Fabio Antezza
23 Gennaio 2017

Dal recente revirement attuato dalle S.U., ordinanza n. 24153 del 25 ottobre 2013, circa la funzione degli arbitri rituali – sostitutiva rispetto a quella dei giudici ordinari – e, quindi, circa la natura dello stesso procedimento arbitrale e del lodo da loro emesso discendono rilevanti conseguenze processuali in materia di arbitrato.
Inquadramento

Dal recente revirement attuato dalle Sez. Un., ord., 25 ottobre 2013, n. 24153, circa la funzione degli arbitri rituali – sostitutiva rispetto a quella dei giudici ordinari – e, quindi, circa la natura dello stesso procedimento arbitrale e del lodo da loro emesso discendono rilevanti conseguenze processuali in materia di arbitrato.

In evidenza

l'attività degli arbitri rituali ha natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario, sicché lo stabilire se una controversia spetti alla cognizione dei primi o del secondo si configura come questione di competenza, mentre il sancire se una lite appartenga alla competenza giurisdizionale del giudice ordinario e, in tale ambito, a quella sostitutiva degli arbitri rituali, ovvero a quella del giudice amministrativo o contabile, dà luogo ad una questione di giurisdizione.

Il detto mutamento giurisprudenziale, che si analizzerà di seguito, segue il precedente revirement attuato da Cass., Sez. Un., sent., 3 agosto 2000, n. 527, per la quale, anche nell'arbitrato rituale, gli arbitri non svolgono funzione sostitutiva rispetto a quella dei giudici ordinari e la pronunzia arbitrale ha, quindi, natura di atto di autonomia privata e correlativamente il compromesso si configura quale deroga alla giurisdizione. Pertanto, prosegue la S.C., il contrasto sulla non deferibilità agli arbitri di una controversia per essere questa devoluta, per legge, alla giurisdizione di legittimità o esclusiva del giudice amministrativo costituisce questione, non già di giurisdizione in senso tecnico, ma di merito, in quanto inerente alla validità del compromesso o della clausola compromissoria. Consegue che rispetto a siffatta questione è inammissibile il ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione, di cui all'art. 41 c.p.c., sia nell'ambito del processo arbitrale che del giudizio d'impugnazione ex art. 828 c.p.c., essendo il relativo mezzo proponibile con esclusivo riferimento alle questioni di giurisdizione in senso tecnico-giuridico riconducibili al paradigma dell'art. 37 c.p.c.. Le citate Sez.Un., n. 527/2000, a loro volta, segnano una svolta rispetto all'orientamento antecedente, esattamente contrario e seguito fino al 2000, originato da Cass., Sez.Un., 4 luglio 1981, n. 4360.

È quindi opportuna una breve disamina delle argomentazioni poste dalle citate S.U. del 2013 a sostegno della natura giurisdizionale dell'arbitrato rituale e della funzione sostitutiva degli arbitri rispetto a quella del giudice ordinario per meglio cogliere conseguenti rilevanti ripercussioni in termini processuali sul giudizio arbitrale.

Funzione sostitutiva degli arbitri

Le citate Sez. Un. n. 24153/2013, in particolare, ritengono che l'attività degli arbitri rituali, anche alla stregua della disciplina complessivamente ricavabile dalla legge 5 gennaio 1994, n. 5 e dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, ha natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario, sicché lo stabilire se una controversia spetti alla cognizione dei primi o del secondo si configura come questione di competenza, mentre il sancire se una lite appartenga alla competenza giurisdizionale del giudice ordinario e, in tale ambito, a quella sostitutiva degli arbitri rituali, ovvero a quella del giudice amministrativo o contabile, dà luogo ad una questione di giurisdizione.

