L’ordine di liberazione “auto-esecutivo”: il novellato art. 560 c.p.c.

12 Luglio 2016

La recente riforma dell'art. 560 c.p.c., senza incidere sui presupposti per l'emissione dell'ordine di liberazione e sulla sua obbligatorietà, sottrae l'esecuzione del provvedimento alle forme dell'esecuzione in forma specifica e prevede una sua attuazione “endoesecutiva” direttamente da parte del custode giudiziario, secondo le disposizioni e sotto il controllo del giudice dell'espropriazione immobiliare.Nella nota, dato atto della funzione riconosciuta all'ordine di liberazione dalle “prassi virtuose” e dalla giurisprudenza, si esamina la novità legislativa, sia in relazione alla sua rispondenza agli obiettivi di efficienza, efficacia e rapidità del processo esecutivo, sia con riguardo alle garanzie del debitore e del terzo occupante.
L'ordine di liberazione nella previgente disciplina

Uno dei principali motivi che in passato ha determinato (e tuttora a volte determina) l'inefficienza delle procedure esecutive e la netta (e nociva) separazione tra il mercato delle alienazioni forzate dal normale mercato immobiliare è costituito dall'incertezza sui tempi e sui costi della liberazione del cespite pignorato, incertezza che comporta un potente disincentivo alla partecipazione alle vendite giudiziarie.

Già prima della modifica legislativa del 2006 alcune prassi giurisprudenziali (definite in dottrina “virtuose”) avevano valorizzato la figura del custode e previsto, come elemento fondamentale per perseguire obiettivi di efficienza, la liberazione del bene pignorato mediante un autonomo provvedimento diverso dal decreto di trasferimento (la cui natura di titolo esecutivo per far conseguire all'aggiudicatario l'effettivo possesso e godimento dell'immobile non era affatto idonea a scongiurare le esitazioni dei potenziali interessati all'acquisto).

Allora, la liberazione costituiva l'effetto dell'ordinanza di surroga nella custodia, atto dotato di intrinseca esecutività secondo un risalente precedente di legittimità (Cass., 31 marzo 1949, n. 744): in conseguenza della sua sostituzione il debitore, custode ex lege, era tenuto al rilascio dell'immobile in favore del custode designato dal giudice dell'esecuzione, il quale poteva ottenere la res da custodire “nelle vie brevi”, direttamente con l'assistenza della forza pubblica (art. 68 c.p.c.) e senza il tramite dell'ufficiale giudiziario; l'efficacia dell'ordinanza di surroga era, però, limitata al debitore (e a eventuali altri soggetti che con l'esecutato occupassero l'immobile), non potendosi estendere ultra partes gli effetti di un provvedimento di gestione della procedura esecutiva.

Dall'1 marzo 2006 il quadro normativo è stato significativamente modificato sia per il tenore letterale di nuove disposizioni, sia per la ratio sottesa alla riforma: non solo è espressamente previsto l'ordine di liberazione (art. 560 c.p.c.), che prima veniva elaborato in via interpretativa, ma è anche stabilito il dovere del giudice di emetterlo in ogni caso e, al più tardi, al termine della fase liquidativa (cioè, al momento dell'aggiudicazione); l'interesse dell'acquirente a che l'immobile gli sia consegnato dal custode libero da persone e cose è tutelato a tal punto che, qualora non siano ancora esaurite le operazioni di liberazione all'atto dell'emissione del decreto di trasferimento, il custode è comunque tenuto a proseguirle successivamente; l'efficacia dell'ordine è quella propria dei titoli esecutivi per rilascio e, dunque, è idonea ad estendersi anche ultra partes nei confronti di tutti coloro che non possano vantare un titolo di detenzione autonomo.

