Chiamata per ordine del giudice

20 Ottobre 2016

L'intervento iussu iudicis, ispirato ad esigenze di ordine pubblico e trascendente quello delle stesse parti originarie del giudizio o di terzi, ben può essere disposto anche nel caso in cui il giudice ritenga di dover indurre od autorizzare chi agisce ad estendere la propria domanda nei confronti del terzo indicato come titolare del rapporto medesimo.
Il quadro normativo

L'intervento iussu iudicis, rispondendo all'interesse superiore della giustizia ad attuare l'economia dei giudizi e ad evitare i rischi di giudicati contraddittori – ispirato ad esigenze di ordine pubblico e trascendente quello delle stesse parti originarie del giudizio o di terzi- ben può essere disposto (sulla base di una valutazione che costituisce espressione di un potere discrezionale riservato al giudice del primo grado, il cui esercizio non è suscettibile di sindacato nelle fasi successive, né, in particolare, in sede di legittimità) anche nel caso in cui, estraneità al rapporto controverso, il giudice ritenga di dover indurre od autorizzare chi agisce ad estendere la propria domanda nei confronti del terzo indicato come titolare del rapporto medesimo (Cass. civ., sez. III, 13 luglio 2011, n. 15387).

Sul punto si osserva che per ciò che concerne il processo cumulato, ossia un processo in cui siano trattate più cause e/o partecipino più parti, il legislatore ha dettato soltanto alcune norme sparse e spesso contraddittorie, sia in punto di limiti alla realizzazione successiva dello stesso, sia in punto di concreto funzionamento delle preclusioni all'interno e nel corso dello svolgimento del processo simultaneo (M. Comastri, Osservazioni in tema di cumulo processuale e sistema delle preclusioni nel processo ordinario di cognizione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2005, 905).

Appare evidente che il cumulo processuale determina il superamento delle preclusioni che progressivamente maturano nel corso del processo e con riferimento a ciascuna causa cumulata o, nelle ipotesi di cumulo soggettivo, nei confronti di ciascun litisconsorte. Una modalità di realizzazione successiva del cumulo processuale è costituita dall'intervento coatto del terzo per ordine del giudice (art. 107 c.p.c.).

Rispetto all'art. 102 c.p.c., l'istituto in commento ha il pregio di fornire al giudice uno strumento flessibile, siccome rimesso alla discrezionalità del giudice, il quale quindi può valutare in concreto di volta in volta la sussistenza di ragioni di opportunità volte a far intervenire nel processo i controinteressati, individuando anche i soggetti che è utile far partecipare.

Sul punto, la Corte di Cassazione ha evidenziato che qualora il giudice ordini l'intervento di un terzo a seguito delle difese svolte dal convenuto, il quale, contestando la propria legittimazione passiva, indichi quello come responsabile della pretesa fatta valere in giudizio, ricorre un'ipotesi non di litisconsorzio necessario, ex art. 102 c.p.c., ma di chiamata in causa iussu iudicis, ai sensi dell'art. 107 c.p.c., rispondente ad esigenze di economia processuale (comunanza di causa), discrezionalmente valutate sotto il profilo dell'opportunità. (Cass. civ., sez. II, 9 gennaio 2013, n. 315).

Come ben rilevato in dottrina, l'art. 107 c.p.c. può «costituire un'efficace «valvola di sicurezza» capace di garantire quelle esigenze pratiche di giustizia sostanziale collegate ad una non contraddittoria disciplina delle posizioni di più titolari di un'unica vicenda giuridica plurisoggettiva» (C. BRILLI, Azione di passaggio necessario ex art. 1051 c.c. e litisconsorzio necessario, in Foro it., 1990, I, 648).

È opinione pacifica, supportata dal dettato normativo dell'art. 271 c.p.c., che il terzo chiamato in causa non subisca mai le preclusioni in cui siano incorse le parti originarie e, conseguentemente, non debba mai accettare il processo pendente in statu et terminis.

L'intervento jussu judicis, rispondendo, nell'interesse superiore della giustizia, all'esigenza di attuare l'economia dei giudizi ed evitare il contrasto di giudicati, può essere ritualmente disposto (sulla base di valutazioni tipicamente discrezionali, riservate al giudice di primo grado, il cui operato non è suscettibile di censura nelle fasi successive né, in particolare, in sede di legittimità) anche dopo l'espletamento dei mezzi istruttori.

Proprio in considerazione del preminente interesse pubblico cui è ispirato, l'intervento jussu judicis non è oggetto a limiti di tempo, ma può aver luogo, come testualmente dispone l'art. 270 c.p.c., «in ogni momento» del giudizio di primo grado.

