Appello in generaleFonte: Cod. Proc. Civ. Articolo 339
13 Giugno 2016
Inquadramento IN FASE DI AGGIORNAMENTO AUTORALE DI PROSSIMA PUBBLICAZIONE L'appello risponde ad una esigenza fondamentale ed originaria di giustizia: i giudici possono sbagliare e non di rado sbagliano (orientativamente un terzo delle sentenze di primo grado è appellato ed un terzo delle sentenze appellate è in tutto o in parte riformato) e, dunque, occorre uno strumento per rimediare ai loro errori. In ciò si riassume il c.d. principio del doppio grado di giurisdizione, tuttavia privo, come è noto, di copertura costituzionale (numerose le pronunce in tal senso del Giudice delle leggi: si parte da Corte cost., 22 giugno 1963, n. 110 per arrivare a tempi recenti). Il principio del doppio grado di giurisdizione, che pur privo di rilievo costituzionale informa l'ordinamento, non richiede né impone, però, che il giudice di secondo grado riesamini integralmente il rapporto controverso già oggetto del giudizio di primo grado. Ed anzi, per converso, è ben possibile che detto principio non operi affatto, come accade non soltanto nel caso delle controversie destinate a svolgersi in unico grado, ma anche in quelle di regola sottoposte al principio del doppio grado. Basti menzionare: - il caso della nullità della sentenza di primo grado, nelle ipotesi estranee alla previsione degli artt. 353-354 c.p.c., in cui il giudice di appello deve, per la prima volta in tale sede, decidere il merito della controversia; - il caso della (fondata) denuncia in appello del vizio di omessa pronuncia da parte del giudice di primo grado, che impone nuovamente al giudice d'appello di decidere su domande non precedentemente scrutinate; - il caso della domanda non esaminata dal primo giudice perché dichiarata assorbita; il caso del ricorso per cassazione per saltum. Lo strumento dell'appello può essere conformato - e lo è, nei diversi ordinamenti - secondo modelli profondamente diversi. Nel codice di procedura civile l'appello è il principale mezzo di impugnazione ordinario. Lo spettro delle doglianze suscettibili di denuncia attraverso di esso è ritenuto illimitato. L'appello è in questo senso generalmente definito quale mezzo di impugnazione a critica libera, attraverso il quale può farsi valere qualunque vizio (nel senso più lato) della sentenza di primo grado, non solo la sua illegittimità, ma anche la sua ingiustizia: ed anzi l'appello è considerato il solo strumento attraverso cui direttamente dedurre l'ingiustizia della sentenza impugnata, non per il tramite di un previo giudizio rescindente reso in dipendenza di una violazione delle regole del giudizio. In ciò l'appello si contrappone ai mezzi di impugnazione a critica vincolata (tutti gli altri) attraverso i quali possono denunciarsi soltanto taluni vizi normativamente identificati: come accade anzitutto per il ricorso per cassazione attraverso l'elencazione contenuta nell'art. 360 c.p.c., ma anche, tra l'altro, per l'opposizione di terzo, per la revocazione e per l'impugnazione per nullità del lodo rituale. Le riforme
Gli interventi riformatori che hanno interessato da ultimo l'istituto dell'appello sono i seguenti: - la previsione della decisione attraverso il modulo disciplinato dall'art. 281-sexies c.p.c. (artt. 351, 352 c.p.c..), tanto più adatto al giudizio di appello, quanto più si consideri che esso, tenuto conto della formulazione attuale dell'art. 345 c.p.c., si svolge normalmente senza passare per l'assunzione di mezzi istruttori, il che rende per lo più superfluo il meccanismo dello scambio di memorie e repliche; - la sanzione delle istanze di inibitoria inammissibili o manifestamente infondate (art. 283 c.p.c..), a fronte di un indirizzo dottrinale che predicava invece la reclamabilità dell'ordinanza resa sulla sospensiva, secondo le regole del procedimento cautelare uniforme; - il tentativo di dar vita ad una analitica precisazione dei contenuti dell'atto di impugnazione, mediante l'individuazione dei rigidi caratteri di specificità che le doglianze rivolte contro la sentenza impugnata devono possedere (art. 342 c.p.c.); - la soppressione nell'art. 345 c.p.c. (sempre ad opera del d.l. 83/2012, convertito con