ATI: legittimazione passiva della capogruppo ed onere della prova
25 Ottobre 2016
Massima
Sebbene, in assenza di una diversa volontà in tal senso, debba escludersi la creazione di un autonomo soggetto giuridico, il rapporto interno caratterizzante il raggruppamento temporanee di imprese costituito per lo svolgimento di un appalto è riconducibile ad un mandato – con la capogruppo quale mandataria delle altre partecipanti – la cui onnicomprensività, riguardante gli atti per cui è stato espressamente conferito e quelli necessari al loro compimento, ne comporta la conclusione soltanto al termine dell'esecuzione dell'appalto stesso. Pertanto ogni singola impresa o soggetto associato può sicuramente far valere nei confronti della mandataria l'eventuale responsabilità per il mancato adempimento degli obblighi scaturenti dal contratto, senza che questa richiesta investa necessariamente la partecipazione degli altri associati. Si ha violazione dell'art. 2697 c.c. soltanto quando il giudice abbia attribuito l'onere della prova ad una parte diversa da quella che ne è gravata secondo le regole dettate da tale norma, non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizione istruttorie, il giudice abbia errato nel ritenere che la parte onerata abbia assolto tale onere, in tale situazione potendosi effettuare un sindacato di legittimità soltanto nei limiti del vizio di cui all'art. 360 n. 5 c.p.c.. Il caso
La società capogruppo di una associazione temporanea di imprese chiamava in giudizio un professionista, a sua volta associato e parte del suddetto raggruppamento temporaneo di soggetti, chiedendone la condanna alla restituzione dell'importo di oltre 600.000 euro, quale differenza fra le somme medio tempore a questi erogate e quanto invece ritenuto dovuto sulla scorta di verifiche compiute applicando le tariffe professionali vigenti. Si costituiva il convenuto non soltanto resistendo all'avversa richiesta ma, dopo aver dedotto che le parti avevano espressamente quantificato il compenso in una specifica percentuale proporzionale alla partecipazione nell'ATI, svolgendo domanda riconvenzionale per l'ulteriore importo di Euro 124.000 circa, dovuto in relazione ad ulteriori prestazioni eseguite. Nel frattempo, lo stesso professionista otteneva decreto ingiuntivo recante la condanna della stessa capogruppo al pagamento della somma di euro 120.000 in relazione alle prestazioni eseguite su altro e diverso lotto di lavori. Radicatasi l'opposizione, le due cause venivano riunite in primo grado e decise con il rigetto di tutte le domande. Il giudizio di appello, invece, si concludeva favorevolmente al professionista, posto che la società mandataria veniva condannata a versare al convenuto l'ulteriore somma di Euro 124.000 nonché - dandosi atto del pagamento spontaneo dell'importo capitale oggetto del provvedimento monitorio e previa revoca dello stesso - al pagamento degli interessi sulla somma di Euro 120.000. Avverso il provvedimento della Corte d'Appello, veniva proposto ricorso per cassazione, affidato ai seguenti motivi: a) Violazione di legge, in quanto - premesso che l'associazione temporanea di imprese non aveva creato alcun rapporto societario od associativo e che il rapporto di mandato fra i partecipanti e la capogruppo non determina di per sé organizzazione od associazione delle imprese riunite - sussisteva in primo luogo un difetto di legittimazione passiva della capogruppo rispetto alle richieste di pagamento del professionista associato, che avrebbe invece dovuto rivolgere le proprie pretese verso ciascuno degli altri mandanti, nei limiti della quota ad ognuno di essi riferibile; b) Ulteriore violazione di legge nell'applicazione dell'onere della prova a carico del professionista, rispetto al quale era stato eccepito comunque l'inadempimento, che avrebbe dovuto pertanto dimostrare di avere regolarmente svolto i compiti e le mansioni di cui chiedeva il pagamento. In connessione con tale motivo di ricorso, ci si doleva altresì della contraddittorietà della motivazione circa un punto controverso e decisivo per il giudizio, posto che se da un lato l'onere della prova era del professionista asserito creditore, dall'altro non potevano trarsi conseguenze probatorie sfavorevoli dalla mancata ammissione delle richieste di prova invece avanzate dalla ricorrente capogruppo; c) Altri vizi della sentenza impugnata venivano infine individuati nell'erroneo apprezzamento di elementi istruttori (libro giornale dei lavori oggetto d'appalto) o di comportamenti del creditore pure rilevanti a livello probatorio (mancata presentazione da parte del professionista delle proprie fatture alla stazione appaltante), ovvero su una presunta violazione di legge derivante dal ritenuto mutamento della domanda riconvenzionale del convenuto, che in primo grado avrebbe fondato la richiesta di pagamento su un accordo e solo in appello (anche) sulla esecuzione delle proprie prestazioni. La questione