Il terzo chiamato sarà libero di compiere anche attività che sarebbero già precluse alle parti originariealle quali, peraltro, si dovrà specularmente riconoscere la facoltà di esercitare a loro volta i più ampi poteri di controdeduzione alle difese del terzo, con una sostanziale loro rimessione in termini ai sensi dell'art. 184-bis c.p.c. (Cass. civ., 19 gennaio 2004, n. 707).

Dunque, il terzo chiamato in causa è sempre in termini (e nell'attività di replica è in grado di rimettere in termini anche le parti originarie) per esercitare tutti i poteri spettantigli, a prescindere dalla natura adesiva o innovativa dell'intervento e quindi dalla concreta e diretta riferibilità dell'attività processuale

I poteri discrezionali del giudice ed il limite al loro esercizio

L'intervento iussu iudicis, previsto dall'art. 107 c.p.c., è rimesso alla valutazione discrezionale del giudice del merito, onde nessuna doglianza è proponibile in sede di legittimità circa la valutazione del giudice di non effettuare la detta chiamata in causa (Cass. civ., sez. I, 13 aprile 2015, n. 7415).

Perciò: --a) salva la circoscritta ipotesi regolata dall'art. 268, comma 2, c.p.c., nessun fenomeno di preclusione riflessa può, attraverso il suo dispiegamento, compromettere la garanzia di una completa dialettica processuale all'interno del giudizio cumulato, anche a costo di arrendersi ad un aggiramento delle preclusioni all'esercizio dei poteri processuali delle parti; --b) non si può peraltro, ai nostri fini, neppure postulare una deroga ai meccanismi comunicazione degli effetti delle attività a rilevanza comune, poiché un processo simultaneo, in cui venga derogata ogni forma di coordinamento nell'accertamento delle cause connesse, viene privato di qualsivoglia funzione, risolvendosi anzi in una paradossale perdita di razionalità procedimentale.

Se tutto ciò è vero, appare logica conseguenza sostenere che il giudice che intenda fermare una manovra strumentale di aggiramento delle preclusioni ad opera delle parti, debba impedire la trattazione congiunta delle cause, rifiutando la riunione delle controversie separatamente pendenti ovvero separando le cause previamente riunite. Entrambi tali poteri hanno del resto un preciso fondamento normativo, rispettivamente agli artt. 40, comma 2, e 103, comma 2, c.p.c..

Tuttavia si tratta di poteri discrezionali che il giudice potrà esercitare, solo dopo aver bilanciato i valori in gioco: da una parte quello del regolare e celere svolgimento della causa c.d. attraente, e dall'altra parte quello della realizzazione del simultaneus processus che è anche lo strumento deputato alla realizzazione e dell'economia processuale e del coordinamento dei giudicati.

Il potere discrezionale del giudice di rifiutare la riunione o separare le cause è allora, a ben vedere, un potere vincolato al risultato di un bilanciamento non facile (e certo opinabile), fondato sulla natura del sotteso nesso di connessione fra i rapporti sostanziali oggetto di accertamento e sulla corrispondente ratio del cumulo processuale nel caso concreto.

Le esigenze del cumulo processuale dipendono dalle caratteristiche dei nessi sostanziali intercorrenti fra i rapporti che, direttamente o indirettamente, costituiscono oggetto di giudizio.

Allora è necessaria una corrispondente distinzione. Da una parte esistono le ipotesi di cumulo inscindibile, laddove l'esigenza di coordinare gli accertamenti è prioritaria e irrinunciabile: coerentemente si ritiene che la riunione delle cause debba essere disposta senza limiti di tempo e non possano separarsi le cause una volta ottenutane la trattazione contestuale. In tali ipotesi di cumulo inscindibile, l'esigenza di coordinamento non può che prevalere sul principio di preclusione e sull'opportunità di evitare un aggiramento delle decadenze maturate in corso di giudizio. Dall'altra parte, esistono le ipotesi di cumulo scindibile, dove il giudice ha senz'altro la possibilità di rinunciare alla trattazione congiunta delle cause, per salvaguardare il principio di preclusione (sempre rifiutando la riunione o separando le cause).

In altre parole il giudice, per poter rinunciare alla trattazione congiunta in favore del principio di preclusione, deve guardare alle possibili conseguenze dell'accertamento separato delle cause connesse e, sulla base di tali conseguenze, operare il bilanciamento.

In conclusione

Nel caso di chiamata di terzo ad opera delle parti processuali, deve rilevarsi che l'ingresso del nuovo soggetto nel processo avviene nella fase preliminare del giudizio: precedentemente alla prima udienza di trattazione, in caso di chiamata del terzo da parte del convenuto, ovvero nel corso della prima udienza allorquando a tale chiamata debba provvedere l'attore.