Proprio argomentando dalla detta natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario dell'attività degli arbitri rituali la Cassazione precisa che, in presenza di una clausola compromissoria di arbitrato estero, l'eccezione di compromesso, deve ricomprendersi, a pieno titolo, nel novero di quelle di rito, dando così luogo ad una questione di giurisdizione e rendendo ammissibile il regolamento preventivo di cui all'art. 41 c.p.c., precisandosi, peraltro, che il difetto di giurisdizione nascente dalla presenza di una clausola compromissoria siffatta può essere rilevato in qualsiasi stato e grado del processo a condizione che il convenuto non abbia espressamente o tacitamente accettato la giurisdizione italiana, e dunque solo qualora questi, nel suo primo atto difensivo, ne abbia eccepito la carenza” (cfr., Cass., Sez. Un., n. 24153/2013; conforme ai principi affermati dalle dette S.U. sono anche le S.U. successive, si veda, in particolare, Cass. Sez. Un., ord., 20 gennaio 2014, n. 1005).

L'iter logico-giridico seguito dalla Suprema Corte muove dal fondamento di qualsiasi arbitrato, da rinvenirsi nella libera scelta delle parti in quanto solo essa, intesa come una dei possibili modi di disporre, anche in senso negativo, del diritto di cui all'art. 24, comma 1, Cost. può derogare al precetto contenuto nell'art. 102 Cost.. Ne consegue che la fonte dell'arbitrato non può più ricercarsi e porsi in una legge ordinaria o, più generalmente, in una volontà autoritativa, cosicché il principio fissato dall'art. 806 c.p.c. (“le parti possono far decidere da arbitri le controversie fra loro insorte”) assume il carattere di principio generale, costituzionalmente garantito, dell'intero ordinamento (in questi termini, Corte cost., sent., 14 luglio 1977, n. 127).

L'arbitrato è, quindi, compatibile con il monopolio della giustizia statale nei limiti in cui esso non sia obbligatorio e sia rimesso, pertanto, all'autonomia delle parti, la quale opera, nel settore dei diritti disponibili, come presupposto del potere, loro attribuito, di far decidere controversie ad arbitri privati, nelle forme e secondo le modalità stabilite dall'ordinamento giuridico (in questi termini, in precedenza, Corte cost., n. 127/1977). Sulla base di questa premessa di compatibilità costituzionale, proseguono le S.U. in oggetto, affinché il ricorso all'arbitrato possa considerarsi legittimo, occorre: che la deroga consacrata da volontà concorde delle parti su diritti disponibili operi nei confronti di una controversia conoscibile dal giudice ordinario; che l'arbitrato sia disciplinato da norme di legge che assicurino idonee garanzie processuali, non soltanto sul piano dell'imparzialità dell'organo giudicante, ma anche del rispetto del contraddittorio; la possibilità di impugnativa (nei limiti in cui l'ordinamento processuale tipizza fattispecie di nullità) davanti agli organi della giurisdizione ordinaria.

Tali caratteri appaiono, per l'arbitrato rituale, tali da integrare i requisiti richiesti dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo per rispettare il § 6 della Convenzione di Roma del 4 novembre 1950, cioè l'attitudine dell'organo, ancorché diverso da una struttura giudiziaria, ad espletare una funzione giudiziaria assicurando alle parti una “soluzione giurisdizionale della controversia”.

La normativa, in parte introdotta con la l. n. 25/1994 ed in parte con il d.lgs. n. 40/2006, contiene, secondo le S.U., sufficienti indici sistematici per riconoscere natura giurisdizionale al lodo rituale, e, quindi funzione sostitutiva degli arbitri rituali rispetto al giudice ordinario, nel contempo soddisfacendo quelle indicazioni sui limiti entro i quali la scelta di un giudice diverso da quello statale può essere, dall'ordinamento, affidata alla autonomia dei privati.

Il riferimento è, in particolare: alla proposizione dei mezzi di impugnazione, la quale non è più condizionata dall'emanazione del decreto di esecutività del lodo, che può essere appellato direttamente per nullità davanti alla giurisdizione ordinaria (art. 827, comma 2, c.p.c.), nonché oggetto di revocazione straordinaria ed opposizione di terzo; all'assimilazione in toto alla domanda giudiziale attribuita all'atto introduttivo dell'arbitrato, quanto alla prescrizione e alla trascrizione delle domande giudiziali, che postula l'equiparazione alla domanda giudiziale (esercizio dell'azione giudiziaria) dell'atto di promovimento del giudizio arbitrale, e l'attribuzione al lodo dell'attitudine non di efficacia negoziale bensì della autorità della cosa giudicata.