Sotto il profilo della ratio legis, il potere-dovere del giudice dell'esecuzione di adottare l'ordine di liberazione è stato correttamente ricondotto allo scopo di realizzare un processo esecutivo effettivo ed efficace: la più recente giurisprudenza di legittimità esplicitamente afferma che il provvedimento del giudice ex art. 560 c.p.c. «è espressione dei suoi compiti di gestione del processo ed è funzionale alla realizzazione dello scopo del processo, che è quello della soddisfazione dei crediti del procedente e degli intervenuti mediante la vendita del bene pignorato. L'esercizio di tale potere comporta il contemperamento dell'interesse del debitore a continuare ad abitare l'immobile con le ulteriori esigenze del processo, onde garantire l'effettività dell'azione giurisdizionale esecutiva, perseguita dall'innovazione legislativa dell'ordine di liberazione obbligatorio» (Cass., 3 aprile 2015, n. 6836); inoltre, la «maggiore proficuità possibile quale derivante – per nozioni di comune esperienza – dall'effettiva liberazione dell'immobile» costituisce argomento impiegato dalla Suprema Corte per ribattere alle censure sull'opportunità del provvedimento di liberazione svolte anche con «la presentazione del carattere paradossale della necessità di liberare tutti gli immobili staggiti in ogni parte d'Italia, la quale invece è proprio l'effetto voluto chiaramente dalla riforma del 2005/06», come corollario «del principio … generale della necessaria effettività dell'azione giurisdizionale esecutiva, indispensabile per lo stesso corretto funzionamento delle istituzioni, sul quale si basa l'innovazione legislativa dell'ordine di liberazione obbligatorio”(Cass., 3 novembre 2011, n. 22747).

Espressamente (e non più in via interpretativa), l'art. 560, comma 4, c.p.c., attribuiva al provvedimento del giudice dell'esecuzione forza esecutiva e la natura di titolo esecutivo per il rilascio (ex art. 474, comma 2, n. 1), c.p.c.).

Al custode giudiziario la norma assegnava il compito di curare l'esecuzione dell'ordine di liberazione e, cioè, di intraprendere una procedura per rilascio ex artt. 605 ss. c.p.c. per tramite dell'organo ausiliario deputato a dare esecuzione agli ordini del giudice, facendola precedere dalla notifica del titolo esecutivo (munito di formula esecutiva) e del precetto e, successivamente, dell'avviso di sloggio (ex art. 608 c.p.c.).

La maggior parte degli interpreti ha ritenuto, perciò, che non fosse più praticabile la via – pur prospettata in giurisprudenza (Trib. Salerno, 2 novembre 2004) – dell'ordine di liberazione “autoesecutivo”, da porre in esecuzione senza il ministero dell'ufficiale giudiziario e con le forme dell'autotutela.

Nel regime normativo anteriore alle modifiche apportate dal decreto legge 3 maggio 2016, n. 59, convertito dalla legge 30 giugno 2016, n. 119, l'esecuzione dell'ordine di liberazione mediante la procedura prevista dagli artt. 605 ss. c.p.c. comportava l'insorgenza di un procedimento esecutivo per rilascio, scaturito “per gemmazione” da una espropriazione immobiliare; il raddoppio delle procedure esecutive (e dei costi delle medesime) e l'affidamento dell'esecuzione del provvedimento di rilascio a un soggetto (l'ufficiale giudiziario) diverso da quello incaricato della liquidazione immobiliare e non direttamente subordinato al giudice dell'espropriazione immobiliare impedivano un controllo giurisdizionale sui tempi della liberazione e sul suo svolgimento; peraltro, si rilevavano (purtroppo, non infrequentemente) situazioni in cui alcuni ufficiali giudiziari adducevano ostacoli all'esecuzione dell'ordine giudiziale ergendosi ad arbitri della sua attuazione, così fraintendendo il proprio ruolo nell'ordinamento e i poteri loro affidati (i quali sono volti ad eseguire coattivamente i provvedimenti dell'autorità giudiziaria e non a evitare che ciò accada).

La riforma dell'art. 560 c.p.c.