Viceversa, l'accesso coatto del terzo nel processo pendente può avvenire, per ordine del giudice, anche dopo la chiusura della fase perentoria e, quindi, dopo che si sono già verificate, per le altre parti, le preclusioni previste dal codice di rito. Per vero, secondo il disposto dell'art. 270 c.p.c. – non modificato dalla legge di riforma del 1990 – la chiamata in causa, ai sensi dell'art. 107 c.p.c. («può essere ordinata in ogni momento dal giudice istruttore per un'udienza che all'uopo egli fissa»), la mancata ottemperanza al suddetto ordine di integrazione del contraddittorio comporta la cancellazione della causa dal ruolo, disposta dall'istruttore con ordinanza non impugnabile

Ad onta del chiaro ed inequivoco tenore della norma, non è però mancato chi ha creduto – al fine di coordinare la disposizione in esame con il sistema delle preclusioni suindicate – di interpretare il comma 1 dell'art. 270 c.p.c. nel senso che esso si riferisca ad ogni momento che proceda la determinazione del thema decidendum (C. PERAGO, Commento all'art. 29 l. 353/1990, in Commentario alla l. 26 novembre 1990 n. 353 a cura di Tarzia e Cipriani, in Nuove leggi civ. comm., 1991, 141 e ss.). La tesi non convince. Invero, la contraria interpretazione che si ritiene doversi evincere dal testo si fonda sulla considerazione – da tempo pacifica in giurisprudenza e in dottrina – secondo cui la chiamata in causa per ordine del giudice non è soggetta a limiti temporali, essendo ispirata dall'interesse superiore della giustizia ad attuare l'economia dei giudizi, ad evitare il rischio di giudicati contraddittori, e ad assicurare la tutela dei diritti dei soggetti che, sebbene estranei al processo, possano tuttavia riceverne pregiudizio (Cass. civ., 10 maggio 1995, n. 5082).

Anzi, muovendo proprio da tali rilievi, si è addirittura ritenuto che, malgrado la norma si riferisca letteralmente al solo giudice istruttore, la chiamata in causa di un terzo possa essere disposta anche dal collegio con ordinanza e con conseguente rimessione del processo dinanzi all'istruttore. Il che comporterebbe, a seguito della riforma e ove si accedesse alla suddetta interpretazione, la possibilità di estendere la facoltà in discorso anche al giudice unico in fase decisoria.

In realtà, proprio il permanere invariato nella sua originaria formulazione dell'art. 270 c.p.c, nonostante la novella del 1990, sembra suggerire a fronte di una normativa non sempre chiara e lineare, una lettura della riforma nella prospettiva di un tendenziale contemperamento dell'esigenza di razionalizzazione e di accelerazione del processo, espressa dal regime delle preclusioni, con quella di assicurare la garanzia del diritto di difesa delle parti e dei terzi, nell'interesse superiore della giustizia, cui la dinamica del processo è strumentale.

In conclusione, l'ordine del giudice ex art. 107 c.p.c. assolve alla funzione di estendere gli effetti sostanziali del giudicato al terzo, qualora il rapporto controverso sia a lui comune ovvero sia connesso per il titolo o l'oggetto con un altro rapporto intercorrente con un'altra parte. Ne consegue che il terzo chiamato in causa è sempre legittimato a proporre impugnazione incidentale adesiva a quella principale (od incidentale di detta parte), sì da evitare che il giudicato sul rapporto controverso possa produrre effetti pregiudizievoli su quello connesso, mentre può proporre impugnazione avverso la sentenza in via principale od incidentale autonoma soltanto in caso di soccombenza, totale o parziale, rispetto a conclusioni formulate in modo autonomo ovvero a pretese fatte valere direttamente nei suoi confronti (Cass. civ., sez. II, 24 settembre 2014, n. 20124).

Guida all'approfondimento

G. BALENA, Intervento iussu iudicis e principio della domanda, in Riv. dir. civ., 1997, II, 465 ss.;

C. BRILLI, Azione di passaggio necessario ex art. 1051 c.c. e litisconsorzio necessario, in Foro it., 1990, I, 648;

M. COMASTRI., Osservazioni in tema di cumulo processuale e sistema delle preclusioni nel processo ordinario di cognizione, in Riv. trim. dir. proc. civ., fasc. 3, 2005, 905;

PERAGO, Commento all'art. 29 l. 353/90, in Commentario alla l. 26-11-90 n. 353 a cura di Tarzia e Cipriani, in Nuove leggi civ. comm., 1991, 141 e ss.;

A. PATELLI, Il litisconsorzio nel processo civile, Torino, 2001, 41 ss.

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