A ciò si aggiungono l'ammissibilità dell'intervento volontario di terzi nel giudizio arbitrale (art. 816-quinquies c.p.c.) e della successione a titolo particolare ex art. 111 c.p.c., la possibilità per gli arbitri di rimettere alla Corte costituzionale una questione di legittimità costituzionale (art. 819-bis, comma 1, n. 3, c.p.c.), la considerazione in termini di competenza nei rapporti tra causa proposta davanti al giudice ordinario e causa proposta davanti agli arbitri (art. 819-ter c.p.c.), con conseguente impugnabilità con regolamento di competenza della pronuncia del giudice ordinario, nonché l'equiparazione degli effetti del lodo, dalla data della sua ultima sottoscrizione, a quelli della sentenza passata in giudicato, art. 824-bis c.p.c. e art. 829, n. 8, c.p.c. (Cfr., Corte Cass., Uff. Massimario, Rel. n. 15 del 27 gennaio 2016).

Osservano, infine, le Sez. Un. che anche Corte cost., sent., 19 luglio 2013, ha ritenuto la natura giurisdizionale dell'arbitrato e, proprio in base a tale qualificazione, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 Cost., dell'art. 819-ter, comma 2, c.p.c., nella parte in cui esclude l'applicabilità, ai rapporti tra arbitrato e processo, di regole corrispondenti alle previsioni dell'art. 50 c.p.c., ferma la parte restante dello stesso art. 819-ter.

Necessita, peraltro, evidenziare che, anche dopo Sez. Un., n. 24153/2013, permangono delle differenze ineliminabili tra arbitri rituali e giudici ordinari e, quindi, tra giurisdizione statale e giurisdizione arbitrale, avendo la seconda la propria fonte in un atto di autonomia privata. Compito degli interpreti è quindi quello di verificare se tali differenze, pur se non incidenti sulla natura giurisdizionale dell'arbitrato, siano tali da influire sul procedimento arbitrale

Riflessi della funzione sostitutiva

Come detto solo rilevanti e diversificate le conseguenze, di rilievo procedimentale, derivanti dall'acclarata funzione sostitutiva degli arbitri rituali rispetto a quella dei giudici ordinari e, quindi, della natura giurisdizionale dell'arbitrato rituale e del relativo lodo, oltre a quelle rilevanti già evidenziate dalle citate Sez.Un. n. 24153/2013.

Successivamente al revirement del 2013, anche argomentando dalla natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario propria degli arbitri rituali, sono difatti emesse dalla Cassazione numerose decisioni in ordine all'interpretazione del patto compromissorio ed alla conseguente distinzione tra arbitri rituali (ed arbitrato rituale) ed arbitri irrituali (ed arbitrato irrituale) ed in merito ai rapporti tra arbitri ed Autorità giudiziaria, con particolare riferimento all'eccezione di compromesso. Altre pronunce argomentano dalla detta natura giurisdizionale per considerazioni in marito all'impugnazione del lodo ed alle norme applicabili al relativo giudizio.

Arbitri rituali e irrituali

L'arbitrato rituale e quello irrituale, e quindi l'investitura degli arbitri rituali e di quelli irrituali, sono riconducibili all'autonomia negoziale ed alla legittimazione delle parti a derogare alla giurisdizione per ottenere una decisione privata della lite. La loro differenza va invece ravvisata nel fatto che le parti, con gli arbitri rituali, vogliono che si pervenga ad un lodo suscettibile di essere reso esecutivo e di produrre gli effetti di cui all'art. 825 c.p.c., seguendo le relative regole procedimentali, mentre con la nomina degli arbitri irrituali intendono affidare a loro la soluzione di controversie soltanto attraverso lo strumento negoziale, mediante una composizione amichevole o un negozio di accertamento riconducibile alla volontà delle parti stesse, che si impegnano a considerare la decisione degli arbitri come espressione della loro volontà.

