Il nuovissimo «filtro» in cassazione non è incostituzionale

Mauro Di Marzio
27 Gennaio 2017

Non lede il diritto di azione né il principio del contraddittorio, costituzionalmente tutelati dagli artt. 24 e 111 Cost., la previsione dell'art. 380-bis c.p.c., nel testo oggi vigente.
Massima

Non lede il diritto di azione né il principio del contraddittorio, costituzionalmente tutelati dagli artt. 24 e 111 Cost., la previsione dell'art. 380-bis c.p.c., nel testo oggi vigente, laddove contempla la decisione all'esito della camera di consiglio non partecipata e non della pubblica udienza, a seguito di una semplice «proposta», non ulteriormente illustrata, da parte del relatore.

Il caso

Dopo un intervento chirurgico, un uomo agisce in giudizio nei confronti della Fondazione che gestisce l'ospedale presso il quale è stato operato, chiedendo il risarcimento dei danni che assume di aver subito.

La domanda è respinta sia in primo grado che in secondo: ed è respinta con la medesima motivazione in fatto, ossia, a quanto è dato comprendere, sulla base delle risultanze della consulenza tecnica d'ufficio.

Contro la sentenza d'appello, l'uomo propone ricorso per cassazione per un motivo svolto ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3 (violazione di legge) e n. 5 (vizio di motivazione), c.p.c..

Il relatore incaricato di scrutinare del ricorso presso la sesta sezione civile della Corte di cassazione formula una proposta di dichiarazione di inammissibilità del ricorso, proposta che viene comunicata al ricorrente.

Quest'ultimo deposita una memoria con la quale solleva questione di legittimità costituzionale, in relazione all'art. 24 Cost., dell'art. 380-bis c.p.c., nel testo oggi vigente, laddove esso contempla la decisione all'esito della camera di consiglio, non partecipata, e non della pubblica udienza, per di più a seguito di una semplice «proposta», non ulteriormente illustrata da parte del relatore.

La questione

Questo Portale ha dato ampio spazio all'ultimissima riforma del giudizio di cassazione introdotto dalla legge 25 ottobre 2016, n. 197, di conversione del d.l. 31 agosto 2016, n. 168 (v. Riforma giudizio di Cassazione: tutte le novità sul D.L. Giustizia 2016): riforma che, in estrema sintesi, ha di regola «cameralizzato» la decisione di legittimità, facendo della decisione all'esito della pubblica udienza l'eccezione alla regola.

La riforma è altresì intervenuta sul congegno del c.d. «filtro», che in passato era regolato da una procedura senz'altro dispendiosa: il relatore redigeva una relazione che veniva sottoposta al dibattito processuale, sia attraverso lo scambio di memorie, sia attraverso la partecipazione dei difensori delle parti all'udienza camerale, ed era poi seguita dalla decisione con ordinanza ad opera del collegio.

Oggi non è più così. Il relatore non predispone una relazione da comunicare alle parti ma una semplice proposta sostanzialmente «secca»: il modulo predisposto presso la sesta sezione civile della Corte di cassazione, nella versione iniziale, prevedeva soltanto l'indicazione di una delle seguenti ipotesi, senza ulteriori specificazioni: inammissibilità del ricorso, improcedibilità del ricorso, manifesta fondatezza del ricorso, manifesta infondatezza del ricorso, accoglimento parziale. I termini della questione si sono peraltro lievemente modificati per effetto di un protocollo d'intesa del quale dirò più avanti.

Ora, tale previsione — questo il quesito sul quale dobbiamo interrogarci — suscita dubbi di legittimità costituzionale?

