Responsabilità aggravata: per la consulta il terzo comma dell’art. 96 c.p.c. ha funzione sanzionatoria

Mauro Di Marzio
30 Giugno 2016

Il terzo comma dell'art. 96 c.p.c. prevede una sanzione posta a tutela di un interesse pubblico, ma dettata in favore del privato e non dell'erario, e non il risarcimento di un danno provocato dalla lite temeraria.
Massima

L'art. 96, comma 3, c.p.c., che, a differenza dei primi due commi della stessa norma, prevede una disposizione di carattere non risarcitorio, ma sanzionatorio, non è viziata da incostituzionalità, per violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost., nella parte in cui stabilisce che la condanna debba essere pronunciata in favore della controparte e non dell'erario

Il caso

Apprestandosi a respingere un'opposizione a decreto ingiuntivo perché manifestamente infondata e, dunque, a fare conseguente applicazione del terzo comma dell'art. 96 c.p.c., il quale stabilisce che il giudice, nel pronunciare sulle spese, può condannare la parte soccombente, anche d'ufficio, al pagamento di una somma equitativamente determinata in favore della controparte, un giudice di merito, il tribunale di Firenze, solleva questione di legittimità costituzionale della norma nella parte in cui prevede che la condanna debba essere pronunciata in favore della parte vincitrice anziché dell'erario.

Osserva il giudice rimettente che tale previsione è distonica rispetto al complessivo dettato del menzionato comma 3, giacché esso — a differenza dei primi due commi dell'art. 96, che rispondono ad una logica risarcitoria — prevede una sanzione indirizzata contro un comportamento di abuso del processo, come tale lesivo dell'interesse della collettività, sanzione che andrebbe pertanto posta a vantaggio non già del singolo controinteressato, bensì dell'erario.

La formulazione della disposizione, confliggerebbe così con gli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione.

La questione

L'ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale pone dunque un duplice quesito:

a) il terzo comma dell'art. 96 c.p.c. prevede davvero una sanzione e non il risarcimento di un danno provocato dalla lite temeraria?

b) ha senso, ed è costituzionalmente compatibile, una sanzione posta a tutela di un interesse pubblico, ma dettata in favore del privato e non dell'erario?

Le soluzioni giuridiche

La Consulta — dopo aver osservato che la norma sospettata di incostituzionalità «non è risultata di agevole lettura» — mostra di condividere in parte gli argomenti dai quali muove il giudice rimettente, ma conclude infine dichiarando non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 96, comma 3, c.p.c., così come sollevata.

Il Giudice delle leggi, in particolare, concorda con la prospettazione del tribunale di Firenze sulla natura non risarcitoria (o, comunque, non esclusivamente tale) ma, più propriamente, sanzionatoria, con finalità deflattive, della disposizione scrutinata.

Secondo la sentenza in commento depongono in questo senso, oltre ai lavori preparatori della novella, significativi elementi lessicali. Difatti:

  • la norma fa riferimento alla condanna al «pagamento di una somma», segnando così una netta differenza terminologica rispetto al «risarcimento dei danni», oggetto della condanna di cui ai primi due commi dell'art. 96 c.p.c.;
  • la condanna in discorso è testualmente e sistematicamente collegata al contenuto della «pronuncia sulle spese di cui all'art. 91»;
  • tale condanna è adottabile «anche d'ufficio» ed è dunque sottratta all'impulso di parte, il che ne conferma, ulteriormente, la finalizzazione alla tutela di un interesse che trascende (o non è, comunque, esclusivamente) quello della parte stessa, e si colora di connotati pubblicistici.

La Corte costituzionale conviene altresì sul rilievo, svolto nell'ordinanza di rimessione, secondo cui la condanna di natura sanzionatoria e officiosa prevista dall'art. 96, comma 3, c.p.c. potrebbe essere ragionevolmente disposta a favore dello Stato.

Qui però la condivisione degli argomenti esposti dal giudice rimettente si arresta: osserva infatti la Corte costituzionale che la scelta di prevedere la sanzione a favore della controparte non è manifestamente irrazionale, il che la sottrae al sindacato di legittimità costituzionale in ordine all'esercizio della discrezionalità legislativa in tema di disciplina di istituti processuali.

Ed infatti:

  • la soluzione adottata dal legislatore garantirebbe una maggiore effettività, ed una più incisiva efficacia deterrente, allo strumento deflattivo apprestato dalla condanna prevista dall'art. 96, comma 3, c.p.c., sul presupposto che la parte vittoriosa possa, verosimilmente, provvedere alla riscossione della somma, che ne forma oggetto, in tempi e con oneri inferiori rispetto a quelli che graverebbero su di un soggetto pubblico;
  • l'istituto così modulato sarebbe suscettibile di rispondere, d'altronde, anche ad una concorrente finalità indennitaria nei confronti della parte vittoriosa (pregiudicata anch'essa da una temeraria, o comunque ingiustificata, chiamata in giudizio) nelle non infrequenti ipotesi in cui sia per essa difficile provare l'an o il quantum del danno subito, suscettibile di formare oggetto del risarcimento di cui ai primi due commi dell'art. 96 c.p.c..

