I rapporti tra l'estorsione e l'esercizio arbitrario delle proprie ragioni

05 Maggio 2016

La Corte di cassazione è intervenuta a stabilire se la condotta di un soggetto, terzo estraneo al rapporto contrattuale, che agisca, quindi, per conto del titolare di un diritto di credito, integri il reato di estorsione oppure debba essere inquadrata nelle diverse fattispecie penali incriminatrici dell'esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone, di cui all'art. 393 c.p., ovvero della truffa di cui all'art. 640 c.p.
Massima

Il reato di estorsione si caratterizza per la volontà dell'agente di costringere la vittima e di annullarne le facoltà volitive trasformandola in una esecutrice forzata delle sue pretese.

Ogni volta che l'azione violenta risulti diretta (non solo) ad aggirare illecitamente il sistema di tutela legale del credito ma (anche) a costringere la vittima, la pretesa alla base dell'azione coattiva perde ogni connotazione di liceità sicché la condotta deve essere inquadrata nel reato di estorsione.

Se il terzo, che interviene per conto del titolare del diritto di credito, agisce per un interesse proprio, diverso ed ulteriore rispetto all'interesse del titolare del diritto (ed individuabile anche solo nell'accrescimento del prestigio criminale), le condotte del mandante e dell'esecutore devono essere sicuramente qualificate come estorsive, in quanto la violenza esercitata risulta diretta all'ottenimento di vantaggi non coincidenti con la soddisfazione extragiudiziale del credito; in tal caso la condotta concorsuale fuoriesce dall'area coperta dall'art. 393 c.p., che è invocabile solo ove l'azione violenta sia diretta al recupero extragiudiziale del credito e non incida le facoltà volitive del debitore fino ad annullarle.

Non è configurabile il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni ogni volta che le minacce siano dirette verso soggetti estranei al rapporto contrattuale.

La riconducibilità della condotta alla fattispecie prevista dall'art. 393 c.p. richiede invece che la condotta illecita resti circoscritta nel perimetro del rapporto contrattuale, mentre il coinvolgimento di soggetti terzi esclude, a priori, che possa essere invocato l'inquadramento più favorevole.

La distinzione tra il reato di truffa consumata attraverso la prospettazione di un pericolo non reale ed il reato di estorsione deve essere effettuata valutando la concreta efficacia coercitiva della minaccia, dovendosi ritenere che si verte nella ipotesi estorsiva quando il male prospettato si presenta irresistibile e coarta la volontà della vittima; si verte invece nell'ipotesi della truffa quando la minaccia del pericolo irrealizzabile, per la sua intrinseca consistenza, non ha capacità coercitiva ma si limita ad influire sul processo di formazione della volontà deviandolo attraverso la induzione in errore.

In tema di estorsione, il delitto deve considerarsi consumato e non solo tentato allorché la cosa estorta venga consegnata dal soggetto passivo all'estorsore e ciò anche nelle ipotesi in cui sia predisposto l'intervento della polizia giudiziaria che provveda immediatamente all'arresto del reo ed alla restituzione del bene all'avente diritto.

Il caso

La Corte di cassazione è intervenuta a vagliare e a valutare l'esattezza della qualificazione giuridica fornita alla vicenda processuale dalla Corte di appello di Ancona che ha ritenuto di confermare la condanna per estorsione inflitta dalla sentenza di primo grado a carico di un imputato al quale si contestava di aver estorto al debitore, su mandato del titolare di un diritto di credito, per il quale il creditore aveva esperito una infruttuosa procedura esecutiva, la somma di euro 25.000,00, attraverso gravi minacce rivolte sia alla vittima che ai suoi familiari.

Avverso la sentenza delle Corte di appello, l'imputato proponeva ricorso per Cassazione per violazione di legge, sostenendo che la condotta materialmente posta in essere avrebbe dovuto essere inquadrata nella fattispecie penale incriminatrice prevista dall'art. 393 c.p., integrando, quindi, il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone; ciò in quanto la pretesa di ottenere le somme asseritamente estorte non poteva dirsi ingiusta solo perché la procedura esecutiva era stata infruttuosa.

