La diffamazione nell'era del social network
04 Settembre 2015
Massima
La diffusione di un messaggio con le modalità consentite dall'utilizzo di una bacheca facebook ha potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone. Pertanto, la condotta consistente nel postare un commento sulla bacheca facebook, ove tale commento sia offensivo, rientra nella tipizzazione cui al comma 3 dell'art. 595 c.p., stante l'idoneità del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del commento tra un consistente numero di persone. Il caso
In data 18 luglio 2013, il giudice di pace di Roma, chiamato a giudicare una fattispecie diffamatoria scaturita dalla pubblicazione di un commento offensivo sulla bacheca facebook della persona offesa, dichiarava la sua incompetenza per materia: ancorché non contestata, il caso sottoposto al suo vaglio integrava, secondo detto giudice, un'ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell'art. 595, comma 3, c.p. Il tribunale di Roma in composizione monocratica, per contro, non riteneva configurabile l'aggravante: ad avviso del tribunale, postare un commento sulla bacheca facebook della persona offesa non implica pubblicazione né diffusione del relativo contenuto offensivo, possibile solo ove la persona offesa non abbia attivato i meccanismi di protezione della privacy. Anche tale giudice, pertanto, declinava la propria competenza a giudicare sulla fattispecie in discorso e rimetteva gli atti alla Corte di cassazione per la risoluzione del conflitto. Aderendo alle argomentazioni articolate dal tribunale, anche l'imputato, con memoria ritualmente depositata, sosteneva che la competenza spettasse al giudice di pace. Si delineava, così, una situazione di stallo processuale che, a norma degli artt. 28 c.p.p. e ss., richiedeva un intervento risolutivo della Cassazione. La questione
I giudici di piazza Cavour, nella sentenza in commento, sono stati chiamati a decidere se la pubblicazione di un commento offensivo sull'altrui bacheca facebook integri una diffamazione semplice ovvero aggravata. La Corte di cassazione prende le mosse dagli arresti giurisprudenziali in cui si è affermato che il reato di diffamazione ben può essere commesso a mezzo Internet e che, in tale evenienza, si delinea la fattispecie aggravata di cui al terzo comma dell'art. 595 c.p. Allorché sia utilizzata una bacheca facebook, non vi sono ragioni – prosegue la Corte di legittimità – per pervenire ad una diversa soluzione, e non solo perché in entrambi i casi viene in gioco l'applicazione di risorse informatiche. Rileva la Cassazione che l'aggravamento di pena previsto dal comma 3 dell'art. 595 c.p. si spiega in ragione del maggior danno arrecato alla persona offesa, stante l'idoneità del mezzo a coinvolgere e raggiungere una pluralità di persone, ancorché non individuate nello specifico ma apprezzabili soltanto in via potenziale. Non a caso, il citato comma 3 prende in considerazione la stampa e “qualsiasi altro mezzo di pubblicità”: in entrambi i casi, è evidente, si determina una propagazione dell'offesa. Fra gli altri mezzi di pubblicità, la Corte di cassazione suole ricondurre un pubblico comizio, come pure l'utilizzo, al fine di inviare un messaggio, della posta elettronica secondo le modalità del forward (cioè verso una pluralità di destinatari): ambedue le ipotesi vanno ricondotte alla locuzione “altro mezzo di pubblicità” in quanto realizzano un'ampia e indiscriminata diffusione della notizia tra un numero indeterminato di persone. Ciò rammentato, la Suprema Corte, nella sentenza in commento, volge l'attenzione allo specifico caso portato alla sua attenzione e rileva che “anche la diffusione di un messaggio con le modalità consentite dall'utilizzo per questo di una bacheca facebook, ha potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone”. Fanno notare infatti gli Ermellini che, in base alla comune esperienza, può senza timore di smentita sostenersi che le bacheche facebook “racchiudono un numero apprezzabile di persone (senza le quali la bacheca facebook non avrebbe senso)”. Del resto, attraverso il social network in parola, “gruppi di soggetti socializzano le rispettive esperienze di vita, valorizzando in primo luogo il rapporto interpersonale che, proprio per il mezzo utilizzato, assume il profilo del rapporto interpersonale allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione”. Le soluzioni giuridiche
Alla luce delle osservazioni che precedono, la Cassazione conclude nel senso che la condotta di colui che posta un commento sulla bacheca facebook integra pubblicizzazione e diffusione del commento medesimo, stante l'idoneità del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone di apprezzabile consistenza numerica. Ne deriva che, se tale commento assume carattere offensivo, l'operato dell'agente ricade nella fattispecie di diffamazione aggravata ex art. 595, comma 3, c.p. La Corte di legittimità pertanto, con riferimento al caso di specie, dichiara la competenza del tribunale di Roma. Osservazioni
La pronuncia oggetto della presente disamina interviene a prendere posizione su una questione di rilevanza non trascurabile, stante il dilagante e sempre crescente utilizzo dei social network in generale e di facebook in particolare. Il numero di utenti di facebook è elevatissimo, le interazioni sono innumerevoli, e tutt'altro che inusuale è l'utilizzo quantomeno disinvolto del social network in parola. A tal ultimo proposito, non può che prendersi atto, per comune esperienza, che è assai frequente la pubblicazione di contenuti offensivi dell'altrui reputazione, quasi che tramite facebook gli utenti si sentissero titolari di una licenza di diffamare. Ben si comprende, allora, il rilievo che la pronuncia in commento assume, laddove afferma che le offese veicolate tramite facebook devono considerarsi aggravate. Una simile conclusione pare possa valere anche per i casi di condotte diffamatorie poste in essere mediante l'utilizzo di altri social network parimenti diffusi. Si pensi ad instagram o twitter, i cui utenti, peraltro, spesse volte non attivano i meccanismi di privacy che pure sono messi a loro disposizione. È molto frequente, infatti, che gli utenti di twitter o instagram abbiano profili, come si suol dire, aperti, e cioè visibili da chiunque. Si tenga conto che un utente medio di twitter o instagram di norma ha non meno di cento seguaci, con la conseguenza che ogni foto o commento che pubblica è visibile da (almeno) cento persone; in più, se detto utente non ha impostato il proprio profilo come “privato”, tutti i contenuti sono visualizzabili da un numero potenzialmente indefinito di soggetti. Anche i mezzi de quibus, dunque, danno enorme diffusione ai contenuti ivi pubblicati. Tali contenuti, ove offensivi, saranno allora incriminabili ai sensi del comma 3 dell'art. 595 c.p., stante l'approccio ermeneutico fatto proprio dalla Suprema Corte. |