Confessione giudizialeFonte: Cod. Civ. Articolo 1191
18 Luglio 2016
Inquadramento
La confessione è, di regola, una prova c.d. legale: ne deriva che il giudice non può prescindere dalle dichiarazioni rese dalla parte sui fatti controversi nel corso della stessa.
Tale peculiare efficacia probatoria della confessione si correla, peraltro, alla regola di esperienza in forza della quale se un soggetto dichiara fatti a sé sfavorevoli, con ogni probabilità afferma il vero: difatti, secondo quanto disposto dall' art. 2730, comma 1 , c.c. , la confessione è la dichiarazione che una parte fa della verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli all'altra parte.
È sul punto consolidato, anche nella giurisprudenza di legittimità, il principio in forza del quale, affinché una dichiarazione sia qualificabile come confessione, essa deve constare di un elemento soggettivo, consistente nella consapevolezza e volontà di ammettere e riconoscere la verità di un fatto – ovviamente controverso - a sé sfavorevole e favorevole all'altra parte, e di un elemento oggettivo, che si ha qualora dall'ammissione del fatto obiettivo che forma oggetto della confessione escludente qualsiasi contestazione sul punto, derivi un concreto pregiudizio all'interesse del dichiarante ed al contempo un corrispondente vantaggio nei confronti del destinatario della dichiarazione (Cass. civ. , sez. lav., 19 novembre 2010, n. 23495 ).
La confessione, inoltre, deve avere ad oggetto fatti obiettivi e non già opinioni o giudizi ( Cass. civ. , sez. III, 18 ottobre 2011, n. 21509 ).
L'efficacia probatoria della confessione postula che essa sia resa da persona capace di disporre del diritto a cui i fatti confessati si riferiscono, ossia da persona che abbia la capacità e la legittimazione ad agire negozialmente riguardo alla controversia in questione ( Cass. civ. , sez. II, 30 novembre 1989, n. 5264 ), per cui laddove la stessa provenga da un rappresentante, occorre che il rapporto di rappresentanza sia in vita nel momento in cui è resa la confessione, dovendosi escludere, in mancanza, l'efficacia confessoria delle dichiarazioni rilasciate ( Cass. civ. , sez. lav., 3 dicembre 2008, n. 28711 ).
La confessione deve inoltre avere ad oggetto diritti disponibili. Confessione provocata mediante interrogatorio formale
In corso di causa, la confessione giudiziale di una parte può essere in primo luogo «provocata» dalla controparte mediante il deferimento dell'interrogatorio formale, i cui capitoli dovranno quindi essere articolati in senso sfavorevole al confitente.
L'interrogatorio formale, essendo diretto a provocare la confessione della parte alla quale è deferito è sempre ammissibile, purché concludente e non in contrasto con gli elementi probatori già acquisiti ( Cass. civ., sez. III, 23 giugno 2000, n. 8544 ): in sostanza, deve essere valutata comunque la rilevanza dei fatti controversi dedotti in sede di interrogatorio.
La prova per interrogatorio formale, secondo quanto richiesto negli ar t t. 230 e 244 c.p.c. deve essere dedotta per articoli separati e specifici, con conseguente inammissibilità della richiesta di ammissione su tutto il contenuto della comparsa di risposta che non consenta, per la genericità ed indeterminatezza del testo, di individuare capitoli di prova che rispondano ai requisiti richiesti dalle norme processuali citate, né può essere richiesto al giudice di estrapolare egli stesso detti capitoli di prova (tramite una c.d. «lettura estrapolativa» nell'atto di parte), contrastandovi il principio della disponibilità della prova ( Cass. civ. , sez. II, 7 giugno 2011, n. 12292 ).
Quanto all'espletamento della prova, sulle circostanze oggetto del deferito interrogatorio è chiamata a rispondere oralmente e personalmente la parte della quale si vuole con lo stesso provocare la confessione, sicché l'interrogatorio non può essere reso a mezzo di un procuratore speciale ( Cass. civ. , sez. lav., 23 dicembre 1998, n. 12843 ).
