Termine ordinatorioFonte: Cod. Proc. Civ. Articolo 152
29 Agosto 2016
Inquadramento
I termini ordinatori sono menzionati già dal comma 2 dell'art. 152 c.p.c.. La relativa disciplina, che si compendia nella prorogabilità di detti termini, è poi contenuta nell'art. 154 c.p.c.. Tali termini possono essere stabiliti dalla legge o dal giudice, a ciò autorizzato dalla legge, come si desume a contrario dal primo comma del citato art. 152 c.p.c.. La caratteristica saliente dei termini ordinatori sta in ciò, che essi regolano il dipanarsi delle attività processuali ma, in prima battuta, non riconnettono ineluttabilmente alla loro violazione — a quali condizioni si vedrà più avanti — la decadenza dal potere di compiere l'atto, ovvero la nullità dello stesso perché compiuto dopo la scadenza del termine. Esempi di termini ordinatori
La proroga dei termini ordinatori
Si diceva poc'anzi che il tratto caratterizzante dei termini ordinatori sta nel non determinare né la decadenza dal potere di compiere l'atto, né la nullità dell'atto compiuto dopo la scadenza del termine: il che è in certo qual modo evidente, dal momento che, se dalla violazione del termine ordinatorio discendessero le menzionate conseguenze, esso avrebbe natura perentoria e non ordinatoria. Tuttavia il meccanismo di operatività dei termini perentori, in caso di loro violazione, è discusso, e la discussione trae argomento dalla stessa formulazione dell'art. 154 c.p.c.. Secondo l'opinione tradizionale, il problema delle conseguenze della violazione dei termini ordinatori, esclusa la decadenza e la nullità, si risolve «rinunciando alla ricerca di un effetto tipico per tutti i termini ordinatori, la cui violazione è sanzionata in modo eterogeneo, in forma prevalentemente indiretta stabilendo, a seconda dei casi, un maggior carico di spese, la fissazione di un termine perentorio, la concessione di un contro termine; attribuendo, comunque, ai soggetti del processo che subiscono la violazione delle posizioni di vantaggio, cui corrispondono posizione di svantaggio per chi non ha osservato il termine» (Grossi, Termini (dir. proc. civ.), in Enc. dir., 245). Altri sostengono che la differenza tra termini perentori ed ordinatori non risiederebbe nella mancanza, in questi ultimi, dell'effetto di decadenza o nullità, giacché esso conseguirebbe, al contrario, all'inosservanza sia degli uni che degli altri, bensì nel congegno di operatività della sanzione di decadenza o nullità, il quale opererebbe ipso iure per i termini perentori e previa valutazione del giudice per i termini ordinatori (Balbi, La decadenza nel processo di cognizione, Milano, 47; analogamente Mandrioli, Diritto processuale civile, Torino, I, 352, nt. 6). La soluzione che vede equiparati quanto ad effetti i termini perentori e quelli ordinatori trova il consenso della S.C., la quale ha di avuto modo di sottolineare che:
Tale impostazione, per la verità, mostra tratti di novità soltanto laddove valorizza il parametro costituzionale della ragionevole durata del processo, mentre si pone per il resto in piena continuità con la giurisprudenza di legittimità. Così, ad esempio, è stato per un verso affermato che il termine per la redazione dell'inventario di cui all'art. 485 c.c. ha carattere ordinatorio, ma è stato al tempo stesso riconosciuto che il chiamato all'eredità, il quale non abbia eretto l'inventario entro quel termine e ne abbia chiesto la proroga dopo la scadenza, sia ormai divenuto erede puro e semplice. Difatti, se è vero «che il termine per la redazione dell'inventario è termine ordinatorio alla cui mancata osservanza non è collegato alcun effetto preclusivo, è anche vero, però, che, ai sensi dell'art. 154 c.p.c., i termini ordinatori possono essere prorogati dal giudice che li ha emessi solo a condizione che essi non siano ancora scaduti …, mentre eventuale ulteriore proroga è subordinata a che ricorrano motivi particolarmente gravi adeguatamente evidenziati nel provvedimento con il quale venga concessa. È, infatti, principio da considerare di carattere generale dell'ordinamento che il termine fissato dall'autorità competente a imporlo possa essere prorogato dalla stessa autorità, e sempre con adeguata motivazione, solo ove esso non sia ancora scaduto, diversamente difettando il presupposto stesso per il prolungamento del periodo nel quale dev'essere svolta l'attività consentita od ordinata, non potendo essere