La giurisdizione del giudice ordinario e il comportamento della pubblica amministrazione
23 Novembre 2016
Massima
Rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la controversia in cui si lamenta la mancata adozione di idonee cautele protettive del patrimonio privato, cadendo la contestazione sul diritto soggettivo leso dalla P.A. - ovvero dalla società privata incaricata dell'esecuzione dell' opera pubblica - ed essendo perciò il giudice ordinario chiamato a conoscere gli effetti dei comportamento colposo della P.A., non anche a sindacare l'uso che del suo potere discrezionale questa abbia fatto. Il caso
Gli attori convennero avanti al Tribunale Ordinario R.F.I. s.p.a. e V impresa P. deducendo di essere proprietari di un immobile, un caseggiato, interessato dai lavori di realizzazione della nuova linea ferroviaria, appaltati da R.F.I. s.p.a. alla suddetta impresa, che durante l'esecuzione dei lavori di scavo di una galleria artificiale, a ridosso dell' edificio, aveva subito consistenti lesioni che ne avevano compromesso la stabilità e la sicurezza. Chiedevano ai sensi dell'art. 2043 c.c. l'accertamento della responsabilità anche per inadempimento agli obblighi assunti con i convenuti, e la condanna all' esecuzione delle opere di consolidamento dello stabile e al risarcimento dei danni per il diminuito valore dell'immobile. Il Tribunale Ordinario declinò la giurisdizione ai sensi dell'art. 34, D.Lgs. n. 80/1998, ravvisando la natura pubblica delle opere implicanti atti e provvedimenti in materia edilizia e urbanistica, ritendendo irrilevante la natura privata dell'impresa appaltatrice, da equiparare invece alla P.A. visto il perseguimento degli interessi pubblici, ed essendo quindi competente la giurisdizione amministrativa sulle domande di risarcimento del danno causato da comportamenti riconducibili ad atti amministrativi nell' esercizio, anche mediato, del potere pubblico. La Corte di Appello ha confermato la declinatoria della giurisdizione sulla premessa che l'opera ferroviaria di cui è controversia è il risultato dell'approvazione di un progetto di opera pubblica nell' ambito dei suddetto accordo di programma, di indubbia espressione di potestà pubblica e pertanto a norma dell' art. 34 D.Lgs. n. 80/1998, come riformulato per effetto della sentenza della Corte Cost. n. 204/2004, e trasfuso poi nell' art. 133, D.Lgs. n. 104/2010, appartengono alla giurisdizione amministrativa le controversie su atti e provvedimenti amministrativi in materia edilizia e urbanistica ed il criterio di riparto dalla giurisdizione tra il G.O. e il G.A. è la distinzione tra comportamenti riconducibili all' esercizio dei pubblici poteri e meri comportamenti attraverso i quali la P.A. non esercita alcun potere, neppure mediato. Avverso questa sentenza gli attori proponevano ricorso in Cassazione. La questione
La questione in esame è la seguente: è sindacabile dal Giudice Ordinario la condotta della Pubblica Amministrazione che si è resa inadempiente ad un accordo per il consolidamento e il ripristino di un immobile danneggiato dalla realizzazione di un'opera pubblica ovvero la condotta della Pubblica Amministrazione che comunque a priori non osservando le regole tecniche, la diligenza e prudenza ha causato danni al proprietario del detto immobile? Le soluzioni giuridiche
La pronuncia in esame si pone nel solco del tradizionale orientamento che malgrado i numerosi interventi del Legislatore e della Consulta inerenti il riparto di giurisdizione ha costantemente affermato che la discrezionalità della pubblica amministrazione, in ordine ai criteri ed ai mezzi relativi all'esecuzione e manutenzione della opera pubblica, trova un limite nel dovere di osservare, nella attività relativa, non solo le norme di legge e regolamentari, ma anche quelle tecniche e di comune prudenza e diligenza e, in ispecie, la norma primaria e fondamentale del neminem laedere, per evitare che derivino danni a diritti dei privati, quali quelli alla vita, all'incolumità, al patrimonio. Tale orientamento è consolidato nella giurisprudenza di legittimità fin dalla sentenza Sez. Un. del 23 agosto 1973 n. 2378 e ribadito nelle numerosissime successive pronunce di cui ex pluribus Cass., Sez. I, sent., 17 maggio 1973 n. 1409, Cass., Sez. Un., sent., 28 maggio 1975 n. 2156, Cass., sez. III, sent., 7 novembre 1975, n. 3771, Cass.,sent., 24 gennaio 1995,n. 809, Cass.,sez. III,sent.,28 aprile 1997,n. 3631, Cass.,Sez. III, sent.,11 gennaio 1988, n. 35, Cass.,Sez. Un., 12 gennaio 2005 