Gratuito patrocinio: perché i provvedimenti di liquidazione del compenso del difensore e di revoca del beneficio vanno adottati con autonomo decreto
14 Febbraio 2017
Le norme di riferimento
L'art. 83, comma 1, d.P.R. 115/2002 stabilisce che: «L'onorario e le spese spettanti al difensore, all'ausiliario del magistrato e al consulente tecnico di parte sono liquidati dall'autorità giudiziaria con decreto di pagamento, secondo le norme del presente testo unico». L'art. 136, comma 2, a sua volta, prevede che: «Con decreto il magistrato revoca l'ammissione al patrocinio provvisoriamente disposta dal consiglio dell'ordine degli avvocati, se risulta l'insussistenza dei presupposti per l'ammissione ovvero se l'interessato ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave». Entrambe le norme individuano quindi inequivocabilmente in un autonomo decreto il tipo di provvedimento con il quale il giudice provvede alla liquidazione dei compensi dei professionisti che hanno prestato la loro opera in un giudizio con parte ammessa al gratuito patrocino o, nei casi indicati, alla revoca del beneficio. La prassi di provvedere alla liquidazione del compenso del difensore della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato con la stessa decisione conclusiva del giudizio non è quindi conforme alla prima delle due previsioni riportate nel paragrafo precedente. Essa risulta però in linea con una pronuncia della Suprema Corte di alcuni anni fa (Cass. pen., sez. VI, 8 novembre 2011, n. 46537) che ha stabilito che «Nel caso in cui il giudice condanni con sentenza, ex art. 110, comma 3, d.P.R. n. 115/2002, l'imputato alla rifusione integrale, in favore dello Stato, delle spese legali sostenute dalla parte civile ammessa al patrocinio dei non abbienti, la somma oggetto di detta condanna deve coincidere con quella che lo Stato liquida al difensore di parte civile ex art. 82 comma 1 d.P.R. n. 115/2002, dovendo tale specifica liquidazione essere contenuta nel dispositivo della stessa sentenza». Tale decisione non è condivisibile. Infatti, a prescindere dal dato normativo, vi sono delle esigenze di ordine funzionale che giustificano la separazione tra i due provvedimenti (quello che definisce il giudizio e il decreto di liquidazione), che, al pari del dato normativo, non sono state considerate dalla pronuncia sopra citata. I due provvedimenti, infatti, sono soggetti non solo ad adempimenti diversi (ai sensi dell'art. 83, comma 2, d.P.R. 115/2002 il decreto di liquidazione «va comunicato al beneficiario e alle parti, compreso il pubblico ministero», ovviamente nei giudizi di cui tale ufficio sia parte) ma anche a mezzi impugnazione differenti (la sentenza a quelli ordinari, mentre il decreto di liquidazione all'opposizione di cui al combinato disposto degli artt. 15 d. lgs. 150/2011 e art. 170 d.P.R. 115/2002). Che la soluzione sopra indicata sia l'unica praticabile lo si comprende anche considerando le conseguenze paradossali che provoca la scelta di liquidare il compenso per il difensore della parte ammessa al patrocinio con lo stesso provvedimento che definisce la fase giudiziale in cui egli ha prestato la sua attività. Infatti in tal caso il difensore che intendesse censurare solo la liquidazione non avrebbe altro rimedio che proporre impugnazione in proprio avverso la decisione ma al giudizio di impugnazione non parteciperebbero né lo Stato, che non era stato parte del giudizio di primo grado, né le parti del giudizio di primo grado in quanto non interessate all'esito della impugnazione. La necessità di un provvedimento di liquidazione distinto dalla decisione è stata invece riconosciuta da un'altra pronuncia della Suprema Corte (Cass. civ. sez. I, 31 marzo 2011, n. 7504), che ha annullato la sentenza di appello che, nell'ambito di un giudizio di cui alla legge n. 184/1983 (dichiarazione di adottabilità), aveva liquidato il compenso