Nel deliberato intento di migliorare l'efficacia delle procedure esecutive (esaltando gli istituti che meglio hanno favorito le vendite giudiziarie) la riforma del 2016 modifica l'art. 560 c.p.c., senza incidere sui presupposti della sua emissione, né anticipando obbligatoriamente quest'ultima al momento dell'ordinanza di vendita (soluzione adottata dalle prassi “virtuose”), bensì eliminando i difetti (sopra descritti) insiti nell'avvio di un'autonoma procedura per rilascio.

Semplificando il barocco meccanismo che vedeva il custode creditore di una prestazione di rilascio fatta valere in executivis, il novellato art. 560, comma 4, c.p.c. prevede che l'ordine di liberazione sia «attuato dal custode secondo le disposizioni del giudice dell'esecuzione immobiliare, senza l'osservanza delle formalità di cui agli articoli 605 e seguenti» e che lo stesso giudice possa attribuire al custode, per l'attuazione della liberazione, il supporto della forza pubblica o di altri ausiliari.

È significativo che il legislatore abbia precisato che il custode non deve più “eseguire” l'ordine di liberazione (il che avrebbe, appunto, comportato l'avvio di una procedura esecutiva ex artt. 605 ss. c.p.c., strada esplicitamente esclusa), bensì “attuare” il medesimo “secondo le disposizioni del giudice”, trattandosi di un chiaro riferimento all'attuazione delle misure cautelari ex art. 669-duodecies c.p.c. che avviene sotto il controllo del giudice della cautela (sulla distinzione tra “attuazione” ed “esecuzione”: Cass., 12 marzo 2008, n. 6621; Cass., 30 marzo 2007, n. 7922; Cass., 12 gennaio 2006, n. 407).

Il dominus dell'attuazione è il custode, tenuto ad operare in conformità alle istruzioni del giudice dell'esecuzione, ma anche in sinergia con questo.

La voluntas legis è chiara nel sottrarre agli ufficiali giudiziari i compiti di conseguire la liberazione dell'immobile attribuendoli al custode giudiziario.

In proposito, non possono manifestarsi ragionevoli perplessità sulla correttezza della scelta del legislatore (sollevate, invece, dagli ufficiali giudiziari nel corso dei lavori preparatori) adducendo dubbi sull'idoneità del custode giudiziario a dare attuazione al comando giudiziale, sia perché lo stesso agisce “secondo le disposizioni del giudice dell'esecuzione immobiliare”, sia perché opera con le garanzie di imparzialità e terzietà che caratterizzano gli ausiliari di giustizia; infatti, il custode “esercita una pubblica funzione” (Cass., 15 maggio 1971, n. 1406) e, segnatamente la “funzione pubblicistica dell'amministrazione dei beni pignorati” (Cass., Sez. Un., 16 maggio 2013, n. 11830), “è un ausiliario di giustizia che partecipa delle funzioni e dei poteri propri dell'organo giudiziario che presiede all'esecuzione forzata” (Cass., 31 marzo 1958, n. 1099; nello stesso senso, Cass., 21 agosto 1985, n. 4464) ed è “organo pubblico della procedura esecutiva, per raggiungere le finalità di conservazione e amministrazione e assicurare il buon esito dell'esecuzione con la vendita dei beni” (Cass., 16 gennaio 2013, n. 924).

Scompare nel testo riformato l'attribuzione all'ordine di liberazione della qualità di titolo esecutivo; la soluzione, coerente con l'eliminazione della conseguente procedura esecutiva per rilascio, non consente certo di affermare che il provvedimento sia stato privato di esecutività, dato che la novellata disposizione fa esplicito riferimento alla sua attuazione: molto più semplicemente, il provvedimento torna ad essere “autoesecutivo” – e, cioè, concretizzato in seno alla procedura esecutiva immobiliare a cura dell'ausiliario che in questa opera – in parte recuperando l'orientamento sviluppato dalle “prassi virtuose” anteriormente alla riforma del 2006 e in parte superandolo, posto che è espressamente prevista l'efficacia dell'ordine anche nei confronti dei terzi.