Rammenta inoltre la sentenza che analoga funzione sanzionatoria (e, concorrentemente, indennitaria) possedeva la condanna del soccombente in cassazione, con colpa grave, prevista dall'abrogato art. 385 c.p.c., sullo schema del quale risulterebbe modellato il comma 3 dell'art. 96 c.p.c..

Osservazioni

L'autorevole lettura del Giudice delle leggi darà probabilmente la stura ad un impiego più ampio del tuttora asfittico terzo comma dell'art. 96 c.p.c.: ma non è detto che questo sia un bene.

Ad una prima lettura sembra doversi osservare quanto segue. L'affermazione secondo la quale il comma 3 dell'art. 96 c.p.c. è norma non «di agevole lettura», costituisce eufemismo certamente armonico con lo stile inappuntabile che la Corte costituzionale deve osservare: dalla Consulta non poteva certo attendersi che definisse la disposizione per quello che è, ossia un vero pateracchio ai limiti dell'incomprensibile.

Difatti:

i) i presupposti di applicazione della norma sono dubbi, giacché la locuzione «in ogni caso», seguita dal riferimento alle sole spese liquidate ai sensi dell'art. 91 c.p.c., nell'ambito però di una disposizione tutt'ora intitolata alla responsabilità (processuale) aggravata, non chiarisce se l'applicazione della norma richieda un qualche requisito soggettivo nella condotta del soccombente (dolo, colpa grave, difetto della normale prudenza) oppure si appaghi del solo requisito oggettivo della soccombenza (su questo punto è intervenuta Cass. civ., 11 febbraio 2014, n. 3003, la quale ha chiarito, ragionevolmente, che l'applicazione della norma presuppone la mala fede o colpa grave della parte soccombente, negli stessi termini previsti dal primo comma della disposizione);

ii) la funzione della disposizione è opinabile, giacché è possibile ritenere che essa intenda armonizzarsi con quella dei primi due commi, i quali si muovono in un orizzonte essenzialmente risarcitorio, oppure che ponga un precetto del tutto indipendente dal primo e secondo comma e configuri un'ipotesi di sanzione tutt'affatto priva di collegamento con un qualche pregiudizio subito dal vincitore;

iii) i criteri di liquidazione di una non meglio identificata «somma equitativamente determinata», anche in dipendenza del dubbio sulla funzione della disposizione, sono incredibilmente vaghi ed addirittura non si comprende se tale somma possa o meno cumularsi a quella eventualmente riconosciuta a titolo di risarcimento del danno ai sensi del primo e del secondo comma (per la cumulabilità Trib. Piacenza 22 novembre 2010, Il civilista, 2011, 3, 18).

Ora, proprio la scadente fattura della disposizione induce a diffidare da una lettura essenzialmente ancorata al dato letterale, ampiamente controvertibile. Tuttavia, occorre prendere atto che l'interpretazione adottata dalla Corte costituzionale combacia con quella della Corte di cassazione, secondo cui, parimenti, la condanna al pagamento della somma equitativamente determinata, ai sensi del comma 3 dell'art. 96 c.p.c., ha natura sanzionatoria e officiosa (Cass. civ., 11 febbraio 2014, n. 3003, sulla scia di Cass. civ., 30 luglio 2010, n. 17902). Questa è la linea che ormai pare essersi affermata.

Nondimeno, la soluzione interpretativa la quale ravvisa nella norma un'ipotesi di sanzione rimane alquanto indigesta. Ciò, però, non tanto per la direzione della sanzione, sulla quale si è soffermata l'ordinanza di rimessione: a favore della controparte e non dell'erario. Vi sono in effetti numerose ipotesi di pene private poste a tutela di interessi (anche) sovraordinati, ma previste a favore di soggetti per l'appunto privati: in tal senso può menzionarsi, tra i tanti esempi possibili, lo stesso congegno di astrainte previsto dall'art. 614-bis c.p.c., in caso di violazione di obblighi di fare infungibili e di non fare.