ord., n.386, Cass.,Sez. Un.,ord., 14 gennaio 2005,n. 599, Cass.,Sez. Un., ord.,17 gennaio 2005 n. 730, Cass., Sez. Un., ord.,18 ottobre 2005,n. 20123, Cass.,Sez. Un.,sent., 28 novembre 2005,n. 25036,; Cass.,Sez. Un., 20 ottobre 2006sent., n. 22521, Cass., Sez. Un.,ord., 13 dicembre 2007,n. 26108, Cass.,Sez. Un., ord., 20 marzo 2008n. 7442, Cass., Sez. Un., ord., 14 marzo 2011, n. 5926, Cass., Sez. Un., Ord., n. 25982 del 22 dicembre 2010. La giurisprudenza, dopo aver inizialmente enunciato il principio sopra menzionato, ha poi approfondito alcune profili sottesi, specialmente in ordine ai riflessi del riparto in relazione ai mezzi di tutela. Infatti ha avuto modo di specificare che spetta alla giurisdizione del giudice ordinario non solo ove la domanda sia volta a conseguire la condanna della P.A. al risarcimento del danno patrimoniale, ma anche ove sia volta a conseguire la condanna della stessa ad un "facere", giacché la domanda non investe scelte ed atti autoritativi dell'amministrazione ma attività soggetta al rispetto del principio del "neminem laedere". Secondo la giurisprudenza, non sarebbe da ostacolo il disposto dell'art. 34 del d.lgs. n. 80/1998, come sostituito dall'art. 7 della l. n. 205/2000, là dove devolve al giudice amministrativo le controversie in materia di urbanistica ed edilizia giacché, a seguito dell'intervento parzialmente caducatorio recato dalla sentenza Corte Cost., n. 204/2004, nell'attuale assetto ordinamentale, la giurisdizione esclusiva nella predetta materia non è estensibile alle controversie nelle quali la P.A. non eserciti alcun potere autoritativo finalizzato al perseguimento degli interessi pubblici alla cui tutela sia preposta. Per quel che consta vi è un solo precedente che appare divergere, ma in sostanza conferma l'orientamento. Si tratta del caso deciso dalla Cass., Sez. Un., 6 agosto 1998, sent., n. 7706. In questa vicenda è stata negata la giurisdizione del giudice ordinario in quanto l'attore, che lamentava il mancato guadagno dell'imprenditore per le difficoltà ( o l'impossibilità) di accesso della clientela al proprio esercizio commerciale, in conseguenza del protrarsi dei lavori di manutenzione di una strada pubblica, prospettava come causa della lesione l' inadeguata valutazione da parte dell'ente proprietario della complessità delle opere e l'omesso espletamento delle opportune indagini e verifiche tecniche. La Suprema Corte ha ritenuto che in tal caso il vaglio della domanda risarcitoria dovesse impingere, per come prospettata dallo stesso attore, in questioni rimessi attinenti a scelte di stretta spettanza della Pubblicazione Amministrazione e non a meri comportamenti della stessa eventualmente riconducibili ai fatti illeciti. Emerge chiaramente, sebbene sottilmente, la differenza con la pronuncia in esame in questo breve commento. Gli attori prospettano che la causa della lesione è: a monte la compromissione dell'edificio di loro proprietà a causa della negligente esecuzione dell'opera ferroviaria a cura della ditta appaltatrice e a valle l'inadempimento ad un impegno che la Pubblica Amministrazione e l'impresa appaltatrice avrebbero assunto per rimediare ai danni causati all'edificio. La causalità qui si pone con un comportamento meramente materiale senza alcuna implicazione di scelta discrezionale. Tribunale Ordinario e Corte di Appello hanno ritenuto invece che la natura pubblica dell'opera, approvata in esecuzione di uno specifico progetto nell'ambito di un accordo di programma tra Ministero dei Trasporti e Ferrovie dello Stato, implicasse scelte anche di «localizzazione, di mezzi, di strumenti di tempi e modalità» squisitamente discrezionali e pertanto espressione dell'esercizio anche mediato del potere pubblico, non sindacabili dal giudice ordinario. Tuttavia non era in quei termini che gli attori avevano prospettano il proprio danno. Come invece ha correttamente rilevato la Cassazione nella pronuncia in esame, gli attori facevano derivare il proprio pregiudizio non tanto da un errore di valutazione dell'opera da parte della Pubblica Amministrazione ma piuttosto ma da errori di esecuzione. Più precisamente erano stati formalizzati con R.F.I. e Italferr s.p.a. un accordo con cui i ricorrenti accettavano un indennizzo calcolato ai sensi dell'art. 46, legge n. 2359/1865 in conseguenza dei deprezzamento commerciale che il proprio immobile aveva subito a causa della vicinanza della nuova sede ferroviaria e degli interventi di sottomurazione concordati, che erano necessari