Così argomentando, Cass., sez. I, sent., 18 novembre 2015, n. 23629, precisa che, proprio alla stregua di tali principi, deve essere interpretata la clausola compromissoria, dovendosi comunque tenere conto, quale criterio sussidiario di valutazione ex art. 1362 c.c., della condotta complessiva tenuta dalle parti nelle trattative, nella formazione dei quesiti, nello stesso corso del procedimento arbitrale e successivamente alla pronuncia del lodo.

Qualora, all'esito del procedimento ermeneutico avente ad oggetto la portata del patto compromissorio, residuassero dubbi in ordine all'effettiva scelta dei contraenti, circa la ritualità o meno degli arbitri, per Cass., sez. I, sent., 7 aprile 2015, n. 6969, anche con riferimento alla disciplina applicabile prima della introduzione dell'art. 808-ter c.p.c. ad opera del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, essi andrebbero risolti nel senso della ritualità dell'arbitrato, tenuto conto della natura eccezionale della deroga alla norma per cui il lodo ha efficacia di sentenza in ragione della natura giurisdizionale dell'arbitrato rituale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario.

Cass., sez. I, 8 marzo 2016 n. 4526 , sempre argomentando dalla natura giurisdizionale dell'arbitrato rituale e dalla funzione sostitutiva degli arbitri rituali, conferma che la questione concernente la portata di una clausola compromissoria per arbitrato rituale, rispetto al un'altra, intercorrente tra le stesse parti, per arbitrato irrituale, non integra una questione di “competenza” bensì una questione di merito, la cui risoluzione richiede l'interpretazione della clausola secondo gli ordinari canoni ermeneutici, dettati per l'interpretazione dei contratti ex artt. 1362 e ss. c.c..

Attività degli arbitri e principio del contraddittorio

In tema di procedimento arbitrale e rispetto del principio del contraddittorio, Cass., sez. II, sent., 26 maggio 2015, n. 10809, conferma l'orientamento per il quale, qualora le parti con il compromesso o con la clausola compromissoria non abbiano determinato le regole processuali da adottare, gli arbitri rituali sono liberi di regolare l'articolazione del procedimento nel modo che ritengono più opportuno, anche discostandosi dalle prescrizioni dettate dal codice di rito.

Tale libertà, però, precisa la sentenza citata, è limitata dal rispetto del principio del contraddittorio, posto dall'art. 101 c.p.c., che, comunque, necessita di essere opportunamente adattato alle peculiarità del giudizio arbitrale e della funzione degli arbitri rituali. Deve essere difatti offerta alle parti, al fine di consentire loro un'adeguata attività difensiva, la possibilità di esporre i rispettivi assunti, di esaminare ed analizzare le prove e le risultanze del processo, anche dopo il compimento dell'istruttoria e fino al momento della chiusura della trattazione, nonché di presentare memorie e repliche e conoscere in tempo utile le istanze e richieste avversarie.

In applicazione del principio di cui innanzi, la S.C. ritiene esente da censure la decisione arbitrale assunta all'esito di consulenza tecnica di ufficio la cui relazione tecnica era stata svolta anche alla stregua di nuovi documenti prodotti da una parte al consulente tecnico di ufficio ma comunque resi conoscibili da quest'ultimo al consulente tecnico nominato dall'altra parte, con conseguente rispetto del principio del contraddittorio per essere stato il tecnico di parte messo in grado di svolgere le opportune difese. Nel risolvere la questione di diritto di cui si è detto la Cassazione, con la citata sentenza n. 10809 del 2915, chiarisce anche i limiti del sindacato di legittimità nel caso di impugnazione di una sentenza che abbia deciso sull'impugnazione per nullità del lodo rituale, precisando che nel giudizio di legittimità non può essere esaminato direttamente il provvedimento degli arbitri ma solo la pronuncia emessa nel giudizio di impugnazione, allo scopo di verificare se essa sia adeguatamente e correttamente motivata in relazione ai profili di censura del lodo; con la conseguenza che il sindacato di legittimità va condotto esclusivamente attraverso il riscontro della conformità a legge e della congruità dei motivi della sentenza resa sul gravame.

