Primi segnali di destrutturazione del giudizio camerale di secondo grado
08 Agosto 2016
Massima
I procedimenti camerali contenziosi, fermo il rispetto del principio del contraddittorio, sono caratterizzati da particolare celerità e semplicità di forme, sicché con essi sono incompatibili le disposizioni che regolano la fase decisoria nel processo ordinario di cognizione e, segnatamente, quelle di cui agli artt. 189 e 190 c.p.c. Nei procedimenti camerali contenziosi che si svolgono in grado d'appello è legittima la delega allo svolgimento dell'udienza di comparizione delle parti ad uno dei componenti del collegio, poiché tale possibilità è prevista dall'art. 350, comma 1, c.p.c. per il giudizio a cognizione piena, le norme processuali relative al quale, ove non incompatibili, integrano quelle dettate per i procedimenti camerali. Il caso
La vicenda, per quanto interessa le suindicate massime e nei limiti in cui è evincibile dall'ordinanza, può essere riassunta nei termini seguenti. I genitori di un minore sono in conflitto in ordine alle modalità di visita e di contribuzione al mantenimento del figlio; il provvedimento camerale adottato in prima istanza è oggetto di reclamo, da parte del padre, alla Corte di Appello, sez. per i minorenni, il cui presidente fissa un'udienza per la comparizione delle parti avanti ad uno dei consiglieri del collegio giudicante assegnando un termine alla controparte per una memoria di replica. All'esito di tale udienza, nella quale è vanamente esperito anche il tentativo di conciliazione, il decreto del tribunale è parzialmente riformato in ordine alle sole modalità di visita. Il padre del minore propone, quindi, ricorso per cassazione lamentando, nel primo motivo, che non gli è stato concesso un termine per replicare con memoria alle affermazioni erronee e non veritiere contenute nella comparsa di risposta depositata dalla controparte. Il ricorso è respinto con ordinanza della sesta sezione della Corte di Cassazione argomentandosi la manifesta infondatezza del suindicato motivo. La questione
La questione affrontata in rito è se debba considerarsi leso il diritto di difesa, nell'ambito di un procedimento in camera di consiglio in secondo grado, ai sensi degli artt. 737 e ss. c.p.c., ove la trattazione si limiti ad una udienza di comparizione delle parti che si tenga, altresì, davanti non al collegio giudicante bensì ad uno dei consiglieri a tal fine designati. Questione che nella prassi si pone con frequenza in quanto le parti in sede di comparizione avanti al consigliere designato possono rappresentare l'esigenza di una ulteriore trattazione, con fissazione di una nuova udienza o di un termine per lo scambio di memorie, prima che il relatore riferisca in camera di consiglio. Le soluzioni giuridiche
La Corte di cassazione rileva, sulla base del principio di diritto già affermato in Cass. civ., sez. I, 12 gennaio 2007, n. 565, che il diritto al contraddittorio non si esplica nel procedimento in camera di consiglio nelle stesse modalità proprie del rito ordinario, potendo, quindi, legittimamente essere omesse talune scansioni processuali come quelle relative all'udienza di precisazione delle conclusioni ed allo scambio di memorie finali ai sensi degli artt. 189 e 190 c.p.c. Tali disposizioni sono, infatti, da ritenersi incompatibili con il modello camerale, il quale è deformalizzato in ragione delle esigenze di celerità e semplicità che lo caratterizzano e che sono bilanciate dalla ampia possibilità di modifica e revoca del provvedimento finale. È, quindi, sufficiente, al fine di garantire il diritto di difesa in condizioni di parità tra le parti – imprescindibile anche nel procedimento camerale ai sensi dell'art. 24 cost. – che al reclamo sia seguito lo svolgimento effettivo di una udienza di comparizione, previa assegnazione alla parte reclamata di un termine per il deposito di una memoria di replica. Dopo tale scansione, circoscritta al ricorso introduttivo, alla memoria di controparte ed all'udienza di comparizione, il giudizio può essere, pertanto, assunto immediatamente in decisione dal collegio. L'ulteriore profilo di doglianza, relativo alla mancata comparizione della parti avanti al collegio giudicante, è ritenuto parimenti infondato in base al rilievo che «il potere di delega del Collegio ad uno dei componenti è previsto in via generale per l'appello» dall'art.350, comma 1, c.p.c. e che tale «norma deve ritenersi applicabile anche ai procedimenti camerali in fase di appello, in virtù della funzione integrativa delle norme processuali relative al giudizio a cognizione piena anche per i procedimenti camerali, quando, come nella specie, compatibili». Osservazioni
