Trattazione congiunta di controversie soggette a riti diversi e regole processuali

22 Agosto 2016

Trattazione di controversie soggette a riti diversi qualora ciascuna causa soggiaccia a regole processuali distinte e dalla scelta di un rito erroneo per l'introduzione di una di esse derivino conseguenze pregiudizievoli.
Massima

L'art. 40, comma 3, c.p.c. disciplina una modalità di trattazione di controversie soggette a riti diversi, ma, quando ciascuna causa soggiaccia a regole processuali distinte e dalla scelta di un rito erroneo per l'introduzione di una di esse derivino conseguenze pregiudizievoli per la possibilità di trattare la domanda secondo il rito cui sarebbe stata soggetta, non consente, a chi le abbia introdotte cumulativamente in base al rito della causa attraente, di pretendere che quella intrapresa con il rito sbagliato sia “salvata” dalla successiva trattazione delle cause cumulate con il rito applicabile alla prima.

Il caso

La Suprema Corte ha confermato la sentenza impugnata che, a fronte di una opposizione a decreto ingiuntivo per canoni di affitto di azienda, recante altresì una domanda riconvenzionale risarcitoria e di ripetizione del deposito cauzionale aveva dichiarato inammissibile l'opposizione perché introdotta, anziché con il ricorso previsto dall'art. 447-bis c.p.c. con citazione ritualmente notificata nel termine di cui all'art. 641 c.p.c, ma iscritta a ruolo successivamente ad esso.

Questioni giuridiche e la soluzione

La Corte interviene sulle modalità di trattazione di cause connesse soggette a riti distinti e delimita l'ambito di operatività dell'art. 40 c.p.c.

I commi 3 e 4 della citata disposizione - nel testo novellato dalla l. 26 novembre 1990, n. 353 – mirano ad eliminare gli ostacoli che in passato la diversità del rito poneva alla realizzazione del cumulo delle cause connesse e stabiliscono una serie di criteri in caso di trattazione di cause cumulativamente proposte o successivamente riunite (a norma degli artt. 40, comma 1 o 274 c p.c.) .

La norma non riguarda tutti i casi di cumulo ma solo le ipotesi (artt.31, 32, 34, 35 e 36 c.p.c) che si indicano di solito come connessione forte o per subordinazione, non applicandosi, invece all'art. 33 c.p.c, cioè al cumulo soggettivo (connessione debole o per coordinazione).

L'orientamento più recente (Cass. civ., 10 agosto 2012 n.14386), a prescindere dalla qualità del nesso di connessione e dal rischio di giudicati contrastanti, esclude decisamente che il litisconsorzio facoltativo possa determinare deroghe al rito o deroghe alla competenza territoriale diverse da quella ammessa dall'art. 33 c.p.c.

Infatti, le ipotesi di connessione oggettiva contemplate dagli artt. 31, 32, 34, 35 e 36 c.p.c. sono connotate da un peculiare rapporto di subordinazione di una causa ad un'altra, inquadrabile nello schema generale della pregiudizialità - dipendenza cui corrisponde, laddove le cause non vengano trattate congiuntamente, un rischio alto di giudicato (logicamente) legato all'eventualità che l'esistenza del (medesimo) rapporto pregiudiziale venga fissato in un processo e negata nell'altro. Per ciascuna delle ipotesi contemplate - cause accessorie, cause di garanzia, accertamenti incidentali, eccezione di compensazione e cause riconvenzionali – il codice definisce gli effetti della connessione sulla competenza.

Invece, nelle ipotesi di connessione c.d. debole o “per coordinazione” e, se il rito è diverso, le cause connesse ex art. 33 c.p.c., non possono essere trattate insieme.

La casistica giurisprudenziale verte soprattutto sulla materia matrimoniale.