modificazioni dalla l. 134/2012) della frase «che il collegio non li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero», con il che il legislatore ha ulteriormente ristretto l'ambito dell'ammissibilità di mezzi istruttori in appello, eliminando una nozione — quella di indispensabilità del mezzo istruttorio — che non era risuscita a tradursi in prassi applicativa chiara ed univoca; - la dichiarazione di inammissibilità con ordinanza quando l'impugnazione non ha una ragionevole probabilità di essere accolta (art. 348-bis e 348-ter c.p.c..). Il connotato di astratta illimitatezza delle doglianze proponibili con l'appello non sta di per sé a significare che il giudice di appello sia chiamato a riesaminare senza limiti il rapporto controverso già sottoposto allo scrutinio del giudice di primo grado: e che, cioè, la proposizione dell'appello produca un automatico effetto devolutivo, inteso come generale idoneità della proposizione dell'impugnazione a determinare il riesame complessivo della causa. Al contrario, è devoluto all'esame del giudice d'appello soltanto quanto è stato fatto oggetto di impugnazione, secondo il latinetto tantum devolutum quantum appellatum. Viceversa, rimane fermo - salvo eccezioni - ciò che non è appellato: il che è quanto stabilisce il secondo comma dell'art. 329 c.p.c., contenuto nella parte generale sulle impugnazioni, secondo il quale: «L'impugnazione parziale importa acquiescenza alle parti della sentenza non impugnata». La regola tantum devolutum quantum appellatum ancora non definisce, però, il carattere saliente dell'appello, giacché esso, pur nell'ambito del principio devolutivo così inteso, può atteggiarsi, secondo la tradizionale distinzione, tanto come novum iudicium (nuovo giudizio sul rapporto controverso), quanto come revisio prioris instantiae (controllo dell'esattezza della sentenza impugnata). È opinione prevalentemente accolta che un definitivo chiarimento sia derivato, in proposito, dalla l. 353/1990, che, nel novellare l'art. 345 c.p.c., vi ha anzitutto inserito il divieto non solo di nuove domande, ma anche di nuove eccezioni, restringendo altresì massicciamente l'ammissibilità dei nuovi mezzi di prova. La qual cosa ha da ultimo ricevuto un ulteriore accentuazione con la novella dell'art. 345 c.p.c., che vi ha cassato il riferimento alle prove comunque ammissibili perché indispensabili, restringendo così il campo dei nuovi mezzi di prova ammissibili in appello, oltre che al giuramento decisorio, al solo caso che la parte non abbia potuto dedurli in primo grado per causa non imputabile. La novella del 1990, inoltre, ha cancellato l'automatico effetto sospensivo, per effetto della proposizione dell'appello, dell'efficacia esecutiva della sentenza impugnata, effetto sospensivo che si produce ora esclusivamente mediante l'eventuale provvedimento di sospensiva del giudice di appello, ai sensi degli artt. 283-351 c.p.c.: ed anche qui l'ultima novella dell'art. 283 c.p.c. ha inteso scoraggiare, attraverso l'impiego della sanzione pecuniaria, l'abuso dell'istanza di sospensiva. È dunque esaltata, oggi, la funzione di mero controllo sul giudizio di primo grado, «che viene a svolgersi essenzialmente «sulle carte» e senza una nuova istruttoria, ancorché questo controllo sia destinato comunque a condurre ad una nuova pronuncia, che prende il posto di quella impugnata» (Carrato, L'oggetto dell'appello ed il requisito della specificità dei motivi, relazione dell'Ufficio del massimario e del ruolo del 18 settembre 2006). All'opinione dottrinale prevalente ma non univoca che guarda all'appello in termini di revisio, corrisponde in giurisprudenza l'ormai fermo inquadramento dell'istituto entro tale prospettiva. Basti rammentare, in proposito, l'espressa presa di posizione delle Sezioni Unite nei termini che seguono:
Qui si rende necessario un ulteriore chiarimento. Possiamo affermare con certezza che il giudizio di primo grado ha ad oggetto il diritto controverso. L'oggetto del giudizio di appello è ancora il diritto controverso, o è invece la sentenza impugnata? In dottrina si sostiene da alcuni che il giudizio di appello è pur sempre un giudizio sul rapporto controverso, sia pure osservato attraverso la lente dei motivi di impugnazione (Attardi, Note sull'effetto devolutivo dell'appello, in Giur. it., 1961, IV, 145; Cerino Canova, op. cit., 582; Balena, Elementi di diritto processuale civile, II, 2, Le impugnazioni, Bari, 2004, 82; Consolo, Le impugnazioni delle sentenze, Padova, 2004, 63). Altri replicano che il rapporto controverso è sottoposto allo scrutinio del giudice di appello attraverso la denuncia degli errori contenuti nella pronuncia di primo grado, sì che l'esame si rivolge in prima battuta alla sentenza impugnata, con ricadute solo indirette sul rapporto controverso (Bonsignori, Il divieto di domande e di eccezioni nuove in appello, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1998, 65; Verde, Profili del processo civile, II, Napoli, 1996, 256). E cioè, «l'appello si correla direttamente piuttosto alla sentenza impugnata anziché al rapporto oggetto della cognizione in primo grado, poiché è la sentenza stessa che, invero, costituisce l'oggetto che viene a cadere sotto l'immediata percezione e valutazione del giudicante in grado di appello» (Carrato, op. cit..). Già prima degli interventi normativi del 2012, vi è stato inoltre chi ha sottolineato la sostanziale omogeneità del giudizio di cassazione e di quello di appello - tanto più a seguito dell'ampliamento delle ipotesi di cassazione sostitutiva conseguite alla riforma del 2006: v. art. 384 - giacché i giudizi di appello e di cassazione avrebbero lo stesso oggetto, rappresentato dalla sentenza impugnata, in particolare delle singole parti della stessa investite dai motivi di censura e da quelle dipendenti (Poli, L'oggetto del giudizio di appello, in Riv. dir. proc., 2006, 1407; v. pure Parisi, Oggetto dell'appello, onere della prova e principio di acquisizione processuale al vaglio delle sezioni unite, in Corr. giur., 2006, 1088) Per questa via alcuni hanno sottolineato un complessivo avvicinamento del giudizio di appello a quello di cassazione: ma, secondo la S.C., si tratta di un avvicinamento limitato, poiché l'appello «non è impugnazione rescindente come il ricorso per cassazione (l'avvicinamento alla struttura del quale è solo parziale)» (Cass. civ., sez. un., 23 dicembre 2005, n. 28498). Affermazione, questa, mutuata da Cass. civ., sez. un., 16 novembre 2017, n. 27199. L'effetto sostitutivo è carattere generalmente riconosciuto alla pronuncia di appello, la quale si sostituisce, per l'appunto, a quella impugnata (Danovi, Note sull'effetto sostitutivo dell'appello, in Riv. dir. proc., 2009, 1466; Consolo, La rimessione in primo grado e l'appello come gravame sostitutivo (una disciplina in crisi), in Jus, 1997, 79). L'effetto sostitutivo si pone in relazione tanto con il principio del doppio grado di giurisdizione, il quale mira a far sì che il giudice d'appello possa emendare la sentenza viziata, sostituendola con altra conforme a diritto, quanto con l'effetto devolutivo, che comporta lo spostamento della cognizione dinanzi al giudice d'appello allo scopo di consentirgli, ancora una volta, di emettere una nuova pronuncia che prenda il posto di quella impugnata. Stretta è altresì la relazione tra l'effetto sostitutivo ed il regime dei nova in appello: quanto più circoscritto è tale regime (e, dopo l'ultimo intervento del 2012 sull'art. 345 c.p.c. esso è estremamente limitato), tanto più ridotto è il campo entro cui l'effetto sostitutivo può dispiegarsi. In tal senso, si è sottolineata la «crisi» dell'effetto sostitutivo (Proto Pisani, Note sulla struttura dell'appello civile e sui suoi riflessi sulla cassazione, in Foro it., 1991, I, 113; Consolo, La rimessione in primo grado e l'appello come gravame sostitutivo (una disciplina in crisi), cit., passim), giacché il fenomeno della sostituzione si contrae ogni qual volta la decisione di secondo grado rappresenti non un integrale riesame dell'intero oggetto del giudizio, ma delle sole censure sollevate dalle parti. Tanto premesso, l'effetto sostitutivo, secondo l'insegnamento della giurisprudenza, ha luogo sia in caso di riforma che di conferma (Cass. civ., sez. lav., 26 gennaio 1979, n. 601; Cass. civ., sez. III, 24 febbraio 2004, n. 3655; Cass. civ., sez. lav., 3 agosto 2007, n. 17072).