A giudizio del ricorrente, inoltre, la condotta in contestazione avrebbe dovuto essere tutt'al più qualificata come truffa aggravata, potendo ritenersi in concreto idonea a trarre in inganno la vittima e giammai a coartarne la volontà, essendo soltanto ipotetico il male prospettato.

La questione

La Corte di cassazione è intervenuta a stabilire se la condotta di un soggetto, terzo estraneo al rapporto contrattuale, che agisca, quindi, per conto del titolare di un diritto di credito, integri il reato di estorsione oppure debba essere inquadrata nelle diverse fattispecie penali incriminatrici dell'esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone, di cui all'art. 393 c.p., ovvero della truffa di cui all'art. 640 c.p.

La risposta a tale quesito ha imposto alla Corte regolatrice una preliminare e attenta disamina dei delitti di estorsione, esercizio arbitrario delle ragioni e truffa, nonché del discrimen esistente tra le citate fattispecie penali incriminatrici che, come vedremo, presentano profili di indubbia affinità, soprattutto per quanto attiene l'elemento materiale.

Ciò posto passiamo ad analizzare gli elementi costitutivi dei reati in questione, nonché i rapporti tra gli stessi, anche attraverso l'ausilio degli orientamenti giurisprudenziali in subiecta materiae.

Le soluzioni giuridiche

Il reato di estorsione è previsto e punito dall'art. 629 c.p. ed è inserito nel Titolo XIII, Capo I, Libro II c.p., dedicato ai Reati contro il patrimonio commessi mediante violenza alle cose o alle persone.

La norma in commento punisce Chiunque mediante violenza o minaccia, costringe taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procurando a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno.

Si tratta di una fattispecie penale plurioffensiva che, pur essendo collocata nel codice penale tra i delitti contro il patrimonio, persegue sia l'interesse alla inviolabilità del patrimonio, sia la libertà di autodeterminazione, in quanto l'evento finale proviene dalla stessa vittima ed è il risultato di una situazione di costrizione determinata dalla violenza o dalla minaccia del soggetto agente.

Si ritiene, tuttavia, che il danno debba essere di natura patrimoniale, atteso che il danno non patrimoniale non lede l'interesse che costituisce l'oggetto giuridico del reato.

Si tenga comunque conto del fatto che la Cassazione ha evidenziato come anche la rinuncia ad un diritto possa essere patrimonialmente dannosa purché importi obbligazioni patrimoniali dannose.

Per la comprensione del dictum dei giudici di legittimità esaminiamo ora l'elemento materiale dell'estorsione che, come è noto, richiede principalmente la violenza o la minaccia dell'agente.

Per quanto concerne la minaccia, si ritiene in giurisprudenza che la stessa possa essere attuata con le più disparate modalità, ovvero può essere diretta, indiretta, reale, figurata, scritta o anche orale.

Si ritiene, inoltre, che per la configurabilità del reato di estorsione non sia necessario che la minaccia avvenga necessariamente mediante la prospettazione di un male tale da non lasciare al soggetto passivo alcuna libertà di scelta.

Ciò che rileva è il timore che la vittima della minaccia possa subire un pregiudizio ove non acconsenta alla richiesta dell'egente.

Infatti, nel reato di estorsione il potere di autodeterminazione della vittima non è del tutto annullato ma è limitato in maniera considerevole.

Il soggetto passivo è posto nell'alternativa di far conseguire all'agente il vantaggio ingiusto perseguito o di subire un pregiudizio conseguente all'azione di quest'ultimo.

Il reato di estorsione sussiste peraltro anche nelle ipotesi in cui la minaccia non sortisca alcun effetto in concreto, dovendo la stessa essere valutata in astratto, cioè come idonea a far sorgere nella vittima il timore di un pregiudizio concreto e, quindi, a coartare la sua libertà contrattuale e di autodeterminazione.