Per esempio in Cass. civ., sez. I, 8 settembre 2014 n.18870 (con nota di C. BONA, in Foro Italiano 2015, fasc. 7-8, p. 2464), si è affermato che le domande di risarcimento dei danni e di separazione personale con addebito, in quanto soggette a riti diversi, non sono cumulabili nel medesimo giudizio, atteso che, trattandosi di cause tra le stesse parti e connesse solo parzialmente per "causa petendi", sono riconducibili alla previsione di cui all'art. 33 c.p.c.; parimenti è stata esclusa la possibilità del "simultaneus processus" tra l'azione di divorzio e quella avente ad oggetto, tra l'altro, la restituzione di beni mobili, essendo quest'ultima soggetta al rito ordinario, autonoma e distinta dalla prima (Cass. civ., sez. I, 21 maggio 2009 n. 11828), come per l'azione di divorzio, soggetta al rito della camera di consiglio con quella di scioglimento della comunione di beni immobili, soggetta al rito ordinario, trattandosi di domande non legate dal vincolo di connessione, ma in tutto autonome e distinte dalla domanda di divorzio (Cass. civ., sez. I, 29 gennaio 2010 n.2155; Cass. civ., sez. II, 27 novembre 2006 n.25158) oppure fra la domanda di separazione giudiziale fra i coniugi e la domanda di accertamento della proprietà della casa coniugale (Cass. civ., sez. I, 25 luglio 2008 n. 20460) e così nel giudizio di separazione personale dei coniugi quanto alla proposizione della domanda di annullamento di un accordo transattivo intervenuto tra i coniugi per lo scioglimento della comunione vertendosi in ipotesi di cumulo ex art. 33 e 104 c.p.c (Cass. civ., sez. I, 29 gennaio 2010 n. 2155) .

E' stata esclusa, poi, la possibilità di applicazione della norma nell'ipotesi di cumulo tra causa di opposizione allo stato passivo e altra causa ad essa connessa (Cass. civ., n. 15770/2000 e ancora nell'ipotesi di cumulo tra causa relativa alla cessazione del rapporto associativo e causa relativa alla cessazione del rapporto di lavoro (Cass. civ., sez. lav., 18 gennaio 2005 n.850).

Invece, la domanda di revisione dell'assegno di divorzio e quella riconvenzionale di riconoscimento di una quota di t.f.r. sono oggettivamente connesse ai sensi dell'art. 36 c.p.c., perché il diritto all'assegno, di cui si discute nel giudizio di revisione, è il presupposto di entrambe: pertanto, l'art. 40 c.p.c. ne consente il cumulo nello stesso processo, sebbene si tratti di azioni di per sé soggette a riti diversi (Cass. civ., sez. I, 12 marzo 2012 n. 3924).

L'art. 40 c.p.c. sancisce, quindi, i seguenti principi:

  • principio della trattazione delle cause cumulate con un unico rito;
  • generale prevalenza del rito ordinario su ogni altro rito speciale;
  • prevalenza del rito speciale del lavoro – nel suo campo istituzionale, ossia in quanto la causa sia tra quelle indicate dagli artt. 409 e 442 c.p.c - rispetto al rito ordinario (non già, quindi, se siano trattate le cause locatizie o quelle di cui al d.lgs. n. 150/2011 artt. 6-13);
  • se le cause cumulate sono tratte con riti speciali diversi (e nessuna di tali cause è una causa di lavoro o previdenziale) prevale il rito speciale previsto per la causa in ragione della quale viene determinato la competenza oppure, in subordine, quello previsto per la causa di maggior valore.

Secondo il comma 4 dell'art. 40 c.p.c., ove le cause siano soggette a differenti riti speciali, la trattazione simultanea deve avvenire secondo il rito cui è soggetta la causa in ragione della quale viene determinata la competenza o, in mancanza, secondo il rito previsto per la causa di maggior valore. Potrà, quindi, di volta in volta prevalere l'uno o l'altro rito speciale (salvo la prevalenza assoluta assicurata al rito del lavoro per le cause di cui agli artt. 409 e 442c.p.c.).

Il comma 5 della norma disciplina il passaggio al rito del processo simultaneo richiamando gli artt. 426, 427 e 439 (dettati, per il processo del lavoro, con riguardo all'erronea scelta del rito rilevata in primo grado e in appello). La formulazione della norma comprende sia l'ipotesi in cui il giudice abbia errato nella scelta del rito del processo simultaneo in applicazione dei criteri dettati dai commi 3 e 4 sia l'ipotesi in cui, effettivamente, la prevalenza del rito del processo simultaneo si sia imposta dopo l'inizio della causa, come avviene nel caso di cause separatamente proposte poi riunite nel medesimo processo ma con prevalenza del rito della causa proposta per la seconda .

In caso di eventuale violazione dei predetti criteri il giudice, perfino quando il vizio venga scoperto in appello e sempre che esso riguardi il solo rito (non la competenza) si limita a disporre il passaggio dal rito ordinario a quello speciale, o viceversa.

La norma esprime, pertanto, il principio generale per cui si esclude che l'errore sul rito abbia conseguenze fatali per il processo o sia, comunque, causa di nullità degli atti in esso compiuti .

