L’amministrazione penitenziaria non può ricorrere in proprio avverso il provvedimento del magistrato di sorveglianza ex art. 35-ter ord. pen.

Leonardo Degl'Innocenti
05 Maggio 2017

L'atto di impugnazione di cui all'art. 35-bis, comma 4, ord. pen. avverso la decisione adottata dal magistrato di sorveglianza ai sensi dell'art. 35-ter ord. pen. va proposto, ove sia rivolto alla tutela dell'interesse dell'amministrazione penitenziaria, con l'osservanza delle norme processuali di cui agli artt. 100 e 573 c.p.p.
Massima

L'atto di impugnazione di cui all'art. 35-bis, comma 4, ord. pen. avverso la decisione adottata dal magistrato di sorveglianza ai sensi dell'art. 35-ter ord. pen. va proposto, ove sia rivolto alla tutela dell'interesse dell'amministrazione penitenziaria, con l'osservanza delle norme processuali di cui agli artt. 100 e 573 c.p.p.

L'atto di impugnazione di cui all'art. 35-bis, comma 4, ord. pen. redatto personalmente da un funzionario dell'amministrazione penitenziaria è inammissibile ai sensi dell'art. 591, comma 1, lett. a) c.p.p. dovendo trovare applicazione la norma di cui all'art. 1 del r.d. 30 ottobre 1933, n. 1611 che attribuisce la rappresentanza, il patrocinio e l'assistenza in giudizio delle amministrazioni statali all'avvocatura dello Stato.

Il caso

Il condannato ha presentato reclamo innanzi al magistrato di sorveglianza di Siena ai sensi dell'art. 35-ter ord. pen. (norma introdotta dall'art. 1 comma 1 del d.l. 26 giugno 2014, n.92, convertito con modificazioni nella l. 11 agosto 2014, n. 117) deducendo di essere stato ristretto in condizioni di detenzione tali da violare il disposto dell'art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali che stabilisce il divieto di trattamenti disumani e degradanti.

Con ordinanza 30 giugno 2015 il magistrato di sorveglianza di Siena ha parzialmente accolto il predetto reclamo ed ha attribuito al detenuto la riduzione della pena detentiva in corso di esecuzione in misura pari a giorni 180 oltre ad un'indennità monetaria di euro 56,00.

Avverso tale decisione l'amministrazione penitenziaria ha proposto reclamo al tribunale di sorveglianza di Firenze, ai sensi dell'art. 35-bis, comma4, ord.pen. (norma introdotta dall'art. 3, comma 1, lettera b), d.l. 23 dicembre 2013, n. 146, convertito con modificazioni nella l. 21 febbraio 2014, n. 10), senza ricorrere al patrocinio dell'avvocatura dello Stato.

Il menzionato tribunale di sorveglianza ha respinto il reclamo con ordinanza emessa in data 24 settembre 2015.

Nei riguardi della ordinanza da ultimo menzionata il ministero della giustizia ha proposto ricorso per cassazione a mezzo dell'avvocatura dello Stato, deducendo erronea applicazione della disciplina regolatrice e violazione delle disposizioni normative in tema di prescrizione.

La questione

Con la sentenza in commento la Corte di cassazione ha, oltre a confermare alcune importanti indicazioni per la definizione dell'ambito di applicazione del c.d. rimedio risarcitorio disciplinato dall'art. 35-terord. pen., affrontato la questione, preliminare all'esame della doglianza proposta in merito alla rilevanza della prescrizione (doglianza che viene confermato essere infondata in virtù di quanto affermato, in via generale, dalla stessa Corte di legittimità - cfr. Cass.pen., Sez. I, 19 ottobre 2016, n. 831, Carrioca e Cass. pen., Sez. I, 19 ottobre 2061, n. 834, Gambardella), se nel particolare procedimento introdotto dal Legislatore al menzionato art. 35-ter ord. pen. l'amministrazione penitenziaria – che, data la particolare tipologia di procedimento e la testuale formulazione del disposto di cui al primo comma dell'articolo 35-bisord. pen. da ritenersi applicabile anche alla domanda “risarcitoria” ex art. 35-ter ord. pen., in primo grado innanzi al magistrato di sorveglianza può essere rappresentata da suoi funzionari – possa esercitare autonomamente la facoltà di impugnazione avverso il provvedimento adottato dal magistrato di sorveglianza o debba, invece, esercitare detta facoltà attraverso il patrocinio e l'assistenza della avvocatura dello Stato ai sensi dell'art. 1 del r.d. 30 ottobre 1933, n. 1611.