per mettere la costruzione in sicurezza. Peraltro a questo accordo ne era succeduto un altro che, per porre rimedio a nuove gravi lesioni sul fabbricato e sul sedime circostante, prevedeva altri lavori di sottomurazione, oltre alla rimessione in pristino stato dell' edificio e delle relative pertinenze. Era infine stabilita, qualora poi interventi concordati non avessero sortito nessun effetto, l' acquisizione dell'immobile al valore indicato dalle parti. Gli attori lamentavano in primo luogo che gli impegni assunti dalla Pubblica Amministrazione e dalla impresa appaltatrice erano rimasti disattesi. In ogni caso evidenziavano che le scelte tecniche non avevano rispettato principi di prudenza e diligenza. Diversamente nella menzionata sentenza del 1998, parte attrice si doleva del merito delle valutazioni sottese alle scelte della Pubblica Amministrazione, senza ancorare il parametro che si asseriva violato ai canoni c.d. esterni alla discrezionalità, quali le regole di diligenza ovvero di neminem laedere che ciascun soggetto giuridico deve rispettare. Non può dirsi in generale che le scelte della pubblica Amministrazioni siano sempre insindacabili, né che la possibilità del sindacato dipenda dalla natura di tali scelte (se tecniche ovvero amministrative- politiche in senso stretto); che al contrario può dall'angolazione dalla quale si chiede al giudice lo scrutinio e quindi come detto dal parametro che si asserisce violato. I limiti interni alla discrezionalità amministrativa sono intangibili, quelli esterni sono sindacabili. Osservazioni
La pronuncia impone una breve escursione sul criterio del riparto giurisdizionale. A seguito del “concordato” tra Cassazione e Consiglio di Stato, sancito dalla prima con la pronuncia Cassazione Sezioni Unite 15 luglio 1930 e dal secondo dalla Adunanza Plenaria n. 1 e 2 del 1930, fu consacrato il criterio della causa petendi in base alla quale dovevano concorrere sia il profilo del petitum formale sia a causa petendi; in altri termini, l'annullamento di un atto autoritativo può essere chiesto solo quando la pretesa sostanziale riguardasse interessi legittimi e non diritti soggettivi. È invalso l'uso di chiamare “petitum sostanziale” tali crasi tra causa petendi e petitum formale (c.d. immediato), che è concetto estraneo alla dogmatica della azione e che si avvicina piuttosto al bene della vita che si vuole dal processo ( c.d. petitum mediato). Tale criterio fondato sulla natura giuridica della posizione soggettiva dedotta in giudizio ha ricevuto poi anche copertura costituzionale dall'art. 103 comma 1 e 113 della Costituzione, che pertanto recepisce il riparto delineato dal combinato disposto dell'art. 2 L.A.C. e dell'art. 26 T.U. delle leggi sul Consiglio di Stato. Tuttavia esso pone due problemi all'interprete:
Quanto al primo profilo, agli albori era emersa la teoria della prospettazione secondo cui l'identificazione della posizione giuridica soggettiva dedotta in giudizio deve farsi in base alle allegazioni contenute nell'atto introduttivo del processo secondo la qualificazione che ne fa l'interessato. La teoria è stata ben presto superata dalla Cass., Sez. Un., 24 giugno 1897 n. 428 che correttamente affermava è compito esclusivo del giudice la qualificazione della posizione giuridica azionata. Poi si è utilizzato il criterio della forma giuridica dell'atto in base al quale il riparto tra giurisdizioni corrispondeva al confine tra l'attività di diritto privato e l'attività di diritto amministrativo. Tuttavia anche questa teoria non soddisfa pienamente in quanto vi sono attività, si pensi all'espropriazione per pubblica utilità, dove il proprietario è titolare di interesse legittimo a fronte dell'attività ablativa della pubblica amministrazione e nello stesso tempo è titolare anche di un diritto soggettivo verso la stessa di essere indennizzato dell'esproprio subito. Altra tesi tradizionale è quella dell'affievolimento: ove la norma preveda e disciplina un potere autoritativo della P.A. i provvedimenti adottati in violazione di quella norma comportano la degradazione dei diritti. Pertanto se tale potere è stato “usato” male, il sindacato spetta al giudice amministrativo, laddove, invece, tale potere non sussisteva, la giurisdizione spettava al giudice ordinario. Tale tesi, sostenuta da autorevole dottrina, è stata criticata sotto molti aspetti: in primo luogo pone una scissione tra diritti soggettivi e interessi legittimi, come si è visto in materia espropriativa, invece, coesistono