La questione in esame attiene, da un lato, alla qualificazione del rapporto giuridico che si instaura fra soggetti partecipanti ad un raggruppamento temporaneo di imprese (nel caso di specie regolato ratione temporis dall'art. 11 del d. lgs. 17 marzo 1995, n. 157) nei confronti della capogruppo, con i conseguenti riflessi in ordine alla legittimazione passiva di quest'ultima rispetto alle pretese del singolo associato. Va infatti ricordato che i commi 6 e 7 del citato art. 11 prevedevano che «…6. Al mandatario spetta la rappresentanza, anche processuale, delle imprese mandanti nei riguardi dell'amministrazione per tutte le operazioni e gli atti di qualsiasi natura dipendenti dal contratto, anche dopo l'eventuale collaudo, fino all'estinzione del rapporto. Tuttavia l'amministrazione può far valere direttamente le responsabilità a carico delle imprese mandanti. 7. Il rapporto di mandato non determina di per sé organizzazione o associazione fra le imprese riunite, ognuna delle quali conserva la propria autonomia ai fini della gestione, degli adempimenti fiscali e degli oneri sociali». Si noti peraltro che questa considerazioni mantengono la propria attualità, posto che detta parte di disposizione, pur abrogata formalmente dal c.d. Codice degli appalti di cui al d. lgs. n. 163/2006, risulta in quest'ultimo tessuto normativo pedissequamente riprodotta all'art. 37, commi 16 e 17, ed oggi nuovamente contenuta senza modifiche all'art. 48, commi 15 e 16 dell'ultimo Codice degli appalti, approvato con d. lgs. 18 aprile 2016, n. 50. Sotto altro profilo la questione affrontata attiene allo sperimentato, ma sempre controverso, versante del riparto dell'onere della prova nell'ambito dei rapporti contrattuali, dovendosi in realtà distinguersi – come bene messo in evidenza nella motivazione della sentenza annotata –fra erronea attribuzione del riparto dell'onere della prova, ex art. 2697 c.c. e, premessa la correttezza di tale pregiudiziale individuazione, contestata valutazione delle risultanze istruttorie, poiché solo nel primo caso può darsi luogo ad un effettivo errore di diritto denunciabile ai sensi dell'art. 360 n. 3 c.p.c. Le soluzioni giuridiche
Punto centrale della decisione è il riconoscimento del rapporto fra capogruppo e soggetti partecipanti ad un raggruppamento temporaneo di imprese nei termini di un contratto di mandato. Tale ricostruzione non è nuova. Ad esempio, solo per ricordare gli arresti più recenti, Cass. civ., 27 aprile 2016, n. 8407, partendo da tale qualificazione, ha ritenuto tuttavia pienamente derogabile dalle parti il tradizionale principio secondo cui delegatus delegare non potest, ritenendo quindi valida la pattuizione con cui gli associati conferiscono procura al rappresentante della capogruppo che, a sua volta, possa trasmettere detta rappresentanza ad un soggetto diverso, anche se a sua volta mandatario. Ancora, Cass. civ., 05 aprile 2012, n. 5526, ha affermato che il contratto autonomo di garanzia prestato dalla mandataria capogruppo all'ente appaltante vincola anche le imprese associate, le quali restano obbligate in via di regresso verso la garante escussa dalla committente. La precedente Cass. civ., 28 novembre 2011, n. 25204, inoltre, dopo aver ritenuto che alla capogruppo spetta «la rappresentanza esclusiva, anche processuale, delle imprese mandanti nei confronti del soggetto appaltante per tutte le operazioni e gli atti di qualsiasi natura dipendenti dall'appalto, anche dopo il collaudo dei lavori, fino all'estinzione di ogni rapporto», riconosce la legittimazione passiva della stessa verso la committente, che non dovrà perciò agire necessariamente nei confronti delle singole associate. I giudici