In proposito, deve essere ricordato come l'avvocatura generale dello Stato abbia affermato con le circolari del 7 giugno 2014 e del 22 dicembre 2014 che il reclamo al tribunale di sorveglianza può essere proposto direttamente e “personalmente” dall'amministrazione soccombente (anche parzialmente) nel procedimento di primo grado.

Ha sostenuto, al riguardo, l'avvocatura generale dello Stato che, in mancanza di una disciplina prevista specificamente per tale mezzo di impugnazione, deve ritenersi applicabile l'art. 680 c.p.p. in quanto « il complesso normativo di cui agli artt. 35-bis e 35-terord. pen., rinvia a sua volta, quanto al procedimento relativo al reclamo, alle disposizioni di cui agli artt. 666 e 678 c.p.p. e, quindi, relativamente al procedimento di appello, alla norma di cui all'art. 680 c.p.p. » (così letteralmente la citata circolare del 22 dicembre 2014).

Il primo comma dell'art. 680 c.p.p. prevede, invero, che avverso i provvedimenti emessi dal magistrato di sorveglianza in materia di misure di sicurezza possono proporre appello innanzi al tribunale di sorveglianza il pubblico ministero, l'interessato ed il difensore.

Il terzo comma della predetta disposizione prevede, inoltre, che nel caso di specie si osservano le disposizioni generali sulle impugnazioni e, in particolare, il disposto dell'art. 571 c.p.p. che consente all'imputato di proporre l'impugnazione personalmente senza avvalersi del ministero del difensore.

Osserva sul punto l'Avvocatura che « il termine interessato, impiegato dalla disposizione in esame, è di una genericità e latitudine tale da consentire di ricomprendere in esso non soltanto, secondo l'originaria, limitata accezione codicistica, colui al quale è stata applicata una misura di sicurezza […], ma anche, in via interpretazione evolutiva, ogni altro soggetto diverso dal pubblico ministero, che, come il detenuto reclamante ex artt. 35-bis e 35-ter ord. pen., o come l'amministrazione penitenziaria reclamata, sia parte necessaria del procedimento » (cfr., in termini, la circolare del 22 dicembre 2014 cit.).

Prima di esaminare la soluzione della evidenziata questione offerta dalla suprema Corte di cassazione appare opportuno ricordate come la tesi sostenuta dall'avvocatura generale dello Stato sia stata oggetto di critica in dottrina (cfr., al riguardo, DEGL'INNOCENTI - FALDI,51 ss.).

È stato, infatti, osservato che se il reclamo al tribunale di sorveglianza previsto dall'art. 35-bisord. pen. deve certamente essere considerato un mezzo di impugnazione riconducibile alla categoria dell'appello, appare, però, difficile assimilare, sia pure ai soli fini della legittimazione ad impugnare il provvedimento del magistrato di sorveglianza, l'amministrazione penitenziaria all'imputato al quale il citato art. 571 c.p.p. conferisce, appunto, la facoltà di impugnare direttamente la sentenza emessa nei suoi riguardi.

Né pare, poi, condivisibile, il modo in cui nella menzionata circolare viene inteso il rinvio all'art. 680 c.p.p. quale norma che “integra” gli artt. 666 e 678 c.p.p. relativamente al procedimento di appello.