Il procedimento di liberazione deformalizzato

Il novellato art. 560 c.p.c. non disciplina le modalità di attuazione del rilascio, limitandosi a demandare alle disposizioni del giudice dell'esecuzione le regole del suo svolgimento e ad escludere il ricorso alle forme degli artt. 605 ss. c.p.c.

La discrezionalità del giudice dell'esecuzione è molto ampia: potranno certamente darsi istruzioni generali e preventive al custode circa il numero degli accessi, la loro frequenza e il termine entro cui compiere l'attività; tuttavia, in relazione alle caratteristiche della singola procedura e alle esigenze di collocazione del bene sul mercato, potranno insorgere esigenze diverse e altrettante richieste provenienti dall'ausiliario (è evidente, infatti, che liberare un cespite già abbandonato dai suoi occupanti non comporta le stesse difficoltà che attengono ad un rilascio di un immobile abitato da minori o da anziani o da disabili; parimenti, plurimi esperimenti di vendita non andati a buon fine a causa dello stato di occupazione del cespite impongono una solerte liberazione).

Spetterà dunque al custode investire il giudice con una specifica richiesta che, illustrate le concrete circostanze, miri ad ottenere una “liberazione individualizzata”; competerà al giudice dell'esecuzione dettare al custode un “cronoprogramma” per addivenire entro tempi certi al rilascio del cespite e munirlo degli ulteriori ausiliari che si rendano necessari a tale scopo (a titolo di esempio, un fabbro per forzare le serrature, un medico legale per accertare la trasportabilità degli occupanti, i servizi sociali per l'assunzione delle determinazioni – anche ex art. 403 c.c. – relative ai minori ... fermo restando che non compete alla giurisdizione risolvere le problematiche abitative dei soggetti da escomiare).

Il procedimento di liberazione “deformalizzato” corrisponde a esigenze di efficienza e di efficacia del processo esecutivo e comporta che per ciascuna procedura sia ideato e realizzato un sistema di liberazione idoneo a perseguire le menzionate finalità: di conseguenza, sarebbe incongruo e asistematico – oltre che controproducente – reintrodurre surrettiziamente un meccanismo scandito dalle disposizioni degli artt. 605 ss. c.p.c. (che il legislatore ha evidentemente voluto escludere: «senza l'osservanza delle formalità di cui agli articoli 605 e seguenti») ricorrendo alla “comoda scappatoia” di designare quale ausiliario del custode proprio l'ufficiale giudiziario affinché proceda secondo le forme tradizionali (che non hanno certo dato buona prova).

Costituirà probabilmente uno scoglio – difficile da superare, ma non insormontabile – l'impiego della forza pubblica. Difatti, nell'esperienza dei rilasci condotti dagli ufficiali giudiziari, una parte dei gravi ritardi accumulati è sicuramente imputabile alla mancata partecipazione degli agenti di polizia, ad un ingiustificato self-restraint nell'uso della forza per vincere le resistenze degli occupanti riottosi e, in alcuni casi “patologici”, a rinvii disposti dalla stessa forza pubblica (sic!).

L'atteggiamento ora descritto è certamente contrario ai principi di uno Stato di diritto, come più volte ha riconosciuto la giurisprudenza nazionale e sovranazionale.

