Atto d'appello come «progetto alternativo di sentenza»? La Cassazione dice «no»

Mauro Di Marzio
17 Gennaio 2017

L'art. 434, primo comma, c.p.c., nel testo vigente, in coerenza con il paradigma generale contestualmente introdotto nell'art. 342 c.p.c., non richiede che le deduzioni della parte appellante si traducono in un «progetto alternativo di sentenza», ma impone al ricorrente in appello di individuare in modo chiaro ed esauriente il quantum appellatum.
Massima

L'art. 434, primo comma, c.p.c., nel testo vigente, in coerenza con il paradigma generale contestualmente introdotto nell'art. 342 c.p.c., non richiede che le deduzioni della parte appellante si traducono in un «progetto alternativo di sentenza», ma impone al ricorrente in appello di individuare in modo chiaro ed esauriente il quantum appellatum, circoscrivendo il giudizio di gravame con riferimento agli specifici capi della sentenza impugnata nonché ai passaggi argomentativi che la sorreggono e formulando, sotto il profilo qualitativo, le ragioni di dissenso rispetto al percorso adottato dal primo giudice, sì da esplicitare la idoneità di tali ragioni a determinare le modifiche della decisione censurata.

Il caso

Una lavoratrice, suppongo una commessa, impugna il licenziamento disciplinare subito: avrebbe caricato sulla propria fidelity card i bonus fedeltà maturati da terzi acquirenti presso l'esercizio commerciale della società datrice di lavoro.

La domanda è respinta in primo grado: il giudice ritiene in breve che dalla lettera di giustificazione della lavoratrice, redatta in occasione del procedimento disciplinare a suo carico, emerga la confessione del fatto addebitato.

Proposto appello, esso viene dichiarato inammissibile, per violazione dell'art. 434 c.p.c., perché generico, dovendo l'atto d'appello essere redatto — afferma la Corte territoriale — «quasi come un “progetto alternativo di sentenza”».

La questione

Il tema è ancora attualissimo, nonostante la riforma del giudizio di appello risalga ormai al 2012: come deve essere redatto l'atto d'appello alla stregua della previsione del nuovo art. 342 c.p.c. e, per il rito del lavoro, dell'art. 434 c.p.c.?

Quali oneri deve rispettare l'appellante nel contrastare la decisione impugnata? E, in particolare, deve offrire al giudice di appello un «progetto alternativo di sentenza»?

Le soluzioni giuridiche

Secondo la Suprema Corte deve escludersi che l'appello vada redatto quasi come un «progetto alternativo di sentenza», secondo quanto affermato dal giudice d'appello.

Difatti, l'art. 434, comma 1, c.p.c., nel testo introdotto dall'art. 54, comma 1, lett. c) bis del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla l. 7 agosto 2012, n. 134, in coerenza con il paradigma generale contestualmente introdotto nell'art. 342 c.p.c., non richiede che le deduzioni della parte appellante assumano una determinata forma o ricalchino la decisione appellata con diverso contenuto, ma impone all'appellante di individuare in modo chiaro ed esauriente il quantum appellatum, circoscrivendo il giudizio di gravame con riferimento agli specifici capi della sentenza impugnata nonché ai passaggi argomentativi che la sorreggono e formulando, sotto il profilo qualitativo, le ragioni di dissenso rispetto al percorso adottato dal primo giudice, sì da esplicitare l'idoneità di tali ragioni a determinare le modifiche della decisione censurata.

Osservazioni

A leggere distrattamente la sentenza in commento potrebbe apparire che la riforma del giudizio di appello attuata nel 2012 non abbia avuto alcun apprezzabile impatto sulle modalità di confezionamento dell'atto d'appello, atto che — afferma correttamente la pronuncia — non ha da essere redatto come un «progetto alternativo di sentenza».

In effetti ascriverei al numero delle post-verità, per usare un vocabolo alla moda, ovvero delle più tradizionali «bufale», ossia delle notizie false, quella, circolata dopo la riforma del 2012, secondo cui l'atto d'appello dovesse da quel momento in poi essere congegnato come «progetto alternativo di sentenza».L'esigenza di un «progetto alternativo di sentenza» si trova in realtà utilizzato in un parere del CSM del 5 luglio 2012 sullo schema del cd. «decreto sviluppo», ossia del testo normativo che contiene anche i provvedimenti di riforma del giudizio di appello. In tale parere è scritto che: «la compiuta delibazione della sussistenza o meno della ragionevole probabilità di accoglimento dell'appello può essere aiutata ove si preveda espressamente … che l'atto di appello … debba contenere, a pena di inammissibilità, un vero e proprio progetto alternativo di sentenza». Dunque il CSM ha parlato di «progetto alternativo di sentenza» de iure condendo, e non in riferimento al testo attuale degli artt. 342 e 434 c.p.c., che erano ancora in gestazione.

Sulla scia del parere del CSM, tuttavia, non è mancata qualche decisione — cui è stato dato molto, forse troppo risalto — secondo la quale l'appello dovrebbe «essere redatto in modo più organico e strutturato rispetto al passato, quasi come una sentenza» (App. Roma, 29 gennaio 2013). Nella stessa prospettiva è stato addirittura affermato che il nuovo art. 342 c.p.c. «obbliga l'appellante ad indicare … le modifiche richieste, sicché … il lavoro assegnato al giudice dell'appello appare alquanto simile a un preciso e mirato intervento di “ritaglio” delle parti di sentenza di cui si imponga l'emendamento, con conseguente innesto — che appare quasi automatico, giusta l'impostazione dell'atto di appello — delle parti modificate, con operazione di correzione quasi chirurgica del testo della sentenza di primo grado» (App. Salerno 1° febbraio 2013, n. 139). In altre parole — se bene intendo — il lavoro del giudice di appello di redazione della sentenza dovrebbe secondo questa impostazione ridursi ad una semplice operazione di taglia-incolla dall'atto di impugnazione: il che gli consentirebbe — mi pare — anzitutto di incrementare il proprio tempo libero e perfezionarsi, che so, nel tennis, nel ricamo, nel canto corale. Senza dire della «grottesca confusione di ruoli» (Capponi, Sulla « ;ragionevole brevità ;» degli atti processuali civili, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2014, 1075) che si determinerebbe se si accogliesse l'idea del «progetto alternativo di sentenza».