Deve, invero, essere evidenziato come l'art 680 c.p.p., dopo avere qualificato come appello il mezzo di impugnazione esperibile avverso i provvedimenti emessi dal magistrato di sorveglianza in materia di misure di sicurezza, disponga che si osservano le disposizioni generali sulle impugnazioni, fermo restando che, proprio in forza di quanto prevede l'art. 678, comma 1, c.p.p., il tribunale di sorveglianza procede, nelle materie di sua competenza e quindi anche per le impugnazioni aventi ad oggetto le ordinanze monocratiche in tema di misure di sicurezza, a norma del più volte menzionato art. 666 c.p.p.

Ne discende, pertanto, che nella fattispecie trovano applicazione le norme che regolano il procedimento di esecuzione e di sorveglianza e non quelle che disciplinano il giudizio d'appello in sede di cognizione.

Da ultimo è stato evidenziato che, proprio tenuto conto della specificità della materia disciplinata dall'art. 680 c.p.p. (norma che disciplina, come più volte ricordato, l'impugnazione dei provvedimenti relativi alle misure di sicurezza), appare una “forzatura” ricomprendere nella nozione di interessato anche l'amministrazione soccombente all'esito del reclamo ex art. 35-bisord. pen.

Le soluzioni giuridiche

Osserva, innanzitutto, la Corte di legittimità come « nell'ambito di un complessivo rafforzamento della effettività degli strumenti interni di tutela dei diritti soggettivi delle persone sottoposte a restrizione di libertà (imposto dalla nota decisione del 8 gennaio 2013 emessa dalla Cedu nel procedimento Torreggiani ed altri) » sia stato devoluto al magistrato di sorveglianza il compito di accertare, ove il reclamante sia ancora detenuto al momento della proposizione della domanda, l'eventuale compressione di un diritto fondamentale della persona durante il tempo di tale restrizione al duplice fine di assicurare, giusto il disposto dell'art. 35-bisord. pen., la rimozione della condotta lesiva se sussistente ed attuale e/o di concedere un adeguato ristoro per il periodo pregresso ai sensi dell'art. 35-terord. pen., norma che prevede un'inedita forma di ripristino, almeno parziale, della condizione antecedente alla restrizione mediante la riduzione della durata della pena detentiva in corso di esecuzione o, in alternativa, attraverso una misura indennitaria rappresentata dalla attribuzione di una somma di denaro predeterminata.

Il predetto strumento di tutela, prosegue la Corte di cassazione, ha una natura sui generis in quanto essenzialmentefinalizzato a sanzionare condotte concretediinosservanza dei contenuti minimi di legalità costituzionale e convenzionale verificatesi durante l'esecuzione della pena detentiva e presuppone, di conseguenza, la necessaria attivazione di un contraddittorio tra l'interessato e l'amministrazione penitenziaria soggetto istituzionale il quale, oltre ad essere il destinatario diretto ed immediato dei provvedimenti adottati dal magistrato di sorveglianza ai sensi dell'art. 35-terord. pen., ha il compito di realizzare le finalità costituzionali del trattamento penitenziario ed è, grazie alle proprie articolazioni territoriali, « in grado di fornire - nello spirito di leale collaborazione con l'autorità giudiziaria cui è informato il sistema - tutte le informazioni utili alla delibazione dei contenuti della domanda introdotta dal reclamante ».

Ad avviso del giudice di legittimità la natura “contenziosa” del procedimento non deve, però ed ancorché obiettivamente riconoscibile come affermato nei precedenti arresti della stessa Corte di cassazione richiamati dalla pronuncia in esame, essere enfatizzata in quanto l'analisi delle finalità del c.d. rimedio risarcitorio, previsto dall'art. 35-ter ord. pen., consente – come del resto già ritenuto dalla Corte di cassazione con altre precedenti pronunce parimenti ricordate nella decisione qui commentata – di escludere che lo stesso possa essere considerato un tipico rimedio risarcitorio inquadrabile secondo le ordinarie categorie civilistiche del risarcimento del danno per responsabilità aquiliana.