La prima questione di rito, relativa alla mancata concessione di un termine al reclamante per replicare alla memoria di costituzione di controparte, è risolta mediante il richiamo ad un precedente – Cass. civ., n. 565/2007 cit. – che si inserisce in consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità volto ad escludere la compatibilità degli artt. 189 e 190 c.p.c. con il modello del procedimento in camera di consiglio (oltre al citato precedente, Cass. civ., sez. I, 7 febbraio 1996 n. 986; Cass. civ., sez. I, 7 ottobre 2010, n. 20836). Potrebbe, tuttavia, dubitarsi della pertinenza del richiamo agli artt. 189 e 190 c.p.c., vale a dire alle disposizioni processuali relative alla rimessione della causa al collegio – previa precisazione delle conclusioni – ed allo scambio delle comparse conclusionali e memorie di replica. La doglianza del ricorrente non si appunta, invero, sulle modalità osservate nella fase decisoria, bensì su quelle della trattazione, in particolare sulla preclusa attività assertiva, in forma scritta, per controdedurre alla memoria di costituzione di controparte; attività che non potrebbe essere assimilata a quella svolgibile in sede di precisazione delle già formulate conclusioni, né a quella consentite con lo scambio delle memorie conclusionali, volte ad illustrare le sole ragioni giuridiche poste a fondamento delle rispettive postulazioni. Ad una soluzione identica a quella adottata dalla Suprema Corte si perviene, comunque, argomentando dall'assenza di modalità predeterminate ex lege nello svolgimento della trattazione del giudizio camerale e dalla conseguente discrezionalità dell'organo giudicante nella valutazione della congruità del contraddittorio espletato; la discrezionalità è, infatti, tale che si ritiene evitabile la stessa udienza di comparizione ove l'interessato sia, comunque, messo in condizione di produrre memorie e documenti (Cass. civ., sez. I, 10 dicembre 2008, n. 28985), mentre può essere doverosa la fissazione di una seconda udienza, se richiesta, per replicare ai nuovi documenti prodotti dalla controparte in sede di prima comparizione (Cass. civ., sez. I, 25 ottobre 2005, n. 20670). Il secondo profilo della questione, relativo al difetto di collegialità nella trattazione, è risolto argomentando, invece, la compatibilità di una recente disposizione del rito ordinario di appello con il modulo del procedimento camerale: si tratta del potere di delegare uno dei componenti del collegio «per l'assunzione dei mezzi istruttori» (art. 350, comma 1, c.p.c. così come novellato dall'art. 27, comma 1, lett. b), l. 12 novembre 2011, n. 183, applicabile a decorrere dal 31 gennaio 2012 ai sensi dell'art. 27, comma 2, l.cit.). Anche di tale specifico richiamo alla disciplina ordinaria dell'appello è, tuttavia, revocabile in dubbio la pertinenza, in quanto l'art. 350, comma 1, si riferisce espressamente alla sola istruttoria, mentre il motivo del ricorso per cassazione concerne nel caso di specie una presunta amputazione della fase della trattazione. Si potrebbe, tuttavia, configurare la delega per l'assunzione delle prove non già come eccezione alla regola della integrale collegialità in grado di appello – come tale insuscettibile di applicazione analogica ex art. 14 disp. prel. c.c. - bensì come manifestazione di un più ampio potere di decentramento tra i consiglieri delle attività non propriamente decisorie, in tal senso ammettendo che alla deformalizzazione del procedimento corrisponda anche una destrutturazione dello stesso organo giudicante. Tale ricostruzione non sembra trovare, invero, conforto nel tenore letterale dell'art. 350, comma 1, ove si afferma univocamente che «la trattazione dell'appello è collegiale ma ….» così introducendosi, almeno nelle intenzioni, una chiara eccezione alla regola generale; non è, però, da sottovalutare che nell'ambito del procedimento camerale di primo grado, parimenti rimesso alla cognizione dell'organo collegiale (art. 50-bis, comma 2, c.p.c.), la giurisprudenza di legittimità è consolidata nel senso che il diritto di difesa può essere compiutamente esercitato, attraverso l'audizione ed il deposito di memorie e documenti, anche davanti al solo giudice relatore: così, in tema di dichiarazione di fallimento, Cass. civ., sez. un., 25 giugno 2013, n. 15872; Cass. civ., sez. I, 1 luglio 2004, n. 12029. Si può, pertanto, ragionevolmente presagire che le esigenze di economia delle risorse e di semplificazione del rito, chiaramente informanti il procedimento camerale, si spingano anche oltre la cittadella del primo grado per ridimensionare, al di là delle originarie timide intenzioni del legislatore del 2011, il dogma della collegialità del gravame. |