contemporaneamente, in secondo luogo, non collima con l'attuale assetto normativo, in particolare con l'art. 21-septies l. n. 241/90 che prevede la nullità solo in caso di difetto assoluto di attribuzione, lasciando all'area dell'annullabilità, invece, la carenza in concreto del potere amministrativo e pertanto al sindacato del giudice amministrativo. Altra tesi punta sulla natura del potere: se discrezionale, la giurisdizione spetta al giudice amministrativo, se vincolato al giudice ordinario. Non convince del tutto in quanto al giudice amministrativo spettano anche controversie in cui è stato esercitato un potere vincolato ovvero quando l'intermediazione del potere è predeterminata dalla legge in modo assoluto dalla legge. Infatti in questo caso vi è comunque spendita di potere seppure in piccola quota, riferita alla mera applicazione della legge, con esclusione di ogni attività di ponderazione, ovvero apprezzamento di fatti. Veniamo quindi alla tesi che persuade maggiormente, la teoria della norma violata: vi sarebbero le norme di azione, che disciplinano un potere e il suo esercizio, e le norme di relazione che disciplinano il rapporto tra soggetti ed effetti di questo rapporto. La violazione delle prime sarebbe oggetto del sindacato del giudice amministrativo, le seconde del giudice ordinario. Questa tesi ha una solida geometria che consente di ricondurre a logica i diversi schemi effettuali che il giudice ordinario e il giudice amministrativo si trovano ad affrontare. Infatti il primo deve sussumere un fatto in una fattispecie normativa per determinarne gli effetti; il secondo deve affrontare la spendita di potere della pubblica amministrazione che a sua volta ha svolto quell'opera di sussunzione tra fatto e norme, che poi il giudice è chiamato a verificare nella sua corrispondenza a legittimità. Esaminato sotto questa lente, il caso di specie propone un emblematico esempio di una norma di relazione (quella del neminem laedere) che regola il rapporto intersoggettivo tra consociati, a cui nemmeno la Pubblica Amministrazione può sottrarsi né nella sua attività autoritativa né in quella privata. Viene pertanto in gioco una norma di relazione e la giurisdizione spetta al giudice ordinario, secondo appunto il criterio della causa petendi ( o petitum sostanziale che dir si voglia), come la Cassazione ha correttamente rilevato. L'errore delle Corti di merito è stato quello di ricondurre la vicenda alla giurisdizione esclusiva solo in quanto verteva ai sensi dell' art. 34, D.Lgs. n. 80/1998, alla materia edilizia e urbanistica, senza però considerare se vi era stata spendita di potere. Infatti, come ricorda anche la Corte Costituzionale ( Corte cost., sent., n. 204/2004 e Corte cost., sent., n. 191/2006), la giurisdizione esclusiva si giustifica in presenza di un intreccio tra diritti soggettivi e interessi legittimi. In carenza di detto presupposto e in presenza solo di diritti soggettivi, quale il diritto di non vedere leso il proprio patrimonio ( nel caso specie il proprio bene immobile) da un comportamento colposamente negligente della pubblica amministrazione, allora sussiste solo la giurisdizione del giudice ordinario. Sia consentita un'ultima chiosa. Adagiandosi su vecchi stilemi, la Corte ha quasi rievocato in prima battuta una diversa prospettiva per giustificare il sindacato del giudice ordinario, ovvero la norma violata apparterrebbe ai “limiti esterni” della discrezionalità amministrativa, e quindi il suo sindacato sarebbe consentito perché non tange la riserva di merito attribuita all'autorità. Insomma il sindacato impingeva solo sul piano della legittimità, il che è vero in realtà, ma la Corte sembra definirlo “limite esterno” alla discrezionalità stessa, come se quest'ultima peraltro fosse coincidente concettualmente con il merito. Di contro secondo la dottrina più recente, la legittimità è un predicato della discrezionalità amministrativa, come lo è il merito. Ma il punto non è che il sindacato del giudice possa “toccare” la discrezionalità amministrativa solo all'esterno. L'argomento decisivo, su cui, in verità, alla fine converge anche la Cassazione, è che nel caso di specie oggetto del sindacato sono “comportamenti “ (non atti autoritativi), quindi “fatti”, e non “potere” nemmeno mediato della pubblica amministrazione, e, come diremmo alla conclusione di questo breve commento, “norme di relazione” ( diritti soggettivi), e non di azione (interessi legittimi).
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