per esempio, all'art. 1, lett. b), che il mediatore possa “rendere giudizi o decisioni vincolanti per i destinatari del servizio medesimo”). Né sembra potersi affermare che, pure nella contumacia di una delle parti, l'antagonista abbia interesse alla coltivazione del procedimento al fine di rendere procedibile l'azione giudiziale. Tale argomentazione (che, comunque, potrebbe valere, al limite, per le sole ipotesi di mediazione obbligatoria, senza poter estendersi alle fattispecie di mediazione elettiva) muove dall'erroneo presupposto secondo cui la condizione di procedibilità si avveri soltanto qualora entrambi i contendenti abbiano affrontato la procedura conciliativa in maniera seria ed effettiva. Ma, a ben vedere, affinché la domanda giudiziale sia procedibile, è sufficiente che chi la proponga abbia adeguatamente esperito il procedimento di mediazione. A voler diversamente opinare, infatti, si violerebbe il fondamentale principio giuridico (ma, prima ancora, logico) secondo cui l'inerzia o la negligenza di una delle parti non può ritorcersi a danno dell'altra. Né può ipotizzarsi che la trasmissione alla parte assente della proposta conciliativa possa risultare utile, poiché, se corrispondente o prossima al contenuto della sentenza, potrebbe comunque incidere sulla distribuzione delle spese processuali nel successivo giudizio, ai sensi dell'art. 13, D.Lgs. n. 28/2010. Infatti, secondo quanto disposto da tale norma, è soltanto l'ingiustificato rifiuto della proposta aggiudicativa (che richiede inequivocabilmente il consenso di tutte le parti coinvolte) a poter comportare la deroga al principio della soccombenza, essendo ininfluente, quantomeno a tale fine, l'immotivata rigetto della proposta facilitativa (a cui si riferisce la decisione in disamina). Da un'altra prospettiva, ben può dirsi che l'offerta conciliativa indirizzata alla parte latitante non può neppure assolvere al fine (invero piuttosto marginale) di sanzionare con la condanna alle spese di lite colui che l'abbia irrazionalmente declinata, se è vero che, affinché un simile effetto possa prodursi, è necessario che la proposta sia stata formulata con l'assenso di tutti i contendenti. Non si comprende, in estrema sintesi, quale sia il bene giuridico che, anche sulla base di una valutazione puramente astratta ed emancipata dalla lettera del D.Lgs. n. 28/2010, possa essere favorito dall'interpretazione suggerita dal T.A.R. abruzzese, essendo di difficile individuazione persino il vantaggio che la parte presente alla mediazione potrebbe trarre dalla spedizione all'assente della proposta conciliativa formulata dal mediatore inaudita altera parte. Tanto più che la sola immotivata diserzione della procedura ad opera di una delle parti invitate, anche se singolarmente apprezzata, permette all'altra di trarne dei benefici processuali, come, ad esempio, la desunzione di argomenti di prova, ex art. 116 c.p.c. ed art. 8, D.Lgs. n° 28/2010. Non sembra potersi prospettare, pertanto, un diritto soggettivo perfetto (ma neppure un interesse occasionalmente protetto) del consociato a conseguire, in ogni caso (e, dunque, anche contro la volontà dell'antagonista), una proposta conciliativa di carattere facilitativo, quantomeno sino a che non si dimostri, in maniera chiara, quale vantaggio esso possa ricavarne. In definitiva, la sentenza amministrativa quivi analizzata, pur presentata quale apparente tentativo di salvaguardare i diritti degli utenti da regolamenti di mediazione indebitamente restrittivi, rischia di tradursi in un irragionevole ictus ai fondamentali principi di libertà e di negozialità che governano il procedimento di mediazione e che inducono a comprimere ai soli casi tassativamente indicati dalla legge gli interventi del mediatore non corroborati dal consenso di tutte le parti interessate. |