protratto ciò che è già esaurito» (Cass. civ., 14 ottobre 1998, n. 10174). Il solo rimedio per ovviare alla scadenza del termine ordinatorio, insomma, è stato previsto e disciplinato dal legislatore, «ed è quello della concessione della proroga prima della sua scadenza, onde il decorso del detto termine — senza almeno la presentazione di un'istanza intesa ad ottenere il provvedimento de quo — non può non avere gli stessi effetti preclusivi della scadenza d'un termine perentorio» (nel senso che si determinano, per il venir meno del potere di compiere l'atto, conseguenze analoghe a quelle ricollegabili al decorso del termine perentorio, si sono anche pronunciate Cass. civ., 29 gennaio 1999, n. 808; Cass. civ., 26 novembre 1992, n. 12640; Cass. civ., 23 giugno 1980, n. 3933, in riferimento al termine per la riassunzione del processo sospeso; Cass. civ., 21 novembre 1998, n. 11774, in riferimento al termine per la notificazione del ricorso e del pedissequo decreto in materia di appello contro le sentenze di divorzio; Cass. civ., 25 luglio 1992, n. 8976, in riferimento al termine per la nomina di un consulente tecnico di parte, ex art. 201 c.p.c.; Cass. civ., 22 luglio 1976, n. 2914, in riferimento al termine per la riassunzione del processo interrotto). Tornando alla già ricordata previsione dettata dall'art. 154 c.p.c., la proroga dei termini ordinatori ― ma, a tenore della norma, anche la loro abbreviazione ― può essere disposta: a) su istanza di parte o d'ufficio; b) prima della scadenza, il che ha però da essere inteso nel senso che, in caso di proroga disposta su istanza di parte, occorre che l'istanza sia proposta prima della scadenza, mentre il provvedimento del giudice può essere anche successivo (v. la già citata Cass.civ., 14 ottobre 1998, n. 10174, la quale richiede la presentazione di un'istanza intesa ad ottenere il provvedimento di proroga; alla presentazione dell'istanza di proroga prima della scadenza del termine assegnato fanno riferimento anche Cass. civ., 7 marzo 2005, n. 4877; Cass. civ., 19 gennaio 2005, n. 1064); c) per una durata non superiore al termine originario; d) con provvedimento che non richiede motivazione come si desume a contrario dalla seconda parte dell'articolo. Una proroga ulteriore è consentita solo per motivi particolarmente gravi e con provvedimento motivato: la motivazione non è soggetta a forme particolari e può essere implicitamente contenuta nel contesto del provvedimento di proroga (Cass. civ., 24 ottobre 1983, n. 6239). Applicazioni
Ecco alcuni casi in cui la giurisprudenza ha trattato la violazione dei termini ordinatori, in mancanza di tempestiva istanza di proroga, al pari di quella dei termini perentori di termini:
I termini canzonatori
C'è, tra l'area dei termini perentori e quella dei termini ordinatori, un territorio grigio di incerta paternità, non appartenente né all'uno né all'altro settore, quello dei termini «canzonatori» (espressione di Redenti, Atti processuali civili, in Enc. dir., IV, 1959, 139). Alcuni termini «canzonatori» sono tali per invenzione della giurisprudenza. Caso classico è quello del termine per la riassunzione dopo la interruzione del processo. È in proposito fermo il principio secondo cui il termine perentorio semestrale previsto per la riassunzione dall'art. 305 c.p.c. è riferito al momento del deposito del relativo ricorso in cancelleria, mentre riveste carattere ordinatorio quello in concreto assegnato dal giudice per la notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza, sicché non è preclusa la proroga di quest'ultimo anteriormente alla scadenza, né è preclusa, in caso di sua scadenza, la concessione di un nuovo termine, a condizione che il termine semestrale non sia ancora spirato (Cass. civ., 20 maggio 2011, n. 11260; Cass. civ., 8 luglio 2005, n. 14371; Cass. civ., 6 febbraio 2004, n. 2285; Cass. civ., 28 giugno 2002, n. 9504; Cass. civ., 18 aprile 2002, n. 5625). Insomma, l'interessato propone tempestivamente il ricorso per riassunzione; il giudice gli assegna un termine (ordinatorio) per notificare alle altre parti; il ricorrente, chissà perché, ha diritto di fare come gli pare. Altro esempio. Abbiamo visto poc'anzi che il congegno per cui il termine ordinatorio si converte in perentorio in mancanza di tempestiva istanza di proroga applicazione anche nei procedimenti camerali. Ma qualche volta non è così. È stato ad esempio di