Afferma al riguardo la Corte che non può essere attribuita valenza decisiva:

- alla circostanza che il Legislatore affermi letteralmente che tanto il rimedio previsto dal primo comma dell'art. 35-terord. pen. (riduzione della pena detentiva in corso di esecuzione) quanto il rimedio contemplato al secondo comma di tale norma (attribuzione di 8,00 euro per ciascuna giornata di pregiudizio subita) sia corrisposto a titolo di risarcimento del danno (al pari, del resto, del terzo comma della più volte citata norma che, per le ipotesi di competenza del Tribunale civile, afferma espressamente come il risarcimento del danno sia liquidato nella misura prevista al comma 2);

- al fatto che la risarcibilità del danno morale subito in conseguenza della violazione di diritti costituzionalmente garantiti è stata generalmente riconosciuta quantomeno a partire dall'anno 2003 (cfr., tra le altre e come ricordato nella pronuncia in commento, Cass.civ.,Sez.III, 31 maggio 2003, n. 8827; Corte costituzionale 11 luglio 2003, n. 233) e che la stessa Corte di cassazione ha affermato, con riferimento al periodo anteriore all'entrata in vigore dell'art. 35-ter ord. pen., la competenza del giudice civile a pronunciarsi in merito alla domanda di risarcimento del danno avanzata dai detenuti i quali si erano lamentati della violazione di diritti soggettivi da parte dell'Amministrazione penitenziaria ai sensidegli artt. 2043 e 2059 c.c. (cfr., oltre alla decisione citata nella pronuncia in esame, anche Cass. civ.,Sez.I, 15 novembre 2013, n. 3803, Musardo e Cass. civ., Sez. I, 27 settembre 2013, n. 42901, Greco).

A sostegno della diversa soluzione interpretativa raggiunta militano, a giudizio della Corte di cassazione, le argomentazioni di seguito riportate:

a) « l'avvenuta introduzione di uno strumento riparatorio del tutto nuovo, rappresentato … da una riduzione di pena (in misura proporzionale alla durata del pregiudizio sofferto), fatto che incide sul limite di durata del trattamento sanzionatorio pubblicistico prescindendo dalla 'meritevolezza' del destinatario, sì da porsi come inedita forma di restitutio in integrum »;

b) la previsione, in via alternativa (ma talvolta concorrente), di una indennità economica in misura fissa e, come tale, avente marcata natura indennitaria piuttosto che risarcitoria in senso stretto posto che la predeterminazione legale contrasta con il dovere, più volte ribadito dalla giurisprudenza civile, di personalizzazione del danno subito;

c) l'assenza di qualsiasi riferimento alla necessità di un preventivo accertamento della colpa dell'amministrazione, essendo l'effetto riparatorio connesso al mero accertamento della avvenuta sottoposizione del reclamante a condizioni detentive tali da violare il disposto dell'articolo 3 della Convenzioneeuropea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali.

Le argomentazioni che precedono consentono, pertanto, di affermare che con la norma de qua il Legislatore ha voluto introdurre « uno strumento di riparazione della violazione francamente atipico, con carattere prevalentemente indennitario e di matrice solidaristica » circostanza che « impone di sganciarsi dalle tradizionali categorie dogmatiche di inquadramento civilistico del rimedio, ferma restando la necessità di rispettare, sul piano procedimentale, le regole tipiche che regolamentano l'agire dei diversi soggetti coinvolti nel particolare ‘giudizio' e quelle relative alla collocazione topografica dell'istituto».