Certo, si prova un qualche disorientamento a constatare che, per la Consulta, è più probabile che la sanzione venga riscossa dal privato che non dallo Stato, tanto malandato — par di comprendere — è il suo funzionamento. Un altro, però, è il punto dolente. La Corte di cassazione si è pronunciata sul tema delle pene private, affermando il principio di diritto secondo cui le stesse, già previste in altri ordinamenti giuridici, non sono incompatibili con l'ordine pubblico italiano (Cass. civ., 15 aprile 2015, n. 7613). Il punto è che, laddove il legislatore ha stabilito pene private, ha contestualmente provveduto ad indicare, sia pure non aritmeticamente, i parametri che devono essere adoperati ai fini della liquidazione del quantum. Così, ad esempio, l'indennità per il licenziamento illegittimo è commisurata alla retribuzione globale di fatto; l'indennità di cui all'art. 129-bis c.c. ha come parametro di riferimento il mantenimento per tre anni; gli artt. 31 e 34 l. 27 luglio 1978, n. 392 e 3, comma 3, l. 9 dicembre 1998, n. 431, in materia di locazione, hanno come riferimento il canone; l'art. 12, l. 8 febbraio 1948, n. 47, in materia di diffamazione a mezzo della stampa, ha come parametro di riferimento la gravità dell'offesa e la diffusione dello stampato.

Sicché, una volta letto alla luce della qualificazione prevalente in giurisprudenza, l'art. 96, comma 3, c.p.c., presenta un difetto di fattura, un vulnus — come è stato autorevolmente osservato —, poiché tace in ordine ai parametri di quantificazione della somma da liquidare a titolo sanzionatorio.

Viceversa, se c'è una sanzione, essa deve rispondere al principio di legalità. Nel caso di specie, allora, ciò che sconsigliava l'interpretazione del comma 3 dell'art. 96 c.p.c. in termini di sanzione è la totale assenza di un qualunque criterio per la sua determinazione. La sanzione, in particolare, non può essere ragionevolmente commisurata al solo elemento oggettivo che sembra potersi isolare, ossia al presumibile pregiudizio sopportato dalla parte vincitrice in conseguenza della lite temeraria, dal momento che, se così fosse, verrebbe a cadere la stessa ipotesi interpretativa che guarda all'art. 96, comma 3, c.p.c., in un'ottica sanzionatoria e non risarcitoria. Al contrario, nell'ottica sanzionatoria dovrebbe aversi riguardo, orientativamente, ai criteri indicati dall'art. 133 c.p., dai quali appare difficile pervenire, al di fuori di ogni minima indicazione legislativa, alla motivata individuazione del quantum: è agevole, al riguardo, pronosticare una babele di applicazioni contrastanti, tra l'ilarità e la rabbia degli utenti del servizio giustizia.

L'esigenza di un chiaro parametro di riferimento per la determinazione del quantum e tanto più pressante ove si consideri che l'applicazione della sanzione, secondo la SC, «è rimessa alla piena discrezionalità del giudice» (così testualmente Cass. civ., 11 febbraio 2014, n. 3003), sicché è difficile immaginare finanche un qualche controllo ex post, in sede di impugnazione, di una statuizione che, intesa quale pienamente discrezionale, controllabile non è.

Non è dirimente, d'altro canto, il richiamo che la Corte costituzionale fa all'abrogato art. 385 c.p.c.. Anzi. Tale norma infatti, che aveva uno schietto significato sanzionatorio (C. cost., 23 dicembre 2008, n. 435), prendeva espressamente posizione — e non a caso — proprio sull'aspetto del quantum, in modo chiarissimo, parametrando la sanzione alla misura delle spese di lite.

La lettura patrocinata dalla Corte costituzionale, condivisa come abbiamo visto dalla Corte di cassazione, munisce il giudice — andando al succo della soluzione adottata — di una clava utilizzabile senza andare tanto per il sottile. Ciascuno dei lettori potrà valutare se questo sia un fulgido slancio nel futuro ovvero un preoccupante tuffo nel passato. Chi è interessato a conoscere l'opinione di chi scrive potrà leggere l'articoletto citato nella guida che segue, in cui è richiamato, e non a caso, il cartone animato degli Antenati, ed in particolare il celebre motto: «Wilma, dammi la clava».

Guida all'approfondimento

BUFFONE, Il ricorso c.d. «anomalo» al credito costituisce abuso del diritto di difesa, sanzionabile mediante condanna per responsabilità processuale aggravata, in Giur. merito 2010, 2178;

BUSNELLI-D'ALESSANDRO, L'enigmatico ultimo comma dell'art. 96 c.p.c.: responsabilita' aggravata o "condanna punitiva"?, in Danno e Resp., 2012, 585;

DI MARZIO, Vita nuova per il danno da lite temeraria (in attesa che l'ennesima riforma rimescoli le carte), in Giur. merito, 2007, 1590;

PORRECA, La riforma dell'art. 96 c.p.c. e la disciplina delle spese processuali nella l. n. 69 del 2009, in Giur. merito, 2010, 1836

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