recente stabilito che nei giudizi camerali, i quali anche in grado di appello si introducono con ricorso (nella specie, un procedimento per la declaratoria dello stato di adottabilità), l'omessa notifica di quest'ultimo e del decreto di fissazione dell'udienza, entro il termine ordinatorio assegnato dal giudice, non comporta l'improcedibilità della domanda o dell'impugnazione, poiché, in assenza di una espressa previsione in tal senso, vanno evitate interpretazioni formalistiche delle norme processuali che limitino l'accesso delle parti alla tutela giurisdizionale, ma solo la necessità dell'assegnazione di un nuovo termine, perentorio, in applicazione analogica dell'art. 291 c.p.c., sempre che la parte resistente o appellata non si sia costituita, così sanando - con effetto ex tunc - il vizio della notificazione (Cass. civ., sez. I, 11 settembre 2014, n. 19203; analogo il responso di Cass. civ., sez. I, 22 maggio 2014, n. 11418, concernente dichiarazione giudiziale di paternità; v. pure Cass. civ., sez. VI, 22 luglio 2014, n. 16677). Ora, pur nell'umana comprensione pel travaglio del giudice che — cassazionista per l'ineluttabile volversi del tempo, ma ancor giovane pretore mandamentale nel cuore, facile preda della nostalgia per la cosiddetta giustizia sostanziale —, si trova a dover decidere su un'adozione o su una dichiarazione di paternità per l'errore dell'avvocato che non ha notificato l'atto (giacché di errore si deve trattare, dal momento che, se l'omessa notifica non fosse dovuta a colpa, scatterebbe la rimessione in termini), la soluzione, sul piano del rispetto dell'art. 154 c.p.c., non ha senso. Desta in particolare un certo raccapriccio il richiamo ad «interpretazioni formalistiche delle norme processuali». Diremmo semplicemente con il Chiovenda: «Non vi sarebbe ragione di lagnarsi delle forme più di quello che... avrebbe ragione il colombo di lagnarsi dell'aria che rallenta il suo volo, senza accorgersi che appunto quell'aria gli permette di volare» (Chiovenda, Le forme nella difesa giudiziale del diritto, in Saggi di diritto processuale civile, Bologna, 1941, 105). Nel discorrere di termini canzonatori non può mancarsi di rammentare la misteriosa massima secondo cui la scadenza del termine ordinatorio non costituisce «una qualità che comporti un mutamento di natura del termine medesimo», sicché lo scadere del termine ordinatorio prorogato non produrrebbe effetti preclusivi, salvo che non si sia verificata una situazione esterna incompatibile (Cass.civ., 2 settembre 1995, n. 9288; Cass.civ., 16 agosto 1993, n. 8711). Espressione di tale regola è forse l'altrimenti incomprensibile vicenda che negli ultimi anni ha riguardato l'art. 435 c.p.c.. Molti giudici di merito hanno ritenuto che, in caso di notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza dopo lo spirare del termine di 10 giorni previsto dalla norma, trovi applicazione la sanzione dell'improcedibilità: soluzione, questa, del tutto scontata, una volta constatato che lo spirare del termine ordinatorio, senza la proposizione di una istanza di proroga, produce effetti identici a quelli determinati dallo spirare del termine perentorio, ossia la decadenza dal potere di compiere l'atto sottoposto a termine. Tali decisioni, ove impugnate, sono state però — a decine, se non a centinaia — sistematicamente cassate, e si è affermato il principio riassunto nella massima secondo cui la violazione del detto termine è innocua (p. es. Cass. civ., 16 ottobre 2013, n. 23426, tra le innumerevoli). Principio che, per quanti sforzi possano compiersi, semplicemente si disinteressa del dato normativo, così come stabilito dall'art. 154 c.p.c.. Termini a carico dal giudice
Discorrendo di termini canzonatori, non può mancarsi di accennare ai termini a carico del giudice. Il codice di rito stabilisce termini rivolti alle parti, ma anche termini posti al giudice: i termini, anzitutto, per il deposito dell'ordinanza «riservata» e della sentenza, e, oltre a questi, più in generale, i termini volti a determinare, in una pluralità di casi, l'arco temporale entro cui il giudice deve porre in essere una determinata attività. Si pensi, a titolo di esempio e movendo dall'esordio del procedimento di cognizione ordinaria, all'art. 168-bis c.p.c., il quale consente al giudice di differire la prima udienza, ma gli impone di farlo entro un determinato termine (5 giorni) ed entro limiti