Ciò chiarito, ha aggiunto la Corte di legittimità che, rinviando (sia pure con l'introduzione di varianti specializzanti come di seguito sinteticamente esposto) l'art. 35-terord. pen. alle generali previsioni di cui agli artt. 666 e 678 c.p.p., lo strumento in esameè evidentemente collocato « in un contesto procedimentale attratto nelle regole funzionali del codice di rito penale » con conseguente applicabilità, in via generale ed ove non espressamente derogato, delle norme del codice di rito penale e, in particolare, delle disposizioni dettate in tema di costituzione dei soggetti diversi dall'imputato (art. 100 c.p.p., norma finalizzata, secondo quanto più volte affermato dalla stessa Corte di Cassazione, a regolamentare le forme di partecipazione ai procedimenti penali o parapenali di tutti i soggetti portatori di interessi civilistici) e di proposizione delle impugnazioni da parte di essi (art. 573 c.p.p.).

Da quanto esposto consegue che l'amministrazione penitenziaria:

a) assume, nel procedimento in esame, la qualità diparte resistente« con natura strutturale pubblica ma con contenuti sostanziali dell'interesse in senso ampio-civilistici, essendo l'intervento teso alla rappresentazione della correttezza delle scelte e determinazioni dei propri organi, centrali o periferici e alla rappresentazione di fatti idonei a scongiurare la fondatezza della domanda proposta dal reclamante, anche a fini di tutela della propria immagine esterna »;

b) la stessa deve costituirsi in giudizio ed esercitare le facoltà procedurali, giusto il disposto del ricordato art. 100 c.p.p. ove non espressamente derogato, a mezzo di difensore che, in considerazione dalle natura pubblica dell'organo è costituito dall'avvocatura generale dello Stato avente, ai sensi del citato r.d. 1611 del 1933, ius postulandi ex lege

In proposito occorre, quindi, osservare che può, appunto, essere considerata norma derogatoria, con effetto “deformalizzante” delle modalità di realizzazione del contraddittorio, quella prevista al primo comma dell'art. 35-bis ord. pen. a tenore della quale l'amministrazione interessata ha diritto a comparire (senza alcuna altra specificazione) innanzi al magistrato di sorveglianza o, in alternativa, a trasmettere ad esso osservazioni e richieste all'evidente fine di realizzare, in primo grado, una modalità di contraddittorio informale anche grazie alla presenza in giudizio di funzionari aventi potere di rappresentanza dell'Amministrazione, facoltà prevista, anche in sede civile e previa intesa con l'avvocatura, dall'art. 3 del citato r.d. 1933/1611.

La descritta deroga alla normativa generale « si riflette anche sulle modalità di convocazione in udienza dell'Amministrazione, non risultando applicabile la speciale previsione di cui all'art. 11 del r.d. n. 1611 del 1933 ed apparendo, pertanto, possibile la notifica dell'avviso ai soggetti cui la legge e le direttive interne del Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria attribuiscono il potere di rappresentanza in tale specifica procedura (in tal senso, la nota interna DAP del 8.3.2014 contiene utili riferimenti, attribuendo al Direttore dell'Istituto poteri di cura del contenzioso in primo grado) ».

Nessuna altra disposizione derogatoria è, però contenuta nell'art. 35-bisord. pen. (norma che pure prevede, al comma 4, la possibilità per i soggetti parte del procedimento, di promuovere una impugnazione di merito innanzi al Tribunale di sorveglianza) con conseguente applicabilità della disciplina generale dettata dai più volte citati artt. 100 (obbligo della costituzione mediante difensore) e 573 (applicazione, nelle impugnazioni per i soli interessi civili, delle regole di proposizione tipiche del processo penale) del codice di rito, disciplina che comporta la necessità, a pena di inammissibilità del reclamo, di redazione dell'atto di impugnazione da parte dell'avvocatura dello Stato.