Tali considerazioni consentono di tracciare una prima distinzione tra il reato di estorsione (art. 629 c.p.) e quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (art. 393 c.p.) che, a differenza del primo, è inserito nei delitti contro l'amministrazione della giustizia (Libro II, Titolo III, Capo III), tutelando, la norma penale, la funzione giurisdizionale intesa quale interesse dello Stato ad impedire che i privati si sostituiscano alla Giustizia al fine di dirimere controversie.

Una condotta violenta o minatoria esplicata su persone al fine di concretizzare una determinata pretesa impone all'interprete importanti e impegnative riflessioni in merito alla fattispecie penale incriminatrice realmente integrata.

Sul punto un grosso aiuto sovviene dalla giurisprudenza di legittimità che in diverse occasioni ha individuato il discrimen tra le due menzionate fattispecie principalmente nell'elemento intenzionale.

Si ritiene in giurisprudenza che ciò che essenzialmente differenzia il delitto di estorsione dalla fattispecie di esercizio arbitrario delle proprie ragioni sia, a parità di comportamento materiale, l'elemento soggettivo che caratterizza l'azione.

Mentre, infatti, l'esercizio illecito ed arbitrario di proprie ragioni presuppone che l'agente versi nella ragionevole convinzione della legittimità della propria pretesa, la quale avrebbe potuto ottenere un riconoscimento ad opera del giudice, l'estorsione si qualifica per la volontà protesa a conseguire un profitto conosciuto come ingiusto, rispetto al quale non sussiste diritto alcuno (cfr. Cass. pen., Sez. II, 4 febbraio 2010, n. 4828).

In altre parole nell'estorsione l'agente mira a conseguire un profitto ingiusto con la coscienza che quanto pretende non gli è dovuto; nell'esercizio arbitrario delle proprie ragioni l'agente agisce al fine di esercitare un suo preteso diritto con la convinzione che quanto vuole gli compete (cfr. Cass. pen., Sez II, 1 ottobre 2004, n. 47972).

Ed è proprio l'esistenza di un diritto tutelabile legalmente che impone una scrupolosa disamina dell'elemento soggettivo, finalizzata a verificare la direzione della volontà dell'agente.

Infatti, come egregiamente evidenziato dalla Cassazione nella pronuncia in commento, chi intende farsi ragione da sé, anche con modalità violente, vuole recuperare il credito in via stragiudiziale attraverso una azione di persuasione che non va assolutamente confusa con il costringimento della volontà della vittima che caratterizza, invece, il reato di estorsione nel quale, come innanzi evidenziato, la persona offesa diviene una esecutrice forzata delle pretese estorsive dell'agente.

Ulteriori profili differenziali tra le due richiamate fattispecie penali emergono ogni volta che il titolare del credito faccia ricorso ad un esattore estraneo al rapporto contrattuale, fatto già di per sé ostativo all'inquadramento della condotta nella fattispecie prevista dall'art. 393 c.p.

Si legge, infatti, nella pronuncia in commento che se l'agente al fine di perseguire il soddisfacimento della legittima pretesa creditoria minaccia il creditore renitente, commette esercizio arbitrario delle proprie ragioni; commette, invece il reato di estorsione se, pur nella titolarità di un diritto legittimamente azionabile, persegue uno scopo diverso e snaturato rispetto a quello ordinario.

Come evidenzia la Corte regolatrice, lo scopo del creditore si trasforma e snatura quando questi, non solo non agisce personalmente, ma incarica altri e non un mero mandatario ma una organizzazione (o un singolo) criminale, il cui nucleo essenziale di operatività è nella azione intimidatoria e non nelle competenze recuperatorie: in tale situazione lo scopo si snatura in quanto il creditore sceglie di sfruttare (e così di vitalizzare) una organizzazione (o soggetto) criminale; ed in ultima analisi egli persegue un fine misto di soddisfacimento del proprio credito e di vitalizzazione della organizzazione criminale.