L'assistenza della forza pubblica in fase esecutiva costituisce, infatti, collaborazione all'esecuzione forzata ed essendo ausiliaria e strumentale rispetto al provvedimento giurisdizionale (in proposito, Corte Cost. 24 luglio 1998, n. 321) mira «all'attuazione delle decisioni giudiziarie definitive e/o vincolanti che, in uno Stato che rispetta la preminenza del diritto, non possono restare inoperanti a detrimento di una parte» (Corte EDU 11 luglio 2002); la facoltà di avvalersi dell'ausilio della forza pubblica impone «la prestazione di mezzi per l'attuazione del diritto sancito dal titolo esecutivo, onde dare attuazione alla funzione sovrana della giurisdizione» (Cass., Sez. Un., 26 giugno 1996, n. 5894) e «l'autorità amministrativa richiesta di concorrere con la forza pubblica all'esecuzione del comando contenuto nel titolo esecutivo ha il dovere di prestare i mezzi per l'attuazione in concreto dello stesso onde realizzare il fine ultimo della funzione sovrana della giurisdizione … Si toglierebbe altrimenti vigore alla protezione giurisdizionale garantita al cittadino e tutta l'attività giurisdizionale risulterebbe sostanzialmente vanificata e, in definitiva, lo Stato negherebbe se stesso come ordinamento … L'interesse del singolo [è] coattivamente soddisfatto in sede esecutiva con la forza che solo lo Stato è autorizzato a dispiegare; ovviamente predisponendo mezzi adeguati alla bisogna. L'apprestamento di tali mezzi da parte della pubblica amministrazione è, pertanto, assolutamente doveroso» (Cass., 26 febbraio 2004, n. 3873).

Solo l'assoluta impossibilità (forza maggiore) di prestare assistenza può giustificare un (temporaneo) diniego da parte delle Autorità, a fronte di una legittima richiesta da parte del giudice o dei suoi ausiliari: sussiste, difatti, «un diritto soggettivo ad ottenere dall'amministrazione le attività necessarie all'esecuzione forzata del provvedimento, comprese quelle relative all'uso della forza pubblica, le quali integrano comportamenti dovuti (sempre che non ricorra un'impossibilità determinata da forza maggiore) e non discrezionali» (Cass., Sez. Un., 18.3.1988, n. 2478) e, specularmente, «il rifiuto di assistenza della forza pubblica all'esecuzione dei provvedimenti del giudice … sempre che non dipenda da accertata indisponibilità di forza … costituisce un comportamento illecito» (Cass., Sez. Un., 1 agosto 1962, n. 2299).

Se nel regime normativo previgente il giudice dell'espropriazione immobiliare non aveva alcun potere per ingerirsi nell'autonoma e distinta procedura esecutiva per rilascio (e, anzi, ciò avrebbe determinato un suo illecito, anche disciplinare), le innovazioni del 2016 attribuiscono espressamente al predetto giudice il compito di avvalersi della forza pubblica per l'attuazione dell'ordine di liberazione emesso dal medesimo magistrato: in forza delle disposizioni contenute nell'art. 560 novellato, ma anche degli artt. 68 c.p.c. e 14 ord. giudiziario, potrà quindi ordinarsi la presenza degli operatori della forza pubblica a una certa data (modificabile solo per sopraggiunte esigenze di “forza maggiore”) e l'assunzione di specifiche condotte collaborative (compreso l'impiego delle “maniere forti”, ove necessario).

Superando contrasti interpretativi e recependo l'orientamento predominate negli uffici giudiziari (soprattutto in quelli che hanno valorizzato l'ordine di liberazione in una “prassi virtuosa”) il legislatore del 2016 ha esplicitamente stabilito che le spese sostenute dal custode per conseguire il rilascio costituiscono un costo della procedura, non potendosi mai addossare i relativi oneri all'aggiudicatario, nemmeno quando le attività di liberazione siano compiute dopo l'emissione del decreto di trasferimento. La specificazione introdotta nell'art. 560, comma 3, c.p.c. (“senza oneri per l'aggiudicatario o l'assegnatario o l'acquirente”) corrisponde allo scopo di favorire l'acquirente (e, quindi, le vendite giudiziarie nel loro complesso) mediante una consegna dell'immobile “chiavi in mano” in cui siano eliminate (o drasticamente ridotte) le incertezze sui tempi e anche sui costi per acquisire il possesso del cespite.