Nella sentenza in esame la Suprema Corte chiarisce, tuttavia, che l'obiettivo primario di favorire il simultaneus processus non può spingersi sino a sacrificare le regole proprie di ciascun rito e le eventuali decadenze e preclusioni che si siano già eventualmente maturate. Infatti, come già affermato nella precedente pronuncia in materia (Cass. civ., ord., 7 febbraio 2013 n. 7450), l'art. 40 c.p.c prevede una modalità di trattazione di cause soggette a riti diversi, ma ove ciascuna soggiaccia a regole di rito distinte la trattazione cumulativa non consente di salvare decadenze, preclusioni, o rilievi di inammissibilità discendenti dalla introduzione congiunta e dal rispetto del rito della causa “attraente”.

Tali principi sono stati da sempre sanciti dalla giurisprudenza con particolare riferimento al mutamento del rito da ordinario a speciale sulla base di principi di carattere generale applicabili alla fattispecie in commento. Secondo quanto si legge in Cass. civ., sez. III, 22 aprile 2010 n. 9550, il mutamento del rito da ordinario a speciale non determina la rimessione in termini rispetto alle preclusioni già maturate alla stregua della normativa del rito ordinario, non valendo la stessa a ricondurre il processo ad una fase anteriore a quella già svoltasi (principio affermato dalla S.C. in relazione ad una causa in materia di locazione in cui, dopo la trasformazione del rito ex art. 426 c.p.c., erano stati nuovamente prodotti documenti già prodotti tardivamente nell'anteriore corso della causa secondo il rito ordinario); in Cass. civ., sez. III, 30 dicembre 2014, n. 27519 si aggiunge – in linea con la sentenza in commento – non solo che il mutamento del rito da ordinario a speciale non determina la rimessione in termini rispetto alle preclusioni già maturate alla stregua del rito ordinario, ma, sul piano formale, che gli atti posti in essere anteriormente al passaggio al rito speciale devono essere valutati in base alle regole di quello ordinario.

In Cass. civ., sez. III, 3 aprile 2013 n. 8113 viene analizzata la particolare ipotesi in cui si trovino cumulate fra loro per ragioni di connessione due controversie, una delle quali sia soggetta al regime della sospensione dei termini per il periodo feriale.

La Suprema Corte richiamando autorevoli precedenti (Cass. civ., sez. un., 19 ottobre 2000, n. 1122; Cass. civ., 11 agosto 1988, n. 4930) ha affermato il principio per cui , la decisione che intervenga su di esse senza sciogliere detta connessione è soggetta all'applicazione della sospensione; partendo, quindi, dal presupposto che l'impugnazione può coinvolgere la decisione in riferimento ad entrambe le domande connesse, ha ritenuto non concepibile ne' l'operare di due regimi distinti, ne' il non operare della sospensione per tutta la controversia. Poichè la sospensione dei termini per il periodo feriale costituisce la regola e la non operatività della stessa l'eccezione, non sarebbe possibile, si legge nella motivazione, immaginare l'operare dell'eccezione, perché si avrebbe una vera e propria applicazione analogica di essa ad una fattispecie per cui il legislatore non l'ha prevista e non un'interpretazione estensiva (Cass. civ., 29 settembre 2007, n. 20594).

Osservazioni

La decisione della Suprema Corte in commento ribadisce, da una angolatura diversa, un principio ripetutamente affermato, in via generale, per le ipotesi di c.d. mutamento

del rito (artt. 426, 427 e 439 c.p.c.) ovvero quello della “stabilità” delle decadenze e preclusioni già maturate, che non permette alle parti di ricondurre il processo ad una fase anteriore a quella già svoltasi e che non subisce alcuna deroga per effetto del cumulo per connessione di cause soggette a riti diversi.

Le questioni attinenti al mutamento del rito si pongono quando, all'interno di uno stesso ordinamento giuridico, si ammette la possibilità di decidere controversie aventi un diverso oggetto utilizzando differenziati schemi processuali, adeguando, così, il processo alla realtà sostanziale.

Rientra, comunque nelle scelte del legislatore considerare la corretta individuazione del rito come elemento indispensabile per poter decidere nel merito la controversia, in altre parole far assurgere la questione relativa al rito al livello dei presupposti processuali oppure non attribuire alla sua esatta individuazione il ruolo di condizione di decidibilità nel merito.

La prima opzione comporta essenzialmente che dalla erronea individuazione del rito deriva la invalidità di tutti gli atti compiuti, con la conseguente necessità di rinnovare il processo sin dall'inizio della fase introduttiva. Viceversa, non considerare la correttezza del rito come presupposto della decisione del merito, comporta che la proposizione della domanda con il rito errato non abbia rilevanza in sé per la validità degli atti processuali compiuti.