Se la parte comparsa all'udienza dichiara la verità dei fatti a sé sfavorevoli oggetto dell'interrogatorio, siffatte dichiarazioni avranno valore di prova legale, nel senso che il giudice non potrà attribuire altro significato rispetto a quello confessato ai fatti controversi.
Al contrario, la risposta data dalla parte all'interrogatorio deferitole non può fornire la prova di fatti favorevoli alla parte stessa, né è idonea ad invertire, in relazione a tali fatti, l'onere probatorio, che continua a gravare su detta parte, la quale, se intende far derivare dalle proprie affermazioni conseguenze giuridiche in proprio favore, deve pertanto dare la dimostrazione dei fatti da essa affermati, senza poter pretendere che, per effetto di dette affermazioni, debba essere la controparte a fornire la prova dell'inesistenza degli stessi ( Cass. civ. , sez. III, 9 gennaio 2002, n. 200 ).
Se la parte, comparendo all'udienza non fornisce risposta all'interrogatorio o non si presenta a rendere lo stesso senza alcun giustificato motivo, ai sensi dell'art. 232 c.p. c. , il giudice, valutato ogni altro elemento di prova, può ritenere come ammessi i fatti dedotti nell'interrogatorio.
Invero, l'inciso contenuto nell' art. 232 c.p.c. implica che la mancata risposta, se non equivale a una ficta confessìo, può assurgere a prova dei fatti dedotti secondo il prudente apprezzamento del giudice, che può trarre motivi di convincimento in tale senso non solo dalla concomitante presenza di elementi di prova indiziaria dei fatti medesimi, ma anche dalla mancata proposizione di prove in contrario.
Il giudice può quindi ritenere ammessi i fatti dedotti nell'interrogatorio formale non reso non se confermati solo da prove dirette (altrimenti l'interrogatorio sarebbe superfluo) ma anche utilizzando, per l'appunto, elementi di prova di carattere meramente indiziario ( Cass. civ. , sez. I, 23 maggio 2008, n. 13422 ). In altri termini, la mancata risposta all'interrogatorio formale costituisce un comportamento processuale qualificato che, nel quadro degli altri elementi probatori acquisiti, può fornire elementi di valutazione idonei ad integrare il convincimento del giudice sulle circostanze articolate nei singoli capitoli.
La S.C. ha inoltre precisato che la norma dell' art. 232 c.p.c. è applicabile anche al caso di dichiarazioni che, per il loro contenuto reticente o evasivo, possono essere equiparate alla mancata risposta ( Cass. civ. , sez. III, 31 marzo 2010, n. 7783 ).
Confessione spontanea
La confessione giudiziale della parte può essere, oltre che provocata mediante interrogatorio formale, anche spontanea.
Peraltro, le ammissioni contenute negli scritti difensivi, sottoscritti unicamente dal procuratore ad litem, non hanno valore confessorio, ma costituiscono elementi indiziari liberamente valutabili dal giudice per la formazione del suo convincimento ( Cass. civ. , sez. I, 2 ottobre 2007, n. 20701 ). Invero, la confessione giudiziale spontanea può essere manifestata efficacemente solo da chi abbia il potere di disporre del diritto controverso e quindi non dal difensore, a meno che questi sia munito d'apposito mandato in tal senso, che si aggiunga alla procura alle liti. Deve escludersi, poi, che possa attribuirsi valore confessorio agli atti processuali contenenti la sottoscrizione della parte nella procura apposta in calce o a margine di quell'atto: sebbene, infatti, il mandato defensionale debba considerarsi un tutto unico con il testo dell'atto, alla parte non può tuttavia attribuirsi manifestazione alcuna di volontà in ordine alle affermazioni contenute in detto testo, laddove dalla dichiarazione non emerga l'elemento soggettivo della consapevolezza e volontà di ammettere e riconoscere la verità di un fatto a sé sfavorevole e favorevole all'altra parte, quale non può ravvisarsi nel semplice conferimento del mandato ( Cass. civ. , sez. I, 31 gennaio 2008, n. 2306 ).