di legittimità convengono sul fatto che in assenza di una espressa volontà in tal senso, la costituzione dell'ATI non implica una parallela costituzione di un nuovo soggetto giuridico, né implica la creazione di organi comuni o una gestione di carattere unitario. Ma questo non può comportare un difetto di legittimazione passiva della capogruppo di fronte alla richiesta di pagamento avanzata dal singolo associato, che resta perciò titolare del diritto di rivolgersi alla mandataria per esigere quanto di spettanza, senza la necessità di chiamare in giudizio gli altri mandatari per richiedere il dovuto a ciascuno di essi, e nei soli limiti della quota di partecipazione. Tanto premesso, il secondo corno della decisione si incentra sulla problematica fra distribuzione dell'onere della prova ed erronea valutazione delle risultanze istruttore (che si pone logicamente come un posterius rispetto alla pregiudiziale identificazione del soggetto cui incombe l'onus probandi). In motivazione si evince che correttamente l'onere della prova è stato posto a carico di colui che si affermava creditore del residuo compenso, sicchè nessuna violazione dell'art. 2697 c.c. era in concreto configurabile. La circostanza che la Corte d'appello avesse dato rilievo ad alcune prove piuttosto che ad altre, come pure a comportamenti della stessa capogruppo qualificati come indizi non risultava perciò censurabile, anche perché appare pacifico che l'assolvimento dell'onere della prova, in assenza di prescrizione legale, soggiace ad un principio di atipicità e di libertà delle fonti di prove, comprese quelle di contenuto indiziario. Osservazioni
I principi affermati dal S.C. appaiono pienamente condivisibili e si fondano su un parallelismo conforme a buona fede fra legittimazione attiva della mandataria verso la committente, in relazione al compimento degli atti necessari allo svolgimento dell'appalto ed alla riscossione del corrispettivo e legittimazione passiva verso le pretese del singolo mandante che non abbia ricevuto la quota di compensi allo stesso dovuta. Quanto alla modalità, sostanzialmente libera in assenza di previsione legale più specifica, di assolvimento dell'onere della prova, si possono consultare: a) Cass. civ, 01 settembre 2015, n. 17392, in tema di atipicità delle prove: «nell'ordinamento processuale vigente manca una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi di prova, sicché il giudice può legittimamente porre a base del proprio convincimento anche prove cd. atipiche, quali le dichiarazioni scritte provenienti da terzi, della cui utilizzazione fornisca adeguata motivazione e che siano idonee ad offrire elementi di giudizio sufficienti, non smentiti dal raffronto critico con le altre risultanze istruttorie, senza che ne derivi la violazione del principio di cui all'art. 101 c.p.c., atteso che, sebbene raccolte al di fuori del processo, il contraddittorio si instaura con la produzione in giudizio».
b) Cass. civ., 03 marzo 2016, n. 4241, sulla pari dignità fra presunzione semplice e presunzione legale: «la presunzione semplice e la presunzione legale iuris tantum si distinguono unicamente in ordine al modo di insorgenza, perché mentre il fatto sul quale si fonda la prima dev'essere provato in giudizio ed il relativo onere grava su colui che intende trarne vantaggio, la seconda è stabilita dalla legge e, quindi, non abbisogna della prova di un fatto sul quale possa fondarsi e giustificarsi. Una volta, tuttavia, che la presunzione semplice si sia formata e sia stata rilevata, essa ha la medesima efficacia che deve riconoscersi alla presunzione legale iuris tantum, quando viene rilevata, in quanto l'una e l'altra trasferiscono a colui, contro il quale esse depongono, l'onere della prova contraria, la cui omissione impone al giudice di ritenere provato il fatto previsto, senza consentirgli la valutazione ai sensi dell'art. 116 c.p.c.». Del pari occorre nuovamente sottolineare, in conclusione, come la modifica dell'art. 360 n. 5 c.p.c. abbia di molto ristretto la “cruna dell'ago” attraverso la quale incidere sulla possibilità di rivisitazione valutativa del materiale probatorio della causa, fondandosi la nuova censura non più su di un semplice difetto motivazionale, bensì soltanto sull' «omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti». |