Il nostro legislatore ha optato per la seconda soluzione semplificando così la disciplina relativa all'errore di rito, e ciò in sintonia con il principio di conservazione degli atti processuali e di economia processuale. Il rito, dunque, non è un presupposto processuale positivo con la conseguenza che gli atti posti in essere secondo regole processuali diverse da quelle che avrebbero dovuto reggere il procedimento, rimangono validi, se tali sono per quello, a torto o a ragione, utilizzato fino al momento in cui viene disposto il mutamento.

Tuttavia, l'erronea scelta del rito continua a rilevare , e nella sentenza in esame se ne apprezzano le conseguenze, in alcuni limitati ambiti in cui l'atto introduttivo prescritto sia il ricorso, come per l'opposizione a decreto ingiuntivo in materie soggette al rito c.d. locatizio (art. 447-bis c.p.c) o nell'opposizione agli atti del giudice dell'esecuzione ai sensi dell'art. 617, comma 2, c.p.c. (Cass. civ., sez. VI, 8 febbraio 2016 n. 2490): in tali casi la valutazione della tempestività dell'opposizione viene operata non già in base alla disciplina dell'erroneo rito scelto (quindi la citazione piuttosto che il ricorso, e, la notificazione dell'atto piuttosto che il suo deposito in cancelleria) ma in base alle regole del rito che avrebbe dovuto essere correttamente adottato. Spunti per un ripensamento della materia si rinvengono, alla stato, solo in alcune pronunce di merito (Trib. Roma, sez. VI, sent., n. 23006/2015 e Trib. Roma, sez. VI, sent., n. 8895/2015) che propongono un superamento dell'orientamento giurisprudenziale che ancora si rifà a Cass. civ., sez. III, 2 aprile 2009 n.8014 e Cass. civ., sez. un., n. 2714/1991, argomentando dalla disposizione – di portata innovativa – contenuta nell'art. 4 del d.lgs. n. 150/2011, recante «disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell'art. 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69» .

Sembrerebbe, infatti, chiara e testuale la volontà del legislatore di ricollegare, alla scelta - ancorché erronea - di un rito, all'atto della proposizione della domanda, l'applicazione di tutto il correlativo sistema di preclusioni e decadenze predisposto dalla legge processuale, e ciò sino a quando il giudice non disponga (attraverso l'ordinanza di "mutamento del rito") l'adeguamento del rapporto processuale al modulo prescritto per il particolare tipo di controversia innanzi a lui pendente. Inoltre, la esplicita clausola di salvaguardia degli effetti processuali dell'atto introduttivo del giudizio (contenuta nell'art. 4 sopra riportato), dovrebbe applicarsi secondo il Tribunale di Roma – nel rispetto degli artt. 3 e 24 Cost. - a tutti i rapporti processuali in cui si presentasse lo stesso identico problema, dovuto alla scelta di un rito diverso da quello prescritto dalla legge.

Fino a che, tuttavia, la Suprema Corte non avvallerà tale orientamento, le conseguenze che derivano dall'erronea scelta del rito non sono superabili neanche per effetto del fenomeno “attrattivo” che discende dall'art. 40, comma 5, c,p.c. non venendo meno la originaria autonomia delle cause le quali – fino al provvedimento ex art. 426 c.p.c - rimangono ciascuna assoggettata al proprio regime processuale risultando irrilevante “la colpevole ignoranza dell'effettivo carattere della controversia“ (Cass. civ., n. 5971/1995) al punto che neanche l'accettazione del contradditorio elimina le prescrizioni già verificatesi (Cass. civ., n. 8411/2003) fatta eccezione per la formazione del giudicato.

Guida all'approfondimento

BALENA , Istituzioni di diritto processuale civile, IV Ediz., Bari, 2015;

CONSOLO C., Codice di procedura civile , Tomo I, V edizione, Milano, 2013;

MERLIN E, Connessione di cause e pluralità dei riti nel nuovo art. 40 c.p.c in Riv. Trim dir. e proc. civ. 1989,751;

PROTO PISANI, Appunti sulla connessione, in Dir. Giur. 1993,1;

SEGRE' T., La connessione nella competenza per materia e valore , in Studi in onore di Enrico Tullio Liebman, II, Giuffrè, 10979,871;

TARZIA, Connessione di cause e “ simultaneus processo” in Riv. Trim. Dir e proc. civile 1988,397 e ss; Voce “Connessione” in Enc. Giur. Treccani, VIII, Roma 1988 (con una postilla di agg. di MERLIN E).

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