Sotto un distinto profilo, è controverso se ed in presenza di quali presupposti possa attribuirsi valore di confessione giudiziale spontanea a quella resa dalla parte in sede di interrogatorio libero e non formale.
Invero, sulla questione la S.C. ha ribadito più volte che le dichiarazioni rese in sede d'interrogatorio libero o non formale, che è istituto finalizzato alla chiarificazione delle allegazioni delle parti e dotato di funzione probatoria a carattere meramente sussidiario, non possono avere valore di confessione giudiziale ai sensi dell' art. 229 c.p.c., ma possono solo fornire al giudice elementi sussidiari di convincimento utilizzabili ai fini del riscontro e della valutazione delle prove già acquisite( Cass. civ. , sez. lav., 22 luglio 2010, n. 17239 ).
Peraltro, una confessione giudiziale spontanea è configurabile anche in sede di interrogatorio non formale, qualora risulti dal verbale che la dichiarazione della parte non sia stata provocata da una domanda del giudice ma sia stata resa autonomamente ed il verbale rechi la sottoscrizione della parte ( Cass. civ. , sez. II, 16 maggio 2006, n. 11403 ).
Quando una sola delle parti in un processo soggettivamente cumulato per la ricorrenza di una situazione di litisconsorzio necessario rende confessione, l'inscindibilità del rapporto sostanziale implica, ai sensi dell'ultimo comma dell' art. 2733 c.c. , che se la confessione dei fatti non proviene da tutti i litisconsorti la stessa assume il valore di prova liberamente valutabile dal giudice secondo il proprio prudente apprezzamento e non già di prova legale. In tal senso è assolutamente consolidato in giurisprudenza il principio per il quale la confessione resa da uno dei litisconsorti necessari può essere liberamente apprezzata dal giudice per trarne elementi di convincimento anche nei confronti degli altri litisconsorti, con una valutazione discrezionale che non soggiace al sindacato di legittimità, qualora sia adeguatamente e correttamente motivata ( Cass. civ. , sez. III, 14 ottobre 2005, n. 19963 ). L'interrogatorio formale reso in un processo con pluralità di parti, essendo volto a provocare la confessione giudiziale di fatti sfavorevoli alla parte confitente e ad esclusivo favore del soggetto che si trova, rispetto ad essa, in posizione antitetica e contrastante, non può pertanto essere deferito, da una parte ad un'altra, su un punto dibattuto in quello stesso processo, tra il soggetto deferente ed un terzo soggetto, diverso dall'interrogando, non avendo valore confessorio le risposte, eventualmente affermative, dell'interrogato alle domande rivoltegli: invero, la confessione giudiziale produce effetti nei confronti della parte che la fa e della parte che la provoca, ma non può acquisire il valore di prova legale nei confronti di persone diverse dal confidente, in quanto costui non ha alcun potere di disposizione relativamente a situazioni giuridiche facenti capo ad altri, distinti soggetti del rapporto processuale e, se anche il giudice ha il potere di apprezzare liberamente la dichiarazione e trarne elementi indiziari di giudizio nei confronti delle altre parti, tali elementi non possono prevalere rispetto alle risultanze di prove dirette ( Cass. civ. , sez. lav., 3 dicembre 2004, n. 22753 ). Dichiarazione c.d. complessa
Ai sensi dell' art. 2734 c.c. quando alla dichiarazione indicata dall' art. 2730 c.c. si accompagna quella di altri fatti o circostanze tendenti a infirmare l'efficacia del fatto confessato ovvero a modificarne o a estinguerne gli effetti, le dichiarazioni fanno piena prova nella loro integrità se l'altra parte non contesta la verità dei fatti o delle circostanze aggiunte, mentre in caso di contestazione, è rimesso al giudice di apprezzare, secondo le circostanze, l'efficacia probatoria delle dichiarazioni.