Su tale premessa la S.C. ha ritenuto che il titolo esecutivo da notificare per promuovere l'esecuzione forzata sia costituito dalla stessa sentenza di secondo grado. Per meglio dire, l'effetto sostitutivo della sentenza d'appello, la quale confermi integralmente o riformi parzialmente la decisione di primo grado, comporta che, ove l'esecuzione sia già stata promossa in virtù del primo titolo esecutivo, la stessa proseguirà sulla base delle statuizioni ivi contenute che abbiano trovato conferma in sede di impugnazione; nel caso in cui, invece, l'esecuzione non sia ancora iniziata, essa dovrà intraprendersi sulla base della pronuncia di secondo grado quale titolo esecutivo da notificare prima o congiuntamente al precetto ai fini della validità di quest'ultimo, anche quando il dispositivo della sentenza di appello contenga esclusivamente il rigetto dell'appello e l'integrale conferma della sentenza di primo grado (Cass. civ., sez. III, 13 novembre 2018, n.29021). Non trova dunque riscontro, in giurisprudenza, l'opinione secondo cui l'effetto sostitutivo non si verificherebbe quando la sentenza è sì di conferma, ma il giudice di appello si limita a ravvisare l'infondatezza delle censure mosse alla sentenza impugnata (Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, 3ª ed., Napoli, 1999, 535 e 538). È da credere, invece, che l'effetto sostitutivo non abbia luogo quando il giudice d'appello pronunci una sentenza di mero rito concernente il giudizio di appello (si immagini la dichiarazione di inammissibilità dell'impugnazione per difetto del requisito di specificità di cui all'art. 342 c.p.c.; per l'affermazione secondo cui, in caso di definizione dell'appello in rito non ha luogo l'effetto sostitutivo, v. di recente Cass. civ., sez. III, 13 maggio 2020, n.8891, in motivazione), la quale produce il solo effetto di fare passare in giudicato la sentenza di primo grado. Non sembra inoltre che l'effetto sostitutivo sia configurabile nelle ipotesi di rimessione della causa al primo giudice, ex artt. 353 e 354 c.p.c. (Comoglio, Ferri, Taruffo, Lezioni sul processo civile, 2ª ed., Bologna, 1998, 831). L'effetto sostitutivo, d'altro canto, può essere totale solo se la sentenza è impugnata nella sua totalità, mentre non può essere che parziale nel caso in cui l'appello investa soltanto alcuni capi o parti della sentenza, con conseguente passaggio in giudicato della sentenza di primo grado nella parte non impugnata, secondo il meccanismo già ricordato di cui all'art. 329, comma 2, c.p.c. (Cass. civ., sez. lav., 26 gennaio 1979, n. 601). Il congegno della acquiescenza disciplinata da tale disposizione trova tuttavia un limite nell'eventuale esistenza di un legame tra i singoli capi di sentenza. L'acquiescenza si verifica infatti solo se le parti di sentenza non impugnate siano reciprocamente autonome e indipendenti. Al contrario, in presenza di un collegamento qualificabile in termini di pregiudizialità-dipendenza, l'impugnazione anche di un solo capo esclude l'acquiescenza ai capi inscindibilmente ad esso collegati. Il menzionato effetto, operante sia in caso di riforma che di conferma, sta a fondamento del fermo indirizzo secondo cui il giudice d'appello può confermare la sentenza di primo grado adottando una motivazione difforme da quella del primo giudice (Cass. civ., sez. III, 10 ottobre 2003, n. 15185). Spetta il diritto potestativo di appellare a chi: i. è stato parte del giudizio di primo grado; ii. è rimasto in tutto o in parte soccombente; iii. ha interesse ad appellare. È soccombente, secondo l'opinione tradizionale, la parte la cui domanda non sia stata accolta ovvero che abbia subito l'accoglimento di una domanda spiegata nei suoi confronti (Liebman, «Parte» o «capo» di sentenza, in Riv. dir. proc., 1964, 57). La giurisprudenza, come la prevalente