Sempre in ordine ai riflessi della riconosciuta funzione giurisdizionale degli arbitri rituali sul procedimento, ed in particolare in ordine alla fase innanzi al Giudice ordinario in sede di impugnazione, rileva Cass., sez. I, sent., 18 giugno 2014, n. 13898.

Tale sentenza, muovendo proprio dalla funzione sostitutiva degli arbitri rituali rispetto ai giudici ordinari, dalla natura giurisdizionale dell'arbitrato e, quindi, del relativo lodo, ritiene difatti superato definitivamente quell'orientamento per il quale, in considerazione della natura negoziale dell'arbitrato rituale, l'impugnazione del lodo, in quanto avente, quest'ultimo, natura negoziale, sarebbe assimilabile ad un giudizio di primo grado. Per converso, chiarisce la sentenza in esame, detta impugnazione deve ritenersi soggetta alla disciplina e ai principi, in quanto compatibili, che regolano il giudizio di appello, trovando quindi applicazione il disposto di cui all'art. 348, comma 1, c.p.c., circa l'improcedibilità dell'appello, e non l'art. 171 c.p.c..

Integrazione del dispositivo e nullità

In tema di nullità del lodo, in particolare di integrazione del dispositivo ad opera della motivazione al fine dell'esclusione del vizio di omessa pronuncia, interviene Cass., sez. I, sent., 25 settembre 2015, n. 19074.

Con la detta decisione la S.C. applica all'arbitrato il principio di diritto per il quale la portata precettiva di una sentenza va individuata tenendo conto non solo del dispositivo ma anche della motivazione, quando il primo contenga comunque una decisione che, pur di contenuto incompleto e indeterminato, si presti ad essere integrata dalla seconda. Nella specie, proprio argomentando dalla natura sostitutiva degli arbitri rituali rispetto ai giudici ordinari, trova conferma la sentenza impugnata, la quale aveva escluso la ricorrenza del vizio in esame relativamente ad un lodo che, in motivazione, affrontava, ritenendola non meritevole di accoglimento, una domanda risarcitoria ed il cui dispositivo, tuttavia, non conteneva alcuna espressa statuizione di rigetto al riguardo.

Ricusazione e incompatibilità

In tema di impugnazione per nullità del lodo, con particolare riferimento ai limiti di deducibilità con il detto mezzo di gravame delle situazioni di incompatibilità degli arbitri, interviene Cass., sez. I, sent., 13 ottobre 2015, n. 20558.

La Suprema Corte ricorda, in particolare, che l'esistenza dell'incompatibilità deve essere fatta valere mediante istanza di ricusazione da proporsi, a norma dell'art. 815 c.p.c., entro il termine perentorio di dieci giorni dalla notificazione della nomina dell'arbitro o dalla sopravvenuta conoscenza della causa di ricusazione. Precisa altresì, la citata sentenza, che, ai fini della validità del lodo, sono invece irrilevanti le situazioni di incompatibilità delle quali la parte sia venuta a conoscenza dopo la decisione; le quali, ove non si traducano in una incapacità assoluta all'esercizio della funzione arbitrale e, in genere, della funzione giudiziaria, non possono essere fatte valere mediante l'impugnazione per nullità. Quanto detto è argomentato dell'efficacia vincolante acquisita dal lodo e della lettera dell'art. 829, comma 1, n. 2, c.p.c., che circoscrive l'incapacità ad essere arbitro alle ipotesi tassativamente previste dall'art. 812 c.p.c., le quali fanno esclusivo riferimento all'incapacità legale di agire.