Le soluzioni giuridiche

Diciamo subito dell'esito del ricorso, prima di parlare della questione di costituzionalità. Esso viene dichiarato inammissibile con una motivazione che il collegio ha qualificato come «semplificata», secondo quanto prevede il decreto del Primo Presidente della Corte di cassazione n. 136 del 14 settembre 2016 (c.d. «Decreto Canzio»), intitolato per l'appunto: «La motivazione dei provvedimenti civili: in particolare, la motivazione sintetica». Ma, in effetti, dilungarsi più di tanto, indipendentemente dal decreto, sarebbe stato tempo sprecato. Difatti:

  1. nonostante l'indicazione, nella rubrica del motivo, del vizio di violazione di legge, il ricorso (come per la verità succede assai di frequente) poneva soltanto, inammissibilmente, questioni di fatto;
  2. la denuncia del vizio di motivazione, sia pure negli strettissimi limiti in cui essa è oggi consentita dalla vigente formulazione del n. 5 dell'art. 360 c.p.c., era inammissibile, secondo la previsione del quarto comma dell'art. 348-ter c.p.c., essendosi succedute nei gradi di merito due decisioni conformi quanto alla ricostruzione del fatto.

Ora, a me sembra che la sostanza del problema sia semplicissima: non è possibile che la Corte di cassazione sia intasata da ricorsi di simile fattura. Per questo il legislatore è intervenuto sul giudizio di cassazione. Si dirà che la stesura della motivazione semplificata richiede in effetti tempi brevi, e quindi non pesa più di tanto sul lavoro della Cassazione. Ma non è così, il tempo si impiega non tanto a scrivere il provvedimento, facile o difficile che sia, ma soprattutto a studiare la causa, a leggere ricorso, controricorso e sentenza d'appello, che, messi insieme, raramente sommano meno di un centinaio di pagine. Una volta concluso lo studio, per lo più, il resto è un gioco da ragazzi: rem tene, verba sequentur. Dunque, chi propone ricorso inammissibili concorre ad impedire la decisione tempestiva dei ricorsi ammissibili e, perciò, reca danno alla collettività. Il che in linea di principio giustifica l'intervento semplificatore del legislatore.

Detto questo, veniamo alla questione di costituzionalità.

La Corte di cassazione osserva:

  • che il principio di pubblicità dell'udienza, pur avendo rilevanza costituzionale, non riveste carattere assoluto e può essere derogato in presenza di «particolari ragioni giustificative», ove «obiettive e razionali» (Corte cost., 11 marzo 2011, n. 80, in materia di procedimento per l'applicazione di misure di prevenzione);
  • che l'esclusione della pubblica udienza si giustifica in ragione della conformazione complessiva del procedimento di cassazione, diretto a risolvere questioni soltanto di diritto o comunque non di fatto, tramite una trattazione rapida e semplice, destinata a concludersi con ordinanza, tanto più dopo la novella del n. 5 dell'art. 360 c.p.c., che ha ridotto al «minimo costituzionale» (Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053) il sindacato sulla motivazione;
  • che pur essendo l'ordinanza adottata all'esito di una adunanza camerale non partecipata, l'osservanza del principio del contraddittorio è assicurata dalla trattazione scritta della causa, con facoltà delle parti di presentare memorie per illustrare ulteriormente le rispettive ragioni, non solo in funzione delle difese svolte dalla controparte, ma anche in rapporto alla proposta del relatore circa la sussistenza di ipotesi di trattazione camerale, ex art. 375 c.p.c.;
  • che la previsione di una semplice proposta di trattazione camerale da parte del relatore, in luogo della relazione, non intacca alcun principio costituzionale e rientra nell'ambito della discrezionalità del legislatore in ambito processuale.
Osservazioni

Non nutro soverchi dubbi sulla manifesta infondatezza della questione di costituzionalità esaminata dalla Corte di cassazione. Ne nutro invece con riguardo alla complessiva razionalità della riforma, giacché la cameralizzazione del giudizio di cassazione adottata come regola, non solo dinanzi alla sesta sezione, ma anche alla sezione «semplice» (così la chiama il legislatore…), ai sensi dell'art. 380 bis 1 (attenzione alla numerazione, c'è un 1 dopo il bis!), rende la previsione della sesta sezione, dinanzi alla quale si attua il c.d. «filtro», priva di qualunque senso.