dottrina, sembra accogliere una nozione non formale ma sostanziale e materiale di soccombenza, derivante non tanto dalla diversità tra le conclusioni della parte e la pronuncia, ma dagli effetti pregiudizievoli che possano derivare. Così, sotto il primo dei menzionati aspetti, guardando ad alcuni dei più comuni fenomeni che si presentano nella pratica, non può appellare il socio, se la sentenza è stata pronunciata nei confronti della società, sia pure di persone (Cass. civ., sez. I, 10 marzo 1994, n. 2335; Cass. civ., sez. I, 28 luglio 1997, n. 7021; Cass. civ., sez. II, 29 maggio 1999, n. 5233; Cass. civ., sez. II, 22 maggio 2003, n. 8079; Cass., sez. II, 6 dicembre 2011, n. 26245); non può appellare in proprio la persona fisica del legale rappresentante, se la sentenza è stata resa nei confronti della società, sia pure di persone (Cass. civ., sez. lav., 13 luglio 2002, n. 10208); non può appellare la società (sia pure di persone), se la sentenza è stata resa nei confronti del socio (Cass. civ., sez. III, 28 gennaio 1987, n. 797.); non può appellare l'omonimo della parte, sebbene abbia ricevuto per errore la notifica della sentenza di primo grado (Cass. civ., sez. II, 22 maggio 1981, n. 3368.); va considerato parte del giudizio di primo grado chi, pur non avendovi partecipato, è stato condannato per errore (Cass. civ., sez. lav., 16 giugno 1976, n. 2250; Cass. civ., sez. lav., 15 gennaio 1981, n. 344; Cass. civ., sez. lav., 11 agosto 1983, n. 5353). Dall'altro versante, l'appello va proposto nei confronti di chi, parte del giudizio di primo grado, ne sia risultato in tutto e in parte vincitore. I provvedimenti appellabili
L'art. 339, comma 1, c.p.c. stabilisce che possono essere appellate «tutte le sentenze pronunciate in primo grado, purché l'appello non sia escluso dalla legge o dall'accordo delle parti». Sono perciò impugnabili mediante appello le sentenze, tanto definitive quanto non definitive, di rito o di merito, pronunciate in primo grado dal tribunale ovvero dal giudice di pace. In generale, secondo il fermo insegnamento della giurisprudenza, il regime della appellabilità delle sentenze si individua attraverso la qualificazione data dal primo giudice al provvedimento impugnato ed al rapporto controverso: così, ad esempio, nell'ipotesi che il giudice abbia espressamente qualificato l'azione intrapresa come opposizione agli atti esecutivi, la quale si conclude con sentenza inappellabile, l'appello eventualmente proposto sarà inammissibile nonostante l'erroneità della qualificazione adottata, trattandosi invece di opposizione all'esecuzione, destinata a concludersi con sentenza suscettibile di appello. E cioè. L'identificazione del mezzo di impugnazione esperibile contro un provvedimento giurisdizionale deve essere compiuta in base al principio dell'apparenza, vale a dire con riferimento esclusivo alla qualificazione dell'azione effettuata dal giudice nello stesso provvedimento, indipendentemente dall'esattezza di essa, nonché da quella operata dalla parte, potendo, in ogni caso, il giudice ad quem esercitare il potere di qualificazione, che non sia stato esercitato dal giudice a quo, non solo ai fini del merito, ma anche dell'ammissibilità stessa dell'impugnazione (p. per diverse ipotesi Cass. civ., sez. III, 29 luglio 1995, n. 8352; Cass. civ., sez. lav., 14 maggio 2004, n. 9251; Cass. civ., sez. lav., 18 febbraio 2005, n. 3348; Cass. civ., sez. III,31 maggio 2010, n. 13203; Cass. civ., sez. VI, 2 marzo 2012, n. 3338). Un esempio varrà a chiarire il tema. Una persona lamenta un illecito trattamento dei propri dati personali e chiede il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti. Il giudice di primo grado inquadra la domanda proposta entro l'ambito di applicazione dell'art. 152 del c.d. Codice della privacy e la rigetta con sentenza pronunciata