Il sequestro conseguente a perquisizione illegittima

04 Agosto 2015

Allorquando la perquisizione sia stata effettuata senza l'autorizzazione del magistrato e non nei casi e nei modi stabiliti dalla legge, come prescritto dall'art. 13 Cost., si è in presenza di un mezzo di ricerca della prova che non è compatibile con la tutela del diritto di libertà del cittadino, estrinsecabile attraverso il riconoscimento dell'inviolabilità del domicilio.
Massima

Allorquando la perquisizione sia stata effettuata senza l'autorizzazione del magistrato e non nei casi e nei modi stabiliti dalla legge, come prescritto dall'art. 13 Cost., si è in presenza di un mezzo di ricerca della prova che non è compatibile con la tutela del diritto di libertà del cittadino, estrinsecabile attraverso il riconoscimento dell'inviolabilità del domicilio. Ne consegue che, non potendo essere qualificato come inutilizzabile un mezzo di ricerca della prova ma solo la prova stessa, la perquisizione è nulla e il sequestro eseguito all'esito di essa non è utilizzabile come prova nel processo, salvo che ricorra l'ipotesi prevista dall'art. 253, comma 1, c.p.p., nella quale il sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato, costituendo un atto dovuto, rende del tutto irrilevante il modo con cui ad esso si sia pervenuti.

(Fattispecie relativa a perquisizione domiciliare, eseguita senza l'autorizzazione della competente A.G., nel corso della quale erano stati sequestrati circa trentuno grammi di cocaina. La Suprema Corte, nell'enunciare il principio di cui in massima, ha escluso che l'ufficiale di P.G., il quale abbia eseguito una perquisizione fuori dei casi e non nei modi consentiti dalla legge, non abbia l'obbligo, a causa dell'abuso compiuto, di sequestrare la cosa pertinente al reato rinvenuta nel corso di essa, quasi che l'arbitrarietà o l'illiceità della condotta possa privare l'autore della qualifica soggettiva da lui rivestita).

Il caso

Il 13 agosto 1994 la Guardia di Finanza, a seguito di perquisizione domiciliare nell'abitazione di S.G. eseguita senza l'autorizzazione dell'autorità giudiziaria competente, sequestrava 31 grammi di cocaina.

Il 6 settembre 1994 il tribunale di Modena dichiarava S.G. colpevole del reato previsto dall'art. 73, n. 1, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 e, concessagli l'attenuante della lieve entità del fatto, considerata prevalente sulla recidiva che pure gli era stata contestata, lo condannava ad anni 3 di reclusione e £ 20.000.000 di multa.

La difesa dell'imputato proponeva appello adducendo la illegittimità della perquisizione perché eseguita in violazione dell'art. 103, comma 3, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309. Invero, secondo la difesa non esistevano motivi di particolare urgenza in grado di giustificare il fatto che la Guardia di Finanza non si fosse preventivamente munita dell'autorizzazione da parte del magistrato competente per eseguire la perquisizione. La Corte d'appello di Bologna, pur riconoscendo fondato quanto addotto dalla difesa, riteneva, tuttavia, utilizzabile come prova del reato commesso il sequestro dei 31 grammi di droga rinvenuti durante la perquisizione, sulla base del fatto che l'illegittimità della perquisizione non si estendeva al sequestro che, pertanto, rimaneva legittimo. Difatti, perquisizione e sequestro non sono in un rapporto di stretta consequenzialità giuridica, fondandosi su presupposti diversi ed avendo funzioni differenti.

La Corte d'appello, quindi, confermava la condanna ma riduceva la pena ad anni 2 di reclusione e £ 18.000.000 di multa, in virtù della concessione delle attenuanti generiche.

Avverso tale sentenza l'imputato proponeva ricorso per Cassazione lamentando la violazione dell'art. 191 c.p.p. e sostenendo che la Corte d'appello di Bologna, dopo aver accertato l'illegittimità della perquisizione, non avrebbe dovuto utilizzare quale prova del reato commesso la droga sequestrata proprio a seguito di quest'ultima né le dichiarazioni testimoniali rese da coloro che vi avevano partecipato e chiedeva, così, l'annullamento della sentenza senza rinvio.

Il ricorso veniva assegnato alla Sezione sesta della Suprema Corte e con ordinanza del 26 ottobre 1995 veniva rimesso alle Sezioni unite, a norma dell'art. 618 c.p.p.

La questione

Le Sezioni unite sono state chiamate a decidere se qualsiasi inosservanza delle formalità prescritte dalla legge ai fini della legittima acquisizione di una prova nel processo penale possa essere sufficiente a rendere quest'ultima inutilizzabile, ai sensi del comma 1 dell'art. 191 c.p.p. e se una prova assunta durante una perquisizione, poi riconosciuta illegittima, sia utilizzabile.