Si può discutere dell'opportunità di affidare alla pubblica udienza soltanto le questioni di «valenza nomofilattica». Tanto più che, se passerà una interpretazione strettamente letterale della riforma, in pubblica udienza andranno non soltanto le controversie che impongono la soluzione di questioni attinenti alla «corretta interpretazione» (ma non anche alla «esatta osservanza»), per utilizzare l'espressione impiegata dall'Ordinamento giudiziario, art. 65, ma anche la "robetta" che per qualunque ragione, una volta inviata alla trattazione in sesta sezione, venga da questa rimessa alla sezione «semplice». Ed infatti l'estensore dell'ultimo comma dell'art. 375 c.p.c. lo ha formulato così: «La Corte, a sezione semplice, pronuncia con ordinanza in camera di consiglio in ogni altro caso, salvo che la trattazione in pubblica udienza sia resa opportuna dalla particolare rilevanza della questione di diritto sulla quale deve pronunciare, ovvero che il ricorso sia stato rimesso dall'apposita sezione di cui all'art. 376 in esito alla camera di consiglio». Insomma, parrebbe che dalla sesta sezione si vada soltanto in pubblica udienza, anche se le ragioni dello spostamento dall'una all'altra non abbiano nulla a che vedere con la «valenza nomofilattica». Un capolavoro di coerenza.

Si può discutere, dicevo, dell'opportunità di affidare alla pubblica udienza le sole questioni di «valenza nomofilattica». Ma, certo, o almeno a me pare, non ha ormai alcun senso che certe inammissibilità, ovvero pronunce di fondatezza o infondatezza, vengano risolte in sesta, mentre altre riescano almeno a salire le scale per varcare la soglia della camera di consiglio della sezione «semplice». Il che finisce soltanto per creare effetti di tensione tra l'Avvocatura e la Corte di cassazione e non reca alcun concreto vantaggio al lavoro di quest'ultima.

Effetti di tensione che gli interessati hanno cercato di disinnescare con un Protocollo di intesa sottoscritto il 15 dicembre scorso dal Presidente del Consiglio Nazionale Forense, dal Primo Presidente della Corte di cassazione e dall'Avvocato generale dello Stato. Si tratta di uno strumento che mi pare si collochi nella «tradizione» degli Osservatori sulla giustizia civile, osservatori che certo non hanno cambiato le sorti di essa.

Con riguardo alla proposta, il Protocollo prevede che questa debba indicare:

a) quanto alla prognosi di inammissibilità o di improcedibilità, a quale ipotesi si faccia riferimento (tramite menzione del dato normativo, o in alternativa, del precedente, o ancora con breve formula libera);

b) quanto alla prognosi di manifesta fondatezza, quale sia il motivo manifestamente fondato e l'eventuale precedente giurisprudenziale di riferimento;

c) quanto alla prognosi di manifesta infondatezza, quali siano i pertinenti precedenti giurisprudenziali di riferimento e le ragioni del giudizio prognostico di infondatezza dei motivi di ricorso, anche mediante una valutazione sintetica e complessiva degli stessi, ove ne ricorrano i presupposti.

Si tratterà di una riga più o meno, attraverso la quale l'avvocato potrà capire poco o nulla, e dunque il Protocollo non stempererà più di tanto l'avversione dell'Avvocatura nei confronti della sesta sezione.

Ma il punto non è questo. L'idea della relazione (e non della semplice proposta) preventivamente comunicata agli avvocati delle parti era dettata, se posso esprimermi così, da ragioni di profonda civiltà giuridica. Richiedeva un aggravio di lavoro notevole, esponeva il consigliere relatore alle censure generalmente non proprio bonarie dell'avvocato che si era visto dare prognosticamente torto: ma era decisamente civile l'idea dell'interlocuzione che ne era alla base. La proposta «secca», sia pure con l'aggiunta derivante dal Protocollo, non ha nessuna giustificazione, al punto in cui stanno le cose. Forse che le parti le quali si vedono avviate di fronte alla camera di consiglio della sezione «semplice» ricevono un avviso sul perché e su che cosa succederà?

Per quale ragione, allora, conservare in sesta la previsione — unica mi pare nel contesto dell'ordinamento processual-civilistico — della proposta, quantunque ridotta ad un vuoto ed inutile orpello?

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