Natura del giudizio di appello e specificità dei motivi (la vecchia disciplina)

Francesco Bartolini
29 Marzo 2017

In tema di giudizio di appello, il requisito della specificità dei motivi prescritto dall'art. 342 c.p.c. (nella formulazione, applicabile “ratione temporis”, anteriore alle modifiche introdotte dall'art. 54, comma 1, lett. a, del d.l. n. 83 del 2012, convertito nella legge n. 134 del 2012) impone una verifica in concreto, ispirata ad un principio di simmetria, compiuta mediante il raffronto tra la motivazione del provvedimento impugnato e la formulazione dell'atto di appello.
Massima

In tema di giudizio di appello, il requisito della specificità dei motivi prescritto dall'art. 342 c.p.c. (nella formulazione, applicabile “ratione temporis”, anteriore alle modifiche introdotte dall'art. 54, comma 1, lett. a), d.l. n. 83/2012, convertito nella l. n. 134/2012) impone una verifica in concreto, ispirata ad un principio di simmetria, compiuta mediante il raffronto tra la motivazione del provvedimento impugnato e la formulazione dell'atto di appello, nel senso che, quanto più approfondite e dettagliate risultano le argomentazioni del primo, tanto più puntuali devono profilarsi quelle utilizzate nel secondo per confutarne l'impianto motivazionale.

Il caso

Il Tribunale di Marsala respinse la domanda con la quale si chiedeva di dichiarare revocati, ai sensi dell'art. 686 c.c., i legati disposti, a favore del convenuto, in un testamento olografo o, in subordine, ove si fosse ritenuto che quel testamento conteneva una istituzione di erede, che lo stesso convenuto fosse dichiarato decaduto dalla facoltà di accettare l'eredità. Con la stessa pronuncia era rigettata la domanda riconvenzionale avente ad oggetto la vantata qualità di erede, essendosi affermato, in contrario, che era maturata la prescrizione del diritto di accettare l'eredità, prima che questa accettazione avesse potuto essere formulata. Il convenuto propose appello per veder riconosciuta, in accoglimento della sua riconvenzionale, la sua qualità di erede (e il giudice di secondo grado accolse la domanda). L'attore propose, a sua volta, appello incidentale per contestare la mancata qualificazione in termini di semplici legati, anziché, come era avvenuto, quali atti di istituzione di erede, delle attribuzioni immobiliari contenute nel testamento controverso. L'impugnazione fu disattesa per la ritenuta genericità dei motivi del gravame. La Corte di appello di Palermo rilevò, al riguardo, che l'appellante non aveva in alcun modo contestato le specifiche ragioni che il Tribunale aveva addotto per pervenire alla sua pronuncia sul punto, con conseguente inammissibilità dell'impugnazione.

Il ricorso del soccombente in appello è fondato su plurimi motivi. In particolare, con esso si deduce che la Corte distrettuale aveva erroneamente dichiarato inammissibile il gravame incidentale, con una decisione che aveva anticipato, di fatto, gli effetti della riforma dell'art. 342 c.p.c. ad opera della l. n. 134/2012. Infatti, dovendosi riconoscere, secondo la normativa vigente per la causa in corso, il suo diritto ad ottenere un riesame della materia controversa da parte del giudice di appello, legittimamente il suo gravame era stato limitato a reiterare quanto esposto in primo grado.

La questione

Le ragioni di ricorso che qui interessano riguardano la natura del giudizio di appello e il requisito di specificità dei motivi nel regime giuridico antecedente alle modifiche apportate al codice di procedura civile dal d.l. n. 83/2012. In particolare, il ricorrente assume di aver potuto limitare il suo atto di impugnazione ad un richiamo alle difese svolte nel grado di giudizio precedente, posto che in tale regime normativo il giudizio di appello aveva natura di riesame della materia già decisa con il provvedimento impugnato. Erroneamente, dunque, il suo gravame era stato dichiarato inammissibile per pretesa genericità dei motivi, in un procedimento al quale non era ancora applicabile la più restrittiva disciplina, introdotta dal citato decreto legge.

Le soluzioni giuridiche

La Corte di cassazione ha escluso che la sentenza del giudice di appello si sia risolta in una pronuncia anticipatrice degli effetti della novella di cui al d.l. 22 giugno 2012, n. 83, non applicabile alla causa in corso. La detta sentenza, ha affermato, è pervenuta ad una conclusione del tutto giustificata alla luce delle norme vigenti, ratione temporis, per la vicenda processuale da essa decisa, in tema di requisiti dell'atto di appello.

