Tempestività della seconda impugnazione: termine breve o termine lungo?

Redazione scientifica
22 Giugno 2016

Qualora il notificante notifichi una seconda impugnazione prima che sia giunta declaratoria di inammissibilità o improcedibilità della prima, la tempestività del ricorso deve essere valutata in relazione al termine breve decorrente dalla data della prima impugnazione.

IL CASO Una società conveniva in giudizio un Comune nel cremonese chiedendo la risoluzione per grave adempimento di un contratto d'appalto ed il risarcimento dei danni. Riassunta dinnanzi ad altro Tribunale, essendo stato dichiarato territorialmente incompetente il primo adito, la domanda viene accolta in primo grado. Il comune propone dunque appello, ma avendo notificato l'atto alla società, dichiarata nel frattempo fallita, si vede costretto pertanto ad abbandonare detto giudizio.

L'amministrazione comunale ripropone l'impugnazione, notificandola correttamente al procuratore della società ed al curatore del fallimento.

La Corte accoglie l'eccezione preliminare dell'appellata dichiarando l'appello tardivo, dal momento che il termine breve ex art. 325 c.p.c. era decorso dal primo atto d'appello.

Il comune ricorre ora in Cassazione, ed il ricorso viene assegnato alle Sezioni Unite.

TERMINE BREVE VS TERMINE LUNGO Il comune sostiene che la seconda impugnazione non poteva essere dichiarata tardiva. Essendo il primo giudizio da considerare nullo, poiché notificato al difensore e non al Fallimento, si ritiene incolpevolmente ignaro del fatto che nelle more del giudizio d'appello la società era stata dichiarata fallita. Attacca quindi l'interpretazione che valuta la tempestività della seconda impugnazione in relazione non al termine c.d. lungo, ma a quello breve decorrente dalla data di proposizione della prima impugnazione, equivalendo alla conoscenza della sentenza da parte dell'impugnante.

INSUSSITENZA DEI PRESUPPOSTI La Suprema Corte dichiara anzitutto l'insussistenza dei due presupposti da cui muove il ricorso (la declaratoria di nullità del primo atto di appello e la scusabilità dell'ignoranza del fallimento di parte appellata), evidenziando come il primo giudizio non sia giunto a sentenza ma sia stato abbandonato spontaneamente dalla parte ricorrente «è quindi inappropriato il precedente invocato secondo il quale la disposizione ex art. 358 c.p.c., che impedisce la riproposizione dell'appello dichiarato inammissibile o improcedibile, non è applicabile nel caso in cui venga dichiarata la nullità del gravame».

ERRATA IDENTIFICAZIONE DEL SOGGETTO PASSIVO DELLA VOCATIO IN IUS La Corte ricorda poi come sulla parte appellante gravi l'onere di verificare diligentemente che il soggetto passivo della vocatio in ius sia “giusta parte” e che, al momento della notificazione, l'atto sia rivolto contro soggetto ancora legalmente esistente, avvalendosi anche della consultazione dei registri presso la locale Camera di commercio, delle banche dati e di qualsiasi altro strumento utile all'accertamento della destinazione del gravame.

SECONDA IMPUGNAZIONE Il comune avrebbe potuto insistere per far dichiare insussitente il vizio, o sanato o sanabile, secondo i principi espressi da Cass. civ., sez. un., 28 luglio 2005, n. 15783, ma ha preferito «agire come se l'appello fosse inammissibile o improcedibile o comunque insanabilmente viziato (Cass. civ., sez. I, 21 luglio 2000, n. 9569)», abbandonandolo e proponendo una seconda impugnazione. Subisce dunque l'applicazione del principio secondo cui «fino a quando non intervenga una declaratoria di inammissibilità, può essere proposto un secondo atto di appello, immune dai vizi del precedente e destinato a sostituirlo, sempre che la seconda impugnazione risulti tempestiva, dovendo la tempestività valutarsi, anche in caso di mancata notificazione della sentenza, non in relazione al termine annuale, bensì in relazione al termine breve decorrente dalla data di proposizione della prima impugnazione» (Cass. civ., sez. un., 19 ottobre 2007, n. 21864).

La Corte, pertanto, respinge il ricorso.

QUESTIONE CONTROVERSA Le Sezioni Unite si soffermano infine sulle critiche mosse dalla dottrina al principio di diritto consolidato che afferma che la notificazione di un'impugnazione inammissibile o improcedibile debba considerarsi equivalente, per il notificante, alla notificazione della sentenza eseguita ex art. 285 c.p.c., con la conseguenza che il termine breve per l'impugnazione decorre anche qualora la sentenza non sia ancora stata notificata.

LA POSIZIONE DELLA DOTTRINA Le critiche della dottrina si fondano su tre argomentazioni:

  • la mera conoscenza legale della sentenza impugnata, implicita nel proporre il gravame, in altri casi non viene considerata dalla Corte quale fonte dell'obbligo di impugnare entro il termine breve, poiché questo obbligo è riconnesso dall'art. 285 c.p.c. soltanto alla specifica notificazione della sentenza fatta al procuratore dell'altra parte;
  • argomentazione desunta ex art. 326, comma 2, c.p.c., secondo cui l'impugnazione di una sentenza pronunciata in cause scindibili proposta contro una parte fa decorrere nei confronti dello stesso soccombente il termine per proporla contro le altre parti , sul rilievo che la disposizione avrebbe ambito limitato al processo con pluralità di parti in causa scindibile;
  • argomentazione desunta ex art. 333 c.p.c. , che impone alle parti che ricevono la notificazione di un'impugnazione di proporre subito le loro impugnazioni incidentali; disconosciuta, la dottrina evidenzia che, nel caso di impugnazione per errore nella scelta nel mezzo, l'appellato (o l'intimato) non ha onere di impugnare in via incidentale.

LA POSIZIONE DELLA SUPREMA CORTE I Giudici delle Sezioni Unite osservano che nessuno dei tre principi posti in evidenza dalla dottrina sarebbe determinante, in quanto «la ratio del principio innanzi richiamato riposerebbe sulla esigenza di far formare il giudicato contemporaneamente per tutte le parti e di voler stimolare l'esercizio del potere di impugnazione al fine di accelerare la formazione del giudicato».

La critica sollevata dalla dottrina in relazione al disposto di cui all'art. 326, comma 2, c.p.c. è considerata dalla Corte priva di fondamento, dal momento che ciò che rileva non è solo il pur indispensabile presupposto della conoscenza della sentenza, ma è soprattutto la volontà di accelerare la fine del processo.

La tesi è rafforzata da una valutazione del principio di parità delle armi, «da intendersi nell'accezione costituzionalizzata ex art. 111 Cost.. con riferimento all'art. 333 c.p.c. e alle sperequazioni che si creerebbero in danno degli appellati, costretti a reagire sollecitamente alla prima impugnazione e poi esposti ai ripensamenti e alle riproposizioni dei gravami nel termine lungo».

L'interpretazione della Corte risulta inoltre conforme ai principi del giusto processo, in particolare a quello della ragionevole durata e della certezza del diritto. Le Sezioni Unite osservano infatti che, «sebbene non esista nel nostro sistema processuale una norma che imponga la regola dello “stare decisis”, essa costituisce tuttavia una tendenza immanente nell'ordinamento, stando alla quale non è consentito discostarsi da un'interpretazione del giudice di legittimità senza forti ed apprezzabili ragioni giustificative».

I giudici della Suprema corte, pertanto, confermano l'orientamento consolidato.

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