Antecedentemente al revirement attuato da Sez. Un. n. 24153/2013, circa la natura dell'arbitrato, invece, la Suprema Corte, seguendo il diverso insegnamento di S.U. n. 527 del 2000, argomentava differentemente, ritenendo il vizio afferente l'invalida o irregolare costituzione del collegio arbitrale (anche costituito per obbligo di legge), derivante dal fatto che la nomina sia stata effettuata in violazione dei modi e delle forme di cui ai Capi I e II del titolo VIII del libro IV del c.p.c., riconducibile non già all'art. 158 c.p.c., relativo al vizio di costituzione del giudice, ma alle nullità previste dall'art. 829, comma primo, n. 2, c.p.c.. Il lodo arbitrale, costituendo una decisione per la soluzione della controversia sul piano privatistico, sempre a detta del precedente orientamento, non può quindi in alcun modo accostarsi a un dictum giurisdizionale e tale carattere è stato accentuato dalla legge 5 gennaio 1994, n. 25, senza che le modifiche apportate dall'art. 819-ter c.p.c., introdotto dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, possano condurre ad una diversa linea ricostruttiva dell'istituto (Cfr., Cass., sez. I, sent., 1 giugno 2011, n. 13246).

Rapporti con i giudici ordinari: eccezione di compromesso e questioni di competenza e giurisdizione

Cass., sez. VI-I, ord.,6 novembre 2015, n. 22748, ancora una volta argomentando dalla natura giurisdizionale dell'arbitrato rituale e dalla funzione sostitutiva del giudice ordinario, propria degli arbitri rituali, ribadisce che l'eccezione di compromesso ha natura processuale, precisando che essa inerisce questione di competenza non rilevabile d'ufficio, in quanto di natura non funzionale e non attinente a diritti indisponibili.

Quanto al termine ed alle modalità per sollevare la questione di cui innanzi, argomentando dall'art. 38 c.p.c., che fa riferimento alla comparsa di risposta tempestivamente depositata, il menzionato provvedimento statuisce che l'eccezione di incompetenza deve essere fatta valere nella comparsa di risposta e nel termine fissato ex art. 166 c.p.c., a pena di decadenza e conseguente radicamento presso il giudice adito del potere di decidere in ordine alla domanda proposta.

L'ordinanza appena citata precisa altresì che la competenza arbitrale, quanto meno in questioni incidenti su diritti indisponibili, non può essere difatti assimilata alla competenza funzionale, che giustificherebbe il rilievo officioso ex art. 38, comma 3, c.p.c., atteso che esso si fonda unicamente sulla volontà delle parti, le quali sono libere di scegliere se affidare la controversia agli arbitri e, quindi, anche di adottare condotte processuali tacitamente convergenti verso l'esclusione della competenza di questi ultimi, con l'introduzione di un giudizio ordinario, da un lato, e la mancata proposizione dell'eccezione di arbitrato, dall'altro.

Antecedentemente al revirement attuato da Sez. Un. n. 24153/2013, circa la natura dell'arbitrato, invece, la Suprema Corte, seguendo il diverso insegnamento di Sez. Un., n. 527/2000, argomentava in termini differenti, precisando che in materia di arbitrato, la questione conseguente all'eccezione di compromesso sollevata dinanzi al giudice ordinario, adito nonostante che la controversia fosse stata deferita ad arbitri, attiene al merito e non alla competenza in quanto i rapporti tra giudici ed arbitri non si pongono sul piano della ripartizione del potere giurisdizionale tra giudici ed il valore della clausola compromissoria consiste proprio nella rinuncia alla giurisdizione ed all'azione giudiziaria. Ne consegue, dal detto differente assunto, che, ancorché formulata nei termini di decisione di accoglimento o rigetto di un'eccezione d'incompetenza, la decisione con cui il giudice, in presenza di un'eccezione di compromesso, risolvendo la questione così posta, chiude o non chiude il processo davanti a sè va riguardata come decisione pronunziata su questione preliminare di merito, impugnabile con l'appello e non ricorribile in cassazione con regolamento di competenza, neppure ove il giudice ordinario, in presenza di una causa connessa presso di lui pendente, introdotta con domanda riconvenzionale ed in violazione dell'art. 819-bis c.p.c., abbia negato l'inammissibilità della domanda principale anziché riconoscerla, poiché deferita alla decisione degli arbitri (Cfr., Cass., sez. II, sent., 19 febbraio 2003, n. 2501).