secondo il rito del lavoro. Il soccombente propone appello, che la corte d'appello dichiara però inammissibile, perché le sentenze pronunciate ai sensi di detta norma, in combinato disposto con l'art. 10 d.lgs. 150/2011, non sono appellabili. L'originario attore ricorre per cassazione, sostenendo in breve che egli aveva inteso proporre una domanda di risarcimento del danno aquiliano sottoposto alle regole generali. Ma la S.C. replica osservando che, nel giudizio avente ad oggetto tanto la lesione del diritto alla protezione dei dati personali, quanto la domanda di risarcimento del danno, cui si applica il rito ordinario, al fine di identificare il mezzo di impugnazione esperibile, deve farsi riferimento al rito adottato in relazione alla qualificazione dell'azione effettuata dal giudice; sicché, qualora il tribunale abbia ritenuto di giudicare unitariamente sulle domande, applicando il rito speciale, in quanto i danni risarcibili erano stati prospettati come conseguenza dell'illecita diffusione dei dati personali, il ricorso in appello avverso la decisione del tribunale é inammissibile (Cass. civ., sez. I, 22 dicembre 2020, n. 29336; in identica prospettiva, nella situazione speculare, Cass. civ., sez. III, 23 ottobre 2020, 23390; Cass., Sez. I, 7 ottobre 2010, n. 20811). La giurisprudenza ricomprende nel numero delle sentenze appellabili non soltanto i provvedimenti che abbiano detta forma, ma anche quelli che, pur avendo forma diversa, quale quella dell'ordinanza, abbiano natura sostanziale di sentenza (Cass. civ., sez. un., 24 febbraio 2005, n. 3816; Cass. civ., sez. un., 24 ottobre 2005, n. 20470; Cass. civ., sez. lav., 7 aprile 2006, n. 8174). Ciò può avvenire essenzialmente in due ipotesi: a) quando il provvedimento impugnato, che non abbia forma di sentenza, ne abbia però il contenuto, in quanto si risolva in una statuizione di carattere decisorio: trova in tal caso applicazione il principio di prevalenza della sostanza sulla forma; b) quando il provvedimento impugnato abbia assunto una forma diversa dalla sentenza per errore del giudice. Ai sensi dell'art. 339 c.p.c. sono inappellabili: a) la sentenza di primo grado per le quali l'appello sia escluso dalla legge; b) le sentenze di primo grado per le quali l'appello sia escluso dall'accordo delle parti, che abbiano optato per il ricorso per cassazione per saltum, ex art. 360; c) le sentenze pronunciate secondo equità a norma dell'art. 114 c.p.c., ossia nel caso in cui la causa abbia d'oggetto diritti disponibili delle parti e queste gliene facciano concorde richiesta. L'appello delle sentenze di primo grado è escluso per legge: - per le sentenze rese in controversie individuali di lavoro o di previdenza o assistenza obbligatorie, nonché di locazione, di valore non superiore a € 25,82 (artt. 440 e 442 c.p.c.; art. 447-bis c.p.c., che rinvia all'art. 440 c.p.c.); - per le sentenze che decidono sull'opposizione agli atti esecutivi (art. 618 c.p.c., in relazione all'art. 617, comma 1, c.p.c.); - per le decisioni della Corte d'appello in unico grado:
Quanto alle decisioni rese sulla competenza esse, fino all'avvento della l. 69/2009, erano pronunciate con sentenza inappellabile perché è soggetta all'impugnazione mediante regolamento necessario ai sensi dell'art. 42 c.p.c.. Tali decisioni vanno oggi pronunciate con ordinanza che, però, avuto riguardo al principio precedentemente ricordato della prevalenza della sostanza sulla forma, mantengono il contenuto sostanziale di sentenza e rimangono come tali non appellabili. Sono invece oggi impugnabili mediante reclamo i provvedimenti, precedentemente inappellabili, di cui agli artt. 16, 121, 137 e 153 l. fall., all'esito delle modifiche ad essa apportate dal d.lgs. 5/2006 e d.lgs. 169/2007. Riferimenti
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