A conclusione del proprio percorso argomentativo la Corte di Cassazione, evidenziato come il potere di reclamo avverso la decisione del magistrato di sorveglianza non sia soltanto introduttivo di un ulteriore grado di giudizio ma richieda « anche in via logica, specifiche competenze tecniche di carattere processuale », esclude che nel procedimento in esame possa, come invece sostenuto dall'avvocatura generale dello Stato, trovare applicazione in favore dell'amministrazione penitenziaria il disposto dell'art. 571 c.p.p. che regolamenta, secondo quanto già ricordato, la facoltà di impugnazione personale da parte dell'imputato e dei soggetti a tale fine equiparati allo stesso.

Osserva, al riguardo, il giudice di legittimità che la facoltà di impugnazione personale è direttamente connessa alla componente di autodifesa della persona accusata o condannata e non si estende a soggetti processuali diversi dal giudicabile o dal condannato, condannato che nel procedimento in oggetto è legittimato ad impugnare personalmente ex art. 571 c.p.p. il provvedimento del magistrato di sorveglianza in forza del rinvio operato dal comma 6 dell'art. 666 c.p.p. alla disciplina generale delle impugnazioni

I soggetti “diversi” dall'imputato o dal condannato non possono, di contro, giovarsi di tale particolare facoltà applicandosi ai medesimi il disposto dell'art. 573 c.p.p. che impone l'osservanza delle specifiche formalità di costituzione e di introduzione dell'ulteriore grado di giudizio (cfr. Cass. pen., Sez. unite, 21 giugno 2000,n. 19, Adragna e Cass. pen., Sez. VI, 13 marzo 2008, n. 16974, nonché, in tema di ordinamento penitenziario sulla previgente disciplina del reclamo ex art. 14-terord. pen., Cass. pen., Sez. I, 22 febbraio 2006, n. 12349 e Cass. pen., Sez. I, 15 maggio 2012, n. 23774) senza che ciò comporti un'irragionevole disparità di trattamento in considerazione della diversa condizione di fatto e di diritto in cui si trovano l'imputato od il condannato rispetto all'amministrazione penitenziaria nonché della circostanza che il procedimento ex art. 35-terord. pen. è finalizzato all'accertamento di condizioni di detenzione eventualmente disumane e degradante a prescindere dalla sussistenza di un profilo di colpa della predetta Amministrazione.

L'impugnazione del provvedimento adottato dal Magistrato di sorveglianza ai sensi dell'art. 35-terord. pen. deve, pertanto, essere proposta., ove effettuata nell'interesse dell'Amministrazione penitenziaria, con l'osservanza delle descritte norme processuali con conseguente applicazione delle disposizioni dettate dal r.d. 1933/1611 con attribuzione di competenza « in ragione della localizzazione dell'organo giurisdizionale […] in favore della Avvocatura Distrettuale dello Stato ».

Affermato il principio di diritto esposto la Corte di legittimità ha conseguentemente dichiarato l'inammissibilità del reclamo proposto, nel caso di specie, al Tribunale di sorveglianza di Firenze con atto redatto dal direttore dell'Istituto penitenziario ove l'interessato era stato ristretto al momento dell'impugnazione con conseguente rigetto del ricorso per cassazione fondato sul presupposto della validità della prima impugnazione di merito, di cui ha riprodotto i temi di fondo.

In relazione a quanto previsto dall'art. 616 c.p.p. il rigetto del ricorso ha, infine, comportato la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Osservazioni

Per completezza, deve essere ricordato che il provvedimento emesso dal magistrato di sorveglianza è impugnabile con reclamo al tribunale di sorveglianza nel termine di quindici giorni dalla notificazione o comunicazione dell'avviso di deposito della decisione stessa (art 35-bis, comma 4, ord. pen.).

La legittimazione ad impugnare spetta al pubblico ministero, al detenuto o al suo difensore ed alla Amministrazione penitenziaria a mezzo, appunto, dell'avvocatura dello Stato.