Sempre in tema di competenza e rapporti tra arbitri rituali e giudici ordinari, Cass., sez. VI-I, sent., 12 novembre 2015, n. 23176 , precisa che la mancata impugnazione della declinatoria della competenza del giudice ordinario, dando luogo al giudicato sulla competenza degli arbitri, preclude, sia in sede arbitrale che impugnatoria, questioni inerenti non solo l'atto che ne sta alla base, cioè la convenzione arbitrale, ma anche relative alla pronuncia arbitrale che ne costituisce lo sviluppo, ove non impugnata per ragioni ulteriori e diverse da quelle riguardanti la competenza, sia in sede di giudizio arbitrale sia in sede di impugnazione del relativo lodo.

La Suprema Corte sancisce il principio di cui innanzi con riferimento a fattispecie per la quale non era applicabile l'art. 819-ter c.p.c., in quanto inerente procedimento arbitrale nel quale la domanda era stata proposta antecedentemente alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 40/2006 e, quindi, non in ragione dell'attuale disciplina dei rapporti tra arbitri e autorità giudiziaria, dettata dal citato articolo, bensì in considerazione della natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione dei giudici ordinari, propria degli arbitri rituali, tale che lo stabilire se un controversia spetti alla cognizione dei primi o dei secondi si configura come questione di competenza.

Quanto innanzi evidenziato deve però fare i conti con la disciplina transitoria dettata dal d.lgs. n. 40/2006 e, pertanto, come precisato da Cass., sez. VI-III, sent., 21 maggio 2015, n. 10506, nei giudizi ordinari radicati anteriormente all'entrata in vigore dell'art. 819-ter c.p.c., la decisione con cui il giudice d'appello – in riforma della sentenza di prime cure – ritenga la controversia sottoposta al suo esame devoluta alla potestas iudicandi di un collegio arbitrale non integra una pronuncia sulla competenza ma sulla proponibilità dell'azione giudiziaria, risultando pertanto impugnabile con ricorso per cassazione e non con regolamento di competenza.

Per quanto concerne la translatio iudicii ed i relativi effetti, Cass., sez. I, sent., 7 ottobre 2015, n. 20105 , in particolare precisa che in tema di impugnazione del lodo arbitrale, a seguito di pronuncia declinatoria di giurisdizione, il termine per adire il giudice munito di giurisdizione, ove non indicato, è quello di cui all'art. 50 c.p.c. e che gli effetti sostanziali e processuali della domanda si conservano nel processo proseguito dinanzi al giudice munito di giurisdizione. Nel caso di specie il lodo era stato impugnato innanzi al Consiglio di Stato e, successivamente a declinatoria di giurisdizione, innanzi alla Corte d'Appello nel rispetto dei termini di cui all'art. 50 c.p.c., in ragione della mancata indicazione del termine per la riassunzione da parte del giudice amministrativo.

Orientamenti a confronto

Funzione degli arbitri

Natura negoziale dell'attività degli arbitri rituali.

Cass., Sez. Un.., sent., 3 agosto 2000 n. 527

Natura giurisdizionale dell'attività degli arbitri rituali.

Cass., Sez. Un., ord., 25 ottobre 2013, n. 24153

Riferimenti
  • La China, L'arbitrato: il sistema e l'esperienza, 4ª ed., Milano, 2011;
  • Luiso, Diritto processuale civile. V. La risoluzione non giurisdizionale delle controversie, 8ª ed., Milano, 2015;
  • Mandrioli, Diritto processuale civile, III, 20ª ed., Torino, 2009.
Sommario