Per risolvere la questione loro sottoposta, le Sezioni unite partono dal definire il concetto di inutilizzabilità, la sua ratio e la sua differenza rispetto alla diversa sanzione della nullità.

L'introduzione nel codice di rito della sanzione dell'inutilizzabilità ha consentito di rispondere all'esigenza, fortemente avvertita dal legislatore, di assicurare una maggiore tutela giurisdizionale alla prova e si attesta quale risultato conclusivo di una collaudata esperienza positiva. Così, l'inutilizzabilità ha permesso di colmare una lacuna del precedente ordinamento processuale in relazione ai divieti probatori, non consentendo al giudice di fondare la propria decisione su prove assunte in maniera diversa dal format legale. Invero, se si fosse proseguito nel lasciare, quale tutela dei divieti probatori, la sola sanzione della nullità, si sarebbe corso il rischio di avere sentenze fondate su prove proibite; senza considerare, poi, che il codice di rito prevede la sanatoria della nullità; ciò significa che se non fosse stata introdotta la sanzione dell'inutilizzabilità, una prova in un primo momento vietata sarebbe, poi, potuta divenire legittima.

Nullità ed inutilizzabilità, anche se operano entrambe nell'ambito della patologia della prova, sono distinte ed autonome, con presupposti differenti. Invero, “la nullità attiene sempre e soltanto all'inosservanza di alcune formalità di assunzione della prova, vizio che non pone il procedimento formativo o acquisitivo completamente al di fuori del parametro normativo di riferimento, ma questo non risulta rispettato in alcuni dei suoi peculiari presupposti; invece l'inutilizzabilità, come sanzione di carattere generale, presuppone la presenza di una prova vietata per la sua intrinseca illegittimità oggettiva, ovvero per effetto del procedimento acquisitivo la cui manifesta illegittimità lo pone completamente al di fuori del sistema processuale”.

La Suprema Corte, poi, si è soffermata sul concetto di divieti probatori sottolineando che tali non sono soltanto quelli espressamente previsti dalla legge, ma anche quelli desumibili dall'ordinamento e ciò ha permesso di definire l'inutilizzabilità un istituto “a geometria variabile” perché in grado di adeguarsi non solo alle diverse esigenze delle varie fasi del procedimento penale ma anche alla necessità di garantire il rispetto della legalità della prova quando la sua acquisizione non abbia rispettato i canoni previsti dalla legge.

A questo punto le Sezioni unite entrano nel vivo della questione, affermando che una perquisizione svolta senza l'autorizzazione del magistrato competente e al di fuori dei modi e dei casi previsti dalla legge, lede il diritto di libertà del cittadino, che si estrinseca, in tal caso, nella lesione dell'inviolabilità del domicilio, sancita all'art. 14, comma 1, Cost. Pertanto, visto il rapporto non soltanto di consequenzialità cronologica ma anche funzionale tra perquisizione e sequestro, è evidente che se l'una è nulla, quanto sequestrato non può essere utilizzato dal giudice come prova nel processo penale. Tuttavia, tale ragionamento, secondo la giurisprudenza di legittimità, non può ritenersi applicabile al caso di specie, perché il sequestro probatorio previsto dall'art. 253 c.p.p. è un atto dovuto, che prescinde dalla legittimità della perquisizione. Invero, sostiene la Suprema Corte, un giudice, di fronte ad una perquisizione illegittima e al sequestro del corpo del reato o di cose pertinenti al reato, non potrebbe esimersi dal tenerne conto nell'elaborazione della propria decisione. Allo stesso modo, incorrerebbero in responsabilità penali coloro che a seguito di perquisizione illegittima non provvedessero al sequestro del corpo del reato o di cose pertinenti al reato. Invero, si deve sottolineare come necessità primaria da perseguire l'interruzione del protrarsi di una situazione di illiceità penale o della permanenza del reato o degli effetti connessi.

La Suprema Corte, quindi, rigetta la richiesta del ricorrente e lo condanna alle spese.

Le soluzioni giuridiche

La Suprema Corte conclude sostenendo che “il sequestro della droga, nel caso in esame, è stato legittimamente eseguito, trattandosi di un provvedimento imposto ex lege ed una volta eseguito non solo non poteva essere revocato ma conservava la sua piena efficacia, a tutti gli effetti, nel procedimento nel quale era stato adottato.