In questi casi, prosegue la Cassazione, la "commissione" di pertinenza dell'estorsore professionale perde il requisito della mera accessorietà rispetto all'incasso (che rende per altro

verso penalmente neutro il pagamento della commissione al mero mandatario all'incasso) ed assume una connotazione di autonomo compenso per la azione delinquenziale della minaccia, in tal modo determinando anche un ulteriore profilo di snaturamento della fattispecie dell'articolo 393 c.p., atteso che il soggetto che agisce la minaccia non persegue più –indirettamente – il mero fine recuperatorio del mandante, ma un autonomo fine di lucro personale e che trova la propria causa diretta ed esclusiva nella criminale azione minatoria (cfr. Cass. pen. n. 46628/2015).

Tali condivisibili considerazioni sono state riaffermate dalla Corte nella pronuncia in commento nella quale si evidenzia, appunto, l'importanza che deve attribuirsi, nell'inquadramento della condotta in una delle due fattispecie penali incriminatrici, all'interesse perseguito dal terzo che agisce per il recupero di un credito legittimamente azionabile.

Se il terzo agisce per soddisfare un interesse personale, diverso ed ulteriore rispetto all'interesse del titolare del diritto, individuabile anche solo nell'accrescimento del prestigio personale, non vi è dubbio in ordine alla natura estorsiva delle condotte del terzo esecutore e del creditore mandante, dal momento che la violenza esercitata risulta diretta all'ottenimento di vantaggi non coincidenti con la soddisfazione extraguidiziale del credito.

Si aggiunga, inoltre, che il semplice intervento del terzo esecutore, estraneo al rapporto contrattuale, già di per sé varrebbe ad escludere l'inquadramento più favorevole.

La Cassazione esclude, inoltre, che la condotta contestata possa inquadrarsi nel reato di truffa, dal momento che la volontà della vittima risulta coartata dal male prospettato dalla minaccia.

Ricorre, invece, il reato di truffa solo nella ipotesi in cui, peraltro esclusa nella vicenda in esame, la minaccia non abbia capacità coercitiva e si limiti ad influire sul processo di formazione della volontà deviandolo attraverso la induzione in errore (cfr. Cass. pen. n. 46084/2015).

Osservazioni

La Corte di cassazione con la pronuncia in commento, apprezzabile e degna di nota, ha affrontato, con dovizia di argomentazioni, il delicato problema del rapporto tra i reati di estorsione e di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, due fattispecie penale incriminatrici che presentano indubbi profili di affinità, tali da rendere non sempre agevole la individuazione della norma applicabile.

Per tali ragioni appare del tutto evidente come le conclusioni raggiunte dal supremo Collegio con il pronunciamento in esame, rappresentino una sicura guida interpretativa fra gli addetti ai lavori nella risoluzione di questioni analoghe.

La Corte, infatti, ha elaborato una sentenza che merita apprezzamento giacché fornisce all'interprete una vera e propria diagnosi differenziale tra il reato di estorsione e di esercizio arbitrario delle ragioni, non mancando di rilevare le sostanziali differenze tra il primo e il reato di truffa.

Confermando la qualificazione giuridica che alla vicenda processuale è stata offerta dai giudici di merito, la Cassazione evidenzia come non sia possibile inquadrare la condotta nella fattispecie più favorevole, prevista dall'art. 393 c.p., stante l'inserimento di un terzo estraneo nella vicenda contrattuale col compito di riscuotere il credito mediante la prospettazione di mali e pericoli ingiusti; minacce effettivamente rivolte alla vittima, con una efficacia intimidatoria tale da indurla a porsi sotto la protezione delle forze dell'ordine.

Circostanza, quest'ultima, che è risultata sufficiente ad escludere, altresì, l'inquadramento della vicenda processuale nel reato di truffa da parte dei giudici di merito i quali hanno escluso che la violenza oggettiva della minaccia e la sua soggettiva incidenza sulla vittima si sia limitata ad incidere sul processo di formazione della volontà deviandolo attraverso la induzione in errore.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.