Per fare giustizia di una simile impostazione, che la Suprema Corte con la sentenza in commento ha respinto, mi limiterò a dire — tanto balzana mi pare l'idea dell'avvocato che deve servire al giudice d'appello un testo da cui scopiazzare la propria sentenza — che una volta il giudice che copiava le sentenze dagli atti delle parti rischiava un probabile procedimento disciplinare…

Detto questo, il problema del nuovo art. 342 (e 434) c.p.c. resta aperto: e, cioè, rimane ancora da chiarire con la necessaria precisione che cosa abbia inteso dire il legislatore nello stabilire che: «La motivazione dell'appello deve contenere, a pena di inammissibilità: 1) l'indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado; 2) l'indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata».

Scartata la tesi del «progetto alternativo di sentenza», resta cioè da chiedersi: basta all'atto d'appello una pura e semplice pars destruens? E cioè: basta all'appellante dedurre e dimostrare che il giudice d'appello ha sbagliato? O, invece, occorre all'atto d'appello qualcosa di più, anche una pars costruens, e cioè la dimostrazione che, se non avesse sbagliato, l'esito del giudizio sarebbe stato diverso e favorevole all'appellante?

Mi spiego con un piccolo esempio. Immaginiamo che il giudice di primo grado abbia respinto la domanda dell'attore accogliendo un'eccezione di prescrizione del convenuto ed applicando una prescrizione breve, poniamo quinquennale: basta in un simile caso all'appellante formulare un motivo volto a dimostrare che la prescrizione applicabile non è quella quinquennale, ma quella ordinaria decennale?

No, evidentemente non basta. Un simile motivo, che denuncia una violazione di legge sostanziale, manca infatti di indicare — come richiede l'art. 342 c.p.c. — il rilievo di detta violazione ai fini della formazione della decisione impugnata. E cioè, data per ammessa l'errata individuazione del termine di prescrizione applicabile, quinquennale anziché decennale, tale errore potrebbe sì aver provocato una decisione sbagliata, in caso di esordio della prescrizione ricadente nel decennio, ma potrebbe anche non aver impedito una decisione giusta, anche se mal motivata (motivazione che in Cassazione viene soltanto corretta: art. 384 c.p.c.), in caso di prescrizione che abbia iniziato il suo corso più di 10 anni prima dell'introduzione del giudizio ovvero del primo atto interruttivo.

In un caso del genere, tenuto conto dell'odierno dato normativo, a fronte di un motivo che denuncia puramente e semplicemente l'erronea individuazione del termine di prescrizione applicabile, il giudice non potrebbe motu proprio andare a scartabellare nel fascicolo alla ricerca della data in cui la prescrizione ha iniziato il suo corso, perché, se così facesse, non si limiterebbe a scrutinare il motivo d'appello formulato dall'appellante, ma — detto in parole povere — finirebbe per elaborarlo egli stesso, violando la regola di fondo che presiede oggi al funzionamento del giudizio di appello, che, come tutti sanno, non ha più la conformazione del novum iudicium, bensì quella assai più ristretta della revisio prioris istantiae. Il che vuol dire in breve che la sentenza di primo grado rimane in piedi fintanto che l'appellante, a mezzo dei suoi motivi, non la demolisce.

L'esempio fatto riguarda una violazione di legge. Ma in caso di motivo diretto a censurare la «ricostruzione del fatto» — espressione, quest'ultima, che a me pare notevolmente problematica, ma sulla quale non posso ora soffermarmi per ragioni di spazio — i termini della questione non cambiano. Cerco di spiegarmi ancora con un esempio, anche se un po' paradossale. Il giudice di primo grado, in una causa di «parafanghi», ha dato ragione all'attore e torto al convenuto, perché quest'ultimo, alla guida della sua automobile rossa, non si è fermato ad un segnale di stop. Il convenuto propone appello denunciando l'erronea ricostruzione del fatto perché la sua automobile è verde. Punto. E allora? Una simile doglianza può mai rimettere in gioco la decisione adottata dal giudice di primo grado? Direi che la risposta è scontata.

Ora, se si presta attenzione alla motivazione svolta nella sentenza in commento, ci si avvede che il punto nodale sta in ciò, che il motivo d'appello deve rendere manifeste le ragioni di dissenso rispetto al percorso adottato dal primo giudice — badate bene — «sì da esplicitare l'idoneità di tali ragioni a determinare le modifiche della decisione censurata». In questo senso merita rammentare una decisione ancora recente della SC in cui si spiega con altrettanta chiarezza che i motivi d'appello «devono proporre le ragioni di dissenso rispetto al percorso adottato dal primo Giudice ed esplicitare in che senso tali ragioni siano idonee a determinare le modifiche della statuizione censurata chieste dalla parte» (Cass., Sez. Lav., 5 febbraio 2015, n. 2143, in Riv. it. dir. lav., 2015, II, 503, con nota di Izzo, Forma e contenuto dell'atto di appello del rito del lavoro secondo la (primissima) giurisprudenza di legittimità.

In definitiva, se pur non occorre il «progetto alternativo di sentenza», l'appellante deve spiegare perché l'accoglimento del motivo conduce al ribaltamento della decisione adottata dal primo giudice.

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