La tutela del debitore e del terzo occupante

Nonostante il tenore letterale della norma previgente, la facoltà di impugnare il provvedimento di liberazione emesso ai sensi dell'art. 560 c.p.c. con l'opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c. era già stata riconosciuta dalla giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione (Cass., 17 dicembre 2010, n. 25654; Cass., 30 giugno 2010, n. 15623), con un'interpretazione che – oltre a scongiurare la possibilità di un ricorso straordinario ex art. 111 Cost. alla Corte stessa – ha delimitato il significato delle parole “non impugnabile” attribuendo alle parti processuali (e, segnatamente, al debitore esecutato) il rimedio difensivo caratteristico del processo esecutivo, con ciò salvaguardando il diritto di tutela sancito dall'art. 24 Cost.

La sostituzione, nel comma 2, delle parole “non impugnabile” con “impugnabile per opposizione ai sensi dell'articolo 617” è perciò in linea con la giurisprudenza.

La tutela del terzo «detentore c.d. interessato, vale a dire titolare di un diritto di godimento del bene opponibile» (così Cass., 2 settembre 2013, n. 20053 riferendosi al soggetto abilitato a contrastare la procedura per rilascio azionata in forza di titolo formato inter alios) è stata sinora affidata al meccanismo dell'opposizione all'esecuzione: con lo strumento ex art. 615 c.p.c. il terzo può (rectius, poteva) contestare il diritto del custode di condurre l'esecuzione per rilascio nei suoi confronti.

È evidente che il venir meno dell'esecuzione ex artt. 605 ss. preclude il ricorso a tale opposizione, né può ipotizzarsi un'opposizione all'espropriazione immobiliare (ex artt. 615 o 619 c.p.c.) promossa da un soggetto che non è soggetto passivo di tale procedura e che non accampa alcun diritto incompatibile con quello del creditore pignorante.

La legge di conversione si è rivelata coerente con la scelta del decreto legge, il quale ha portato nell'alveo dell'esecuzione forzata immobiliare le questioni afferenti alla liberazione del cespite: al terzo che voglia far accertare le proprie ragioni ed evitare di perdere il godimento è dato il rimedio dell'opposizione agli atti esecutivi. Detto strumento garantisce una rapida decisione di natura cautelare da parte del giudice dell'esecuzione ex art. 618 c.p.c., nonché un successivo (eventuale) giudizio di cognizione definito con sentenza ricorribile per cassazione, ma nel contempo salvaguarda le esigenze di celerità della procedura esecutiva ancorando le contestazioni alla perentorietà del termine di 20 giorni ex art. 617 c.p.c.; è particolarmente garantista l'individuazione del dies a quo per l'opposizione nel momento in cui si è perfezionata la notifica del provvedimento (dal che si desume che solo al terzo – e non anche al debitore – spetta la notificazione dell'ordine di liberazione).

Non può fondare ragionevoli dubbi di legittimità costituzionale la previsione di uno strumento di impugnazione che si snoda su soli due gradi di giudizio (uno di merito e uno di legittimità) anziché su tre (come accade nell'ordinario processo di cognizione): difatti, come già in passato statuito dalla Corte Costituzionale e dalla C.E.D.U., la garanzia di un doppio grado di merito non trova copertura costituzionale, né è richiesto dalle prescrizioni sovranazionali.

La liberazione da beni mobili e documenti

Il decreto legge n. 59 del 2016 ha escluso il ricorso alle norme degli artt. 605 ss. c.p.c. e, perciò, non può più essere applicato l'art. 609 c.p.c. qualora nell'immobile da rilasciare si rinvengano beni mobili o documenti.

La legge di conversione n. 119 del 2016, opportunamente intervenendo sull'art. 560, comma 4, c.p.c., ha disegnato un meccanismo che parzialmente ricalca l'art. 609 c.p.c., ma lo semplifica (eliminando adempimenti procedurali che sarebbero assolutamente incompatibili con le esigenze di ragionevole durata della procedura esecutiva immobiliare) e, ovviamente, lo riconduce nell'alveo di una liberazione attuata dal custode senza l'intervento dell'ufficiale giudiziario.