Altrettanto dicasi per le dichiarazioni testimoniali rese dagli ufficiali e dagli agenti di polizia giudiziaria che a quel sequestro avevano proceduto: l'atto da essi compiuto altro non rappresentava, come già si è detto, che il risultato dell'adempimento di un obbligo imposto loro dalla legge ed in relazione alla esecuzione di tale obbligo essi potevano legittimamente offrire il contributo conseguente alla loro diretta partecipazione al procedimento acquisitivo del corpo di reato, soggetto, per la sua intrinseca illiceità penale, a confisca obbligatoria.

Pertanto, la sentenza impugnata, avendo legittimamente utilizzato le risultanze probatorie acquisite, ed avendo espresso un'esauriente valutazione del loro contenuto, si sottrae ai rilievi dedotti dall'imputato ricorrente”.

Osservazioni

Le Sezioni Unite con la sentenza in esame si inseriscono nella contrapposizione, esistente ormai da lungo tempo e non limitata all'argomento in esame, tra la tesi del male captum bene retentum e quella de “i frutti dell'albero avvelenato”, inerente il rapporto tra sequestro e perquisizione.

La prima tesi, sostenuta in dottrina da quanti negano che un vizio di un atto probatorio possa propagarsi ad un atto successivo, in virtù del fatto che non esiste tra essi alcuna dipendenza giuridica. Tale tesi, di gran lunga prevalente rispetto alla seconda, è apparsa in auge anche in seno alla Suprema Corte, tant'è che numerosi appaiono gli arresti che si collocano in tale solco interpretativo. Così, non è mancata la giurisprudenza che ha considerato la perquisizione un mero antecedente cronologico rispetto al sequestro e pertanto non in grado di inficiare quest'ultimo qualora sia svolta non nei casi e nei modi previsti dalla legge o la pronuncia in cui si è sostenuto che tra perquisizione e sequestro non vi fosse un nesso eziologico di causa ad effetto, perché il potere di sequestro, riferito a cose oggettivamente sequestrabili, non dipende dalle modalità con le quali queste ultime sono state scoperte. Pertanto, qualora la perquisizione fosse stata illegittima, altrettanto non sarebbe a dirsi per il sequestro, che potrebbe essere ben utilizzato dal giudice a fondamento della propria decisione.

Diversamente, secondo la teoria de “i frutti dell'albero avvelenato”, ispirata alla giurisprudenza nordamericana degli anni '20, un vizio di un atto probatorio si ripercuote sui frutti della ricerca, contaminandoli. Tale orientamento è stato introdotto in Italia da quella parte della dottrina che riteneva opportuno cercare di restringere l'ambito conoscitivo del giudice nel processo, tenendo soprattutto conto dei metodi non conformi alle regole utilizzati nell'attività investigativa. Si mirava, così, a soluzioni più garantiste tese al rispetto dei principi costituzionali ed in particolare di quelli previsti agli artt. 13, 14 e 15 della Carta fondamentale.

Le Sezioni unite, quindi, con la sentenza in commento, abbracciano – con le specificazioni indicate – il secondo orientamento, discostandosi, così, dalla giurisprudenza prevalente. Esse stabiliscono che quando la perquisizione non è stata effettuata nei casi e nei modi previsti dalla legge e, nel caso di specie, senza l'autorizzazione del magistrato competente, si è in presenza di un mezzo di ricerca della prova non compatibile con i principi costituzionali di cui agli artt. 13 e 14 Cost. Ciò implica che la perquisizione è illegittima e il conseguente sequestro non utilizzabile come prova nel processo, a meno che non ricorra l'ipotesi prevista dall'art. 253, comma 1, c.p.p., nella quale il sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato è un atto dovuto e, pertanto, rende del tutto irrilevante il modo con cui ad esso si sia pervenuti.

Tale arresto, tuttavia, sembra più orientato a salvare il mero aspetto formale della questione, giacché, dal profilo sostanziale, gli effetti pratici non si distanziano da quelli prodotti in base al principio del male captum, bene retentum. In effetti, appare arduo immaginare ad una situazione in cui si abbia una perquisizione illegittima che porti al sequestro di cose o documenti che non siano il corpo del reato o cose pertinenti al reato, considerando anche la definizione piuttosto ampia di queste ultime. Resta, tuttavia, aperto il problema sulla portata probatoria del sequestro e della precedente perquisizione illegittima, giacché si potrebbe sostenere che vada salvaguardato l'apporto conoscitivo offerto dal sequestro senza, però, collegare il corpo del reato o la cosa pertinente al soggetto presso il quale esso è stato rinvenuto, posto che, proprio le modalità di rinvenimento rappresentano l'in sè della perquisizione illegittima.

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