per la parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato con la sentenza. Si noti che la soluzione qui esposta è valida a fortiori nei casi in cui il patrocinio a spese dello Stato sia stato richiesto ed ottenuto per promuovere procedimenti sommari non cautelari ai quali non segua un giudizio a cognizione piena (si pensi ai casi del beneficio ottenuto per la proposizione di una ingiunzione di pagamento, che non venga poi opposta, o per promuovere un giudizio di convalida di sfratto al quale non segua la fase di opposizione), atteso che tali ipotesi possono ricondursi a quella cui fa riferimento l'art. 83, comma 2, d.P.R. 115/2002, laddove afferma che la liquidazione è effettuata «…comunque all'atto della cessazione dell'incarico». Con riguardo al procedimento monitorio, va peraltro evidenziato che sarebbe opportuno riservare la liquidazione del compenso del difensore della parte ammessa al beneficio a dopo la scadenza del termine per proporre opposizione atteso che, se essa fosse promossa, il giudice dovrebbe valutare la non manifesta infondatezza (recte non temerarietà) della pretesa del creditore e se la ravvisasse revocare la provvisoria ammissione al beneficio. Perchè un provvedimento di revoca del beneficio, autonomo rispetto alla decisione conclusiva del giudizio
La conclusione alla quale si è giunti nel precedente paragrafo vale anche rispetto al provvedimento con il quale il giudice revochi l'ammissione al patrocinio provvisoriamente disposta dal Consiglio dell'ordine, anche per aver ritenuto temeraria la difesa della parte non abbiente, tenuto conto delle conseguenze alle quali conduce la prassi di adottarlo con la decisione conclusiva del giudizio. In questo caso il rimedio avverso il provvedimento di revoca che l'interessato può esperire consiste, secondo una recente pronuncia della Suprema Corte (Cass. civ. sez. VI-2, 13 aprile 2016, n. 7191), non già nella opposizione ai sensi degli artt. 170 d.P.R. 115/2002 e art. 15 d. lgs. 150/2011 ma nell'appello avverso la decisione. Tale soluzione presenta però almeno tre inconvenienti. Essa costringe innanzitutto la parte che si dolga del solo provvedimento di revoca ad impugnare la decisione che ha concluso il giudizio e, al contempo, le consente di disporre, rispetto a quella sola questione, di un grado di impugnazione ulteriore rispetto a quello che avrebbe a disposizione se dovesse proporre opposizione ai sensi dell'art. 15 d. lgs. 150/2011, atteso che l'ordinanza che conclude quel procedimento è inappellabile. Inoltre l'opinione qui criticata non considera che lo Stato non può essere parte del giudizio di impugnazione della decisione, pur essendo interessato all'esito della opposizione al provvedimento di revoca, con l'ulteriore conseguenza che le spese di quella fase resteranno a carico della parte che le ha anticipate anche se dovesse risultare vittoriosa in quel grado. Deve infatti escludersi che tale parte possa proporre un autonomo giudizio nei confronti dello Stato per recuperare quelle spese in virtù del principio generale secondo cui le spese devono essere liquidate dal giudice della causa cui si riferiscono (Cass. civ., Sez. Un., 28 febbraio 2007, n. 4634). In conclusione
Se si condivide la ricostruzione esposta nei precedenti paragrafi, dovrebbe ammettersi che, nei casi in cui il decreto di revoca si fondasse su un giudizio di temerarietà della azione o della difesa promossa dalla parte non abbiente, la impugnativa di esso vada proposta nelle forme dell'opposizione ai sensi degli artt. 170 d.P.R. 115/2002 e art. 15 d. lgs. 150/2011 e che la valutazione espressa dal giudice possa essere sindacata solo in sede di opposizione , quindi da parte del Presidente del Tribunale o di un suo delegato, e non anche dal giudice investito dell'appello avverso la decisione conclusiva del giudizio.
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