Per quanto riguarda la posizione del condannato va rilevato che, secondo quanto già osservato, il medesimo è legittimato a proporre, ai sensi dell'art. 571, comma 1, c.p.p. norma appunto applicabile in forza del rinvio operato dal comma 6 dell'art. 666 c.p.p., l'impugnazione personalmente ferma restando la facoltà di proporre l'impugnazione a mezzo di un difensore di fiducia.

Con riferimento alla posizione del difensore va, inoltre, rammentato che il reclamo può essere proposto sia da colui che riveste tale ruolo al momento del deposito del provvedimento sia da colui il quale sia stato espressamente nominato al fine di presentare l'impugnazione.

Detta nomina può essere effettuata anche successivamente al deposito del provvedimento impugnato senza che ciò possa, per evidenti ragioni, incidere sulla decorrenza del termine previsto per proporre il reclamo.

Ancora, deve essere ricordato che secondo la regola generale dettata dall'art. 666, comma 7, c.p.p. la proposizione del reclamo al Collegio non sospende l'esecuzione dell'ordinanza appellata salvo che il magistrato di sorveglianza che ha emesso il provvedimento disponga diversamente.

Il reclamo al collegio costituisce, come più volte evidenziato, un mezzo di impugnazione assimilabile all'appello in quanto diretto ad ottenere un riesame nel merito della decisione impugnata.

Ne consegue, pertanto, che al reclamo previsto dall'art, 35-bis ord. pen. si applicano, al pari dei reclami esperibili avverso i provvedimenti adottati dal magistrato di sorveglianza in tema di permessi di necessità o premio ex artt. 30 e ss. ord. pen. od in materia di liberazione anticipata ai sensi dell'art. 54 ord. pen., in quanto compatibili, le norme dettate dal codice di rito in materia di impugnazione.

Il reclamo deve, pertanto ed ai sensi del combinato disposto degli artt. 591 comma 1 lett. c) e 581, comma 1 lett. c) c.p.p. essere corredato, a pena di inammissibilità dalla indicazione dei motivi « con l'indicazione delle ragioni di fatto e gli elementi di diritto che sostengono ogni richiesta ».

La predetta causa di inammissibilità deve essere dichiarata con ordinanza del Collegio e non può essere dichiarata con decreto del Presidente del Tribunale di sorveglianza ai sensi dell'art. 666 c.p.p. posto che detta norma non « … può ritenersi esportabile nel giudizio di impugnazione, al cui genus è pacificamente ricondotto il gravame costituito dal reclamo al Tribunale di sorveglianza. Nel giudizio indicato l'inammissibilità, per le tassative ragioni di cui all'art. 591 cod. proc. pen., comma 1, è dichiarata con ordinanza dal ‘giudice dell'impugnazione'. Là dove si tratti di organo collegiale, dunque, la competenza funzionale appartiene al Giudice che decide sull'impugnazione e, pertanto, al Collegio »(così, con specifico riferimento al reclamo ex 35-bis, comma 4, ord. pen. e tra le altre, Cass. pen., Sez. I, 17 novembre 2016, n. 12340, la quale ricorda, inoltre, che la statuizione d'inammissibilità dell'istanza de plano è espressamente prevista dall'art. 666 c.p.p. per le sole ipotesi in cui la richiesta appare manifestamente infondata per difetto delle condizioni di legge oppure costituisce mera riproposizione di una istanza precedentemente rigettata, ma non è in astratto compatibile con questioni interpretative di diritto articolate ed oggettivamente complesse).

DEGL'INNOCENTI - FALDI Il rimedio risarcitorio ex art. 35-ter ord. pen. E la tutela dei diritti dei detenuti, Milano, 2017;

BORTOLATO, in DELLA CASA-GIOSTRA, Ordinamento penitenziario commentato, Padova, 2015, p. 394 e ss.;

FIORENTIN, Il reclamo giurisdizionale per la tutela dei diritti delle persone detenute o internate, in Rass. penit. crim., 2014, p. 235 e ss.