Proprio il custode deve intimare all'occupante di asportare cespiti e documenti fissando un termine di almeno 30 giorni, con facoltà di abbreviarlo in caso di urgenza (ad esempio, quando siano da asportare animali o beni deperibili, ma anche qualora il bene sia già stato aggiudicato).

Se l'occupante non ottempera all'ordine, i cespiti si intendono abbandonati (e, quindi, suscettibili di occupazione ex art. 923 c.c.) e il custode giudiziario può provvedere a smaltirli o a distruggerli, sempre che il giudice dell'esecuzione – il quale, dunque, deve essere tenuto informato degli accadimenti – non dia diverse istruzioni, il che potrebbe accadere in caso di beni di significativo valore (eventualmente da indirizzare ad una vendita deformalizzata) o di animali e pur nell'ipotesi di destinazione del mobilio a enti di beneficienza.

In conclusione

Il nuovo art. 560 c.p.c., eliminando i difetti riscontrati nella pratica, risponde alle esigenze di celerità ed efficienza dell'espropriazione immobiliare senza però incidere sulle garanzie del debitore e dei terzi occupanti.

La deformalizzazione del procedimento di liberazione, infatti, consentirà di “personalizzare” il rilascio, adottando direttamente le misure che nel singolo caso si renderanno necessario e superando così gli ostacoli frapposti sia dal debitore, sia – a volte (e “patologicamente”) – da parte dei soggetti che con la giurisdizione sono chiamati ad operare.

Proprio dalla sinergia tra il giudice dell'esecuzione e il custode dipenderà l'esito della riforma: spetterà all'ausiliario svolgere la sua funzione di «assicurare il buon esito dell'esecuzione con la vendita dei beni» (così Cass., 16 gennaio 2013, n. 924) operando “sul campo”, ma anche formulando proposte e suggerendo soluzioni; competerà al giudice perseguire gli obiettivi legislativi (cioè, secondo Cass., 3 novembre 2011, n. 22747, la «maggiore proficuità possibile quale derivante – per nozioni di comune esperienza – dall'effettiva liberazione dell'immobile») supportando il custode sia con il proprio bagaglio di conoscenze giuridiche, sia mediante l'emissione di provvedimenti solleciti e mirati, sia pretendendo – anche dalla forza pubblica – il rispetto delle regole dello Stato di diritto.

Guida all'approfondimento

Dottrina:

− sulle prassi “virtuose”: Vaccarella, La vendita forzata immobiliare tra delega al notaio e prassi giudiziarie “virtuose”, in Riv. esec. forz., 2001, 289; Liccardo, La ragionevole durata del processo esecutivo: l'esperienza del Tribunale di Bologna negli anni 1996-2001 e ipotesi di intervento, in Riv. esec. forz., 2001, 566 ss.; Berti Arnoaldi Veli, Prassi e giurisprudenza del Tribunale di Bologna nelle espropriazioni immobiliari; in particolare il custode giudiziario e le azioni del custode finalizzate alla liberazione del compendio, in Riv. esec. forz., 2003, 59 ss.; Fontana, La gestione attiva del compendio immobiliare pignorato, in Riv. esec. forz., 2005, 571 ss.; Saletti, La prassi di fronte alle norme e al sistema, in Riv. esec. forz., 2001, 487 ss.

− sull'ordine di liberazione “autoesecutivo”: Longo, Nota in materia di esecutività dell'ordine di rilascio immediato dell'immobile da parte del giudice dell'esecuzione, in Giur. it., 2005, 1249.

− sull'art. 560 c.p.c. dopo la riforma del 2006: Fanticini, La custodia dell'immobile pignorato, in La nuova esecuzione forzata dopo la l. 18 giugno 2009, n. 69, a cura di Demarchi, Bologna, 2009, 563 ss.; Perna, La custodia giudiziaria, in Il processo esecutivo, a cura di Fontana e Romeo, Padova, 2014, 449 ss.

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