In giurisprudenza è stato più volte precisato che la disposizione dettata dall' art. 2734 c.c. in tema di dichiarazioni aggiunte alla confessione va interpretata nel senso di considerare ricomprese nella relativa sfera di applicazione tanto l'ipotesi della cd. «confessione complessa» (che sussiste qualora le aggiunte si riferiscano a fatti diversi da quello confessato, tali da modificarne o estinguerne gli effetti ab estrinseco), quanto a quella della confessione cd. «qualificata» (che ricorre tutte le volte in cui i vari fatti dichiarati siano strettamente connessi - tanto che l'uno si profila come la necessaria conseguenza dell'altro - ovvero incidano sulla sua essenza e si riflettano sulla sua efficacia, come per il negozio condizionato), con la conseguenza che, in entrambe le ipotesi, qualora la verità dei fatti o delle circostanze aggiunte idonee a modificare o estinguere gli effetti della confessione sia contestata, le dette dichiarazioni non fanno piena prova nella loro integrità né determinano alcuna inversione dell'onus probandi, ma risultano invece suscettibili, nel loro complesso, di libero apprezzamento da parte del giudice, ai sensi dell' art. 116 c.p.c. ( Cass. civ. , sez. III, 20 dicembre 2004, n. 23637 ). In sostanza, quando alla confessione si accompagna la dichiarazione di altri fatti o circostanze tendenti ad infirmare l'efficacia del fatto contestato ovvero a modificarne o ad estinguerne gli effetti, se la controparte contesta le dichiarazioni, il confidente ha l'onere di provare i fatti e le circostanze aggiunte, restando affidato al giudice, in difetto di tale prova, l'apprezzamento secondo le circostanze dell'efficacia probatoria delle dichiarazioni stesse ( Cass. civ. , sez. III, 27 settembre 2000, n. 12803 ).
Revoca
Costituiscono, inoltre, ai sensi del comma 2, n. 2, dell' art. 474 c.p.c. titoli esecutivi le cambiali e gli altri titoli di credito ai quali la legge attribuisce espressamente la stessa efficacia.
L' art. 2732 c.c. stabilisce che la confessione non può essere revocata se non si prova che è stata determinata da errore di fatto o da violenza.
Proprio la circostanza che la confessione non sia anche revocabile per dolo, induce la stessa dottrina dominante a ritenere che la confessione sia una dichiarazione di scienza e non di volontà. In tal senso, si è evidenziato, in sede di merito che:
Peraltro, costituisce ius receptum il principio secondo cui nell'ambito dell' art. 2732 c.c. non può parlarsi di revoca nel senso stretto del termine in quanto gli effetti sostanziale e processuali di essa non sono rimessi alla volontà del dichiarante, ma alla libera valutazione del giudice: in particolare, la confessione può essere invalidata - e non già « revocata » in senso proprio, perché gli effetti sostanziali e processuali di essa non sono rimessi alla volontà del dichiarante - soltanto se il confitente dimostra non solo la non veridicità della dichiarazione, ma anche che essa fu determinata da errore di fatto o da violenza sicché il dichiarante deve allegare e provare anche il vizio d'origine della dichiarazione confessoria ( Cass. civ. , sez. lav., 11 agosto 2004, n. 15618 ). Ne deriva che per togliere efficacia alla confessione non è necessaria una manifestazione di volontà negoziale o la proposizione di un'espressa domanda giudiziale (Cass. civ. , sez. II, 24 giugno 2009, n. 14780 ). Riferimenti
ANDRIOLI, Confessione (dir. proc. civ.), NNDI, IV, Torino 1959, 10 ss.;
CAPPELLETTI, La testimonianza della parte nel sistema dell'oralità, I, II, Milano 1974;
CAVALLONE, Il giudice e la prova nel processo civile, Milano 1991;
COMOGLIO, Le prove civili, Torino 2004;
REALI, Incidente stradale ed efficacia della dichiarazione confessoria del danneggiante, in Foro it., 2007, I, 1259; SCRIMA, L'interrogatorio della parte: interrogatorio libero e interrogatorio formale, in Giur. Merito, 1999, 406;
SILVESTRI, Confessione nel diritto processuale civile, Dig. Civ., III, Torino, 1988;
VACCARELLA, Interrogatorio delle parti, EdD, XXII, Milano 1972, 353. |