Per la Corte, la difesa del ricorrente aveva erroneamente assunto, a fondamento del suo atto, la concezione del giudizio di appello come judicium novum, anziché come revisio prioris instantiae. Le asserzioni in tal senso dovevano essere considerate inficiate in radice dall'infondato convincimento secondo cui il giudice di appello sarebbe in ogni caso chiamato a riesaminare ex novo la causa nel merito, indipendentemente dalle modalità con le quali il merito stesso sia portato alla sua attenzione; così potendo la parte limitarsi semplicemente ad invocare una nuova valutazione delle difese già svolte in primo grado, sebbene disattese in maniera motivata dal giudice di prima istanza. In realtà, afferma il Supremo collegio, per soddisfare il requisito della specificità dei motivi di appello è necessario che vengano contrapposte alle argomentazioni del giudice di primo grado quelle dell'appellante, il cui contenuto possa incrinarne il fondamento logico – giuridico, senza che sia necessario anche un esplicito esame dei passaggi argomentativi sviluppati dal giudice di primo grado. In proposito la Corte ha ricordato la sentenza n. 16/2000 delle Sezioni Unite, cui si deve la recente conferma di un principio che già era divenuto corrente nella giurisprudenza di legittimità: “… nel giudizio di appello - che non è un iudicium novum ma è una revisio prioris instantiae – la cognizione del giudice resta circoscritta alle questioni dedotte dall'appellante attraverso l'enunciazione di specifici motivi. Tale specificità dei motivi esige che alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell'appellante, volte ad incrinare il fondamento logico – giuridico delle prime, non essendo le statuizioni di una sentenza separabili dalle argomentazioni che le sorreggono; ragion per cui alla parte volitiva dell'appello deve sempre accompagnarsi una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice. Pertanto, non si rivela sufficiente il fatto che l'atto di appello consenta di individuare le statuizioni concretamente impugnate ma è altresì necessario, pur quando la sentenza di primo grado sia stata censurata nella sua interezza, che le ragioni sulle quali si fonda il gravame siano esposte con sufficiente grado di specificità, da correlare, peraltro, con la motivazione della sentenza impugnata; con la conseguenza che, se da un lato il grado di specificità dei motivi non può essere stabilito in via generale e assoluta, dall'altro lato esige pur sempre che alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell'appellante, volte ad incrinare il fondamento logico – giuridico delle prime”.

Nella motivazione della sentenza che si annota la Corte ha ricordato le pronunce successive che hanno consolidato l'orientamento riaffermato dalle Sezioni Unite, per le quali, in particolare, l'atto di appello non può limitarsi ad individuare le “statuizioni” concretamente impugnate ma deve contenere anche le argomentazioni dirette a confutare la validità delle ragioni poste dal primo giudice a fondamento della soluzione delle singole questioni su cui si regge la decisione. E, per quanto concerne la tecnica redazionale dell'atto di appello che si richiami alle difese svolte in primo grado, nella detta motivazione si citano le pronunce per le quali l'onere della specificazione dei motivi di gravame può ritenersi soddisfatto solo quando l'atto di appello esprime articolate ragioni di doglianza su punti specifici della sentenza di primo grado.

Conclusivamente, la Corte ha affermato che l'individuazione del carattere di specificità del motivo di appello deve essere ispirata ad un principio di simmetria, nel senso che quanto più approfondite e dettagliate risultano le argomentazioni del giudice di primo grado, anche in rapporto agli argomenti spesi dalle parti nelle loro difese, altrettanto puntuali debbono profilarsi le argomentazioni logico giuridiche utilizzate dall'appellante per confutare l'impianto motivazionale del giudice di prime cure. In proposito è citata Cass. n. 1651/2014, della cui sentenza è riportata, nel testo della motivazione, la massima: “La specificità dei motivi di appello deve essere commisurata alla specificità della motivazione e non è ravvisabile laddove l'appellante, nel censurare le statuizioni contenute nella sentenza di primo grado, ometta di indicare, per ciascuna delle ragioni esposte nella sentenza impugnata sul punto oggetto della controversia, le contrarie ragioni di fatto e di diritto che ritenga idonee a giustificare la doglianza”.

Nella vicenda di specie, ha aggiunto da ultimo la Corte, la critica del ricorrente non risultava essersi in alcun modo confrontata con quello che è lo stato della giurisprudenza in materia e si era semplicemente limitata a reiterare una tesi, circa la natura del giudizio di appello, che appariva chiaramente contraddetta dalle considerazioni da essa svolte nella parte motiva della sentenza.