massimi (45 giorni). Tali termini, i quali incidono sul corso complessivo del processo, sono sovente qualificati in giurisprudenza come ordinatori. Così, tra gli altri, per: a) i termini concernenti la fissazione dell'udienza di comparizione e il deposito della sentenza (Cass. civ., 19 aprile 1995, n. 4388); b) il termine di cui all'art. 435 c.p.c. laddove stabilisce che il presidente del tribunale entro cinque giorni dalla data di deposito del ricorso nomina il giudice relatore e fissa, non oltre sessanta giorni dalla data medesima, l'udienza di discussione davanti al collegio (Cass. civ., 6 marzo 1986, n. 1483); c) il termine di quattro mesi dal deposito del ricorso, previsto dall'art. 3, comma 6, l. n. 89 del 2001 per la pronuncia del decreto sulla domanda di equa riparazione per la irragionevole durata del processo (Cass. civ., 18 maggio 2006, n. 11737; Cass. civ., 31 marzo 2006, n. 7688); d) il termine di trenta giorni dal deposito della relazione del commissario per l'emissione del decreto motivato con il quale il tribunale, ai sensi dell'art. 30 d.lgs, 8 luglio 1991, n. 270, dispone l'apertura della procedura di amministrazione straordinaria o dichiara il fallimento (Cass. civ., 15 luglio 2004, n. 13120); e) il termine decorrente dal deposito del ricorso avverso il decreto prefettizio di espulsione amministrativa dello straniero posto all'autorità giurisdizionale per provvedere sullo stesso ricorso dall'art. 13, comma 9, d.lg. 25 luglio 1998, n. 286 (Cass. civ., 3 aprile 2003, n. 5117; Cass. civ., 7 febbraio 2003, n. 1827); f) il termine massimo di trenta giorni dalla discussione in pubblica udienza o dalla esposizione del relatore, stabilito in materia di contenzioso tributario dall'art. 35, comma 2, d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 per il caso di rinvio della deliberazione del collegio giudicante (Cass. civ., 31 marzo 2008, n. 8249). Tuttavia, la qualificazione dei menzionati termini come ordinatori riflette una certa imprecisione di quest'ultima figura, talora qualificata come «figura di risulta», dal momento che ad essa vengono ricondotte fattispecie di termini non qualificabili né come perentori, né come dilatori (Grossi, op. cit., 238). D'altronde, è ben evidente che ai termini posti a carico del giudice e degli altri ausiliari non si applica la norma cardine prevista in tema di termini ordinatori, ossia l'art. 154 c.p.c., il quale stabilisce che il termine ordinatorio può essere prorogato, salvo casi eccezionali, una ed una sola volta, dopo di che si comporta al pari di un termine perentorio. Si trova dunque correttamente affermato che l'inosservanza dei termini stabiliti per il compimento degli atti del giudice resta sottratta alla disciplina dettata dagli artt. 152 ss. c.p.c. in quanto, pur incidendo detti termini sulla durata complessiva del processo, essi non sono ulteriormente qualificati dalle norme che li prevedono, né ricevono sanzione in conseguenza della loro inosservanza, poiché l'atto compiuto dopo la relativa scadenza conserva validità ed efficacia (Cass. civ., 26 febbraio 2002, n. 2790). La violazione dei termini post in particolare a carico del giudice, beninteso, non è destinata a rimanere senza conseguenze, nella misura in cui essa si riflette sulla durata complessiva del giudizio: già l'art. 9, u.c., d.l. 18 ottobre 1995, n. 432, convertito con modificazioni in l. 20 dicembre 1995, n. 534 stabiliva l'obbligo dei dirigenti degli uffici giudiziari di sorvegliare sulla scrupolosa osservanza, da parte dei magistrati, dei doveri di ufficio, compresi quelli relativi all'osservanza dei termini previsti dal codice di procedura civile e dalle altre leggi vigenti. E l'inosservanza dei termini in questione può altresì assumere rilievo disciplinare, attualmente tipizzato dal vigente ordinamento giudiziario, nonché generare violazione dei termini di ragionevole durata del processo, con le conseguenze indennitarie dettate dalla l. n. 89 del 2001. Riferimenti
BALENA, Comunicazioni, notificazioni e termini processuali, in BALENA-BOVE, Le riforme più recenti del processo civile, Bari, 2006, 42; COSTANTINO, Termini processuali in materia civile. Rimessione in termini, in Foro it., 2011, I, 1074; GROSSI, Termini (dir. proc. civ.), in Enc. dir., 235; MATTEINI CHIARI-DI MARZIO, Le notificazioni e termini nel processo civile, Milano, 2014.
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