Osservazioni

Nel testo dovuto alla riforma di cui alla L. 353/1990, l'art. 342 c.p.c. si limitava a richiedere, quale requisito di ammissibilità dell'atto di appello, che esso doveva contenere l'esposizione dei motivi specifici dell'impugnazione. Questa indicazione normativa fu intesa, da subito, come descrittiva di una natura del giudizio di appello limitata all'esame delle questioni proposte con i motivi di gravame e non già come avente per scopo un riesame completo della materia controversa, nel merito. Alla caratteristica necessaria di specificità delle ragioni di appello fu interpretativamente attribuita una duplice funzione: quella di delimitare il contenuto della domanda da sottoporre al giudice di secondo grado e quella di individuare con chiarezza le contestazioni rivolte alle argomentazioni poste dal primo giudice a fondamento della sua pronuncia. A giustificare l'appello, in ipotesi, sarebbe stato sufficiente imporre all'interessato di enunciare nel suo atto i motivi in base ai quali veniva denunciata l'asserita erroneità della pronuncia: ne sarebbe seguita una indicazione sufficiente a consentire la difesa ad opera della controparte. Il fatto che la norma citata utilizzava l'aggettivo “specifici” indirizzò dottrina e giurisprudenza verso una concezione rigorosa del requisito, perdurata sino alle modifiche dovute al d.l. del 2012.

La sentenza della Corte di cassazione in esame si adegua ad un orientamento costante e di origine risalente. Per avere una prova della sua perdurante durata basterà richiamare, tra le altre, Cass., Sez. Un. n. 8181/1993, Cass., Sez. Un., 9628/1993, Cass., Sez. Un., 5829/1995 e Cass., n. 169/1996. Per oltre un ventennio si è ribadito che il giudizio di appello non è deputato a ripercorrere il giudizio precedente ma è limitato a condurre alla cognizione del giudice le sole doglianze formulate con l'impugnazione. E si è ripetuto che queste doglianze devono essere correlate alle motivazioni della pronuncia impugnata in modo da contrapporsi ad esse e privarle del loro sostegno logico e giuridico. Sotto questo profilo, la sentenza della Corte non aggiunge novità particolari e segna una ulteriore conferma di un modo di intendere un dettato dell'art. 342 c.p.c. che ormai è stato sostituito da nuove disposizioni.

Tanto considerato, si leggono comunque nella motivazione della pronuncia della Corte due notazioni che meritano di essere evidenziate.

L'una riguarda l'affermazione per cui l'individuazione del carattere di specificità dell'appello deve essere ispirata ad un principio di simmetria tra le argomentazioni del giudice di primo grado e le argomentazioni utilizzate dall'appellante. Più approfondite e dettagliate sono le prime, si spiega, ed anche in rapporto agli argomenti spesi dalle parti nelle loro difese, altrettanto puntuali debbono essere le contestazioni dell'appellante svolte per confutare l'impianto motivazionale del giudice di prime cure. Non si tratta, a ben vedere, di una affermazione innovativa, ad opera della Corte, che non si discosta in alcun modo dall'orientamento consolidato in materia. Si tratta, però, di una puntualizzazione quasi plastica di un concetto ricorrente. Per essa, da un lato si pongono le argomentazioni della pronuncia impugnata; dall'altro e, viene quasi da dire, di fronte si contrappongono le argomentazioni che ad esse devono corrispondere, nel numero, nel contenuto e nell'approfondimento. La nozione di simmetria implica una corrispondenza di posizioni, rovesciate ma uguali: in pratica, sovrapponibili. E l'utilizzazione di questa nozione a proposito dei motivi di appello contribuisce a rendere assai concreto il significato attribuito all'aggettivo “specifico” menzionato nel testo dell'art. 342. I motivi non devono essere soltanto chiari e indirizzati ai capi e alle statuizioni del provvedimento impugnato. Devono anche coprire per intero gli argomenti adoperati per motivare quel provvedimento, in un contesto nel quale a ciascuno di essi deve corrispondere una obiezione sviluppata nell'atto di appello.

L'altra osservazione che vale la pena di menzionare concerne l'affermata eventualità (in via di eccezione) che la mera riproduzione del contenuto dei precedenti scritti difensivi possa risultare in grado di soddisfare il requisito della specificità dei motivi di appello. Nella vicenda di specie l'appellante si era richiamato alle difese svolte in primo grado, sull'assunto che tale richiamo fosse idoneo a sostenere l'impugnazione in un giudizio di preteso riesame di tutta la materia già decisa. In proposito la Corte ha osservato che un siffatto modo di redigere il gravame può essere considerato ammissibile laddove, ad esempio, il giudice di primo grado si sia limitato a confutare in maniera apodittica o con argomentazioni di carattere meramente negatorio quelle già formulate in primo grado dall'appellante. Certamente non anche laddove l'iter logico motivazionale della sentenza impugnata abbia addotto elementi di valutazione e di giudizio, sia in fatto che in diritto, idonei a confutare le tesi sostenute nei precedenti scritti difensivi, sì da imporre, a carico di colui che impugna, l'onere di proporre, a sua volta, elementi in chiave critica in grado di permettere al giudice di appello di rivedere, ove siano ritenuti fondati, la decisione sottoposta al suo esame.

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