La tossicodipendenza quale criterio di valutazione dell'unicità del disegno criminoso: una questione ancora aperta
06 Maggio 2016
Massima
Perché possa configurarsi il vincolo della continuazione è necessaria la prova che i reati siano stati fin dall'origine concepiti e portati ad esecuzione nell'ambito di un programma criminoso unitario. Quest'ultimo non deve essere perciò confuso con una concezione di vita genericamente improntata al crimine e dipendente dagli illeciti guadagni che da esso possono scaturire. Ne deriva che, in materia di stupefacenti, non rileva il generico fine di arricchirsi attraverso lo spaccio: in tal caso, infatti, la reiterazione delle condotte è espressione, più che di uno specifico disegno nel senso richiesto dall'articolo 81 cpv. c.p., di un programma di vita, il quale, lungi dall'essere valutato favorevolmente dall'ordinamento, viene al contrario penalizzato da istituti quali la recidiva, l'abitualità, la professionalità nel reato e la tendenza a delinquere, secondo un diverso ed opposto parametro rispetto a quello sotteso all'istituto della continuazione, ispirato al favor rei. Il caso
Sottoposto a processo per il reato di cui all'articolo 73, comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, con l'accusa di avere detenuto a fini di spaccio 11,65 grammi di eroina e 1,7 grammi di hashish, nonché di avere ceduto un grammo di eroina, l'imputato chiedeva al tribunale di Brescia il riconoscimento della continuazione tra i fatti da giudicare ed altri fatti di detenzione illecita di stupefacenti commessi circa un anno prima di quelli contestati e giudicati con precedente sentenza. Nel condannare l'imputato, il tribunale negava l'applicazione della disciplina di cui all'art. 81 cpv. c.p., escludendo che i comportamenti oggetto dei due diversi giudizi potessero essere inclusi in un medesimo disegno criminoso. Dello stesso avviso la Corte d'appello di Brescia, che nel confermare la sentenza di primo grado ribadiva la differenza tra programmazione unitaria di più condotte e condotta abituale, frutto di una scelta di vita criminale: essendo trascorso un periodo di tempo significativo tra i fatti, l'identità del disegno non poteva essere desunta dalla semplice analogia tra gli episodi contestati, occorrendo invece la prova che i reati fossero stati congegnati ed eseguiti nell'ambito di un progetto unitario, da non confondere con una concezione di vita improntata al crimine e ai profitti illeciti. Peraltro lo stesso appellante, nell'ammettere di trarre sostentamento principalmente dall'attività di spaccio, avrebbe connotato detenzioni e cessioni illecite, più che come preordinate nel senso precisato, come abituali, ossia come espressione di un vero e proprio metodo di vita. L'imputato propone ricorso per Cassazione, sia sotto il profilo della erronea applicazione della legge penale che sotto il profilo della mancanza di motivazione su un punto decisivo per il giudizio, osservando che il principio di diritto invocato dalla corte di merito, pur condivisibile in astratto, necessitava di ulteriore approfondimento e specificazione con riferimento alla consumazione di più reati in relazione allo stato di tossicodipendenza, specie dopo la riforma del 2006 e l'inserimento di tale condizione tra i criteri di accertamento della continuazione. Tale classificazione ed il favore normativo che la giustifica, secondo il ricorrente, non possono che implicare un'attenuazione dell'ordinario rigore nella verifica dell'unitarietà del disegno criminoso ed un rafforzamento degli oneri di motivazione a carico del giudice. La questione
Nel caso specifico non è controversa la distinzione concettuale, consolidata in giurisprudenza, tra specifico disegno criminoso e condotta di vita genericamente improntata al reato. La questione sottoposta alla Corte di legittimità attiene piuttosto alla rilevanza normativa e all'effettiva incidenza dello stato di tossicodipendenza del richiedente quale contesto unitario dei fatti da valutare. Si tratta, più specificamente, di decifrare la rilevanza sistematica dell'inciso – introdotto dall'art. 4-vicies del d.l. 30 dicembre 2005, n. 272, convertito, con modificazioni, nella l. 21 febbraio 2006, n. 49, nell'art. 671, comma 1, c.p.p. ma pacificamente riferibile anche alla fase cognitiva – secondo cui fra gli elementi che incidono sull'applicazione della disciplina del reato continuato vi è la consumazione di più reati in relazione allo stato di tossicodipendenza. Occorre cioè stabilire se il riferimento, invece che esplicitare un parametro già desumibile dal sistema, possieda un contenuto in qualche misura innovativo ed in particolare se tale novità implichi una qualche “sfumatura”, in positivo o in negativo, dei concetti antitetici di programmazione unitaria e di condotta di vita e un correlativo abbassamento dell'asticella normativa in funzione di un più benevolo trattamento sanzionatorio del tossicodipendente. Le soluzioni giuridiche
Nonostante il ricorso mettesse a fuoco correttamente i termini della questione, la Corte di cassazione lo ha dichiarato inammissibile per manifesta infondatezza. Le motivazioni della sentenza d'appello vengono considerate pienamente conformi agli orientamenti della giurisprudenza di legittimità sulla distinzione tra programma criminoso unitario e condotta di vita, condivisi e ribaditi dal collegio. In più, la Corte osserva, sul piano probatorio, che la tossicodipendenza viene affermata nel ricorso in maniera assertiva e completamente sganciata dai dati processuali, in contrasto con l'onere, gravante sull'interessato, di allegare gli specifici elementi dai quali possa desumersi l'identità del disegno criminoso. Osservazioni
È noto lo spirito con cui, nel 2006, la disciplina del reato continuato è stata arricchita con il riferimento alla consumazione di più reati in relazione allo stato di tossicodipendenza: rompere un fronte giurisprudenziale tradizionalmente ostile ad ammettere una qualunque forma di incidenza di tale condizione sull'accertamento dell'unicità del disegno criminoso (cfr., per tutte, Cass. pen., Sez. I, n. 6398/1998: secondo dati di scienza sociologica e criminologica, nel tossicomane è per lo più carente una previsione unica ed iniziale di future condotte, delineate almeno nei profili essenziali, potendosi ammettere, al massimo, la sussistenza di un'idea centrale diretta all'acquisizione della droga con qualunque mezzo, anche illegale; il che si identifica con una scelta di vita asociale che non ha niente a che vedere con il disegno richiesto dall'art. 81 cpv. c.p., il quale postula una deliberazione coeva alla prima azione criminosa di tutte quelle successive) e contribuire così a delineare, anche su questo terreno, un regime sanzionatorio tendenzialmente meno severo per le sequenze criminose realizzate in stretta connessione con la dipendenza da stupefacenti. È nota anche – nonostante le intenzioni dei riformatori, i quali auspicavano dichiaratamente una sorta di automatismo pro reo nell'applicazione del cumulo giuridico – l'esegesi più accreditata del nuovo inciso dell'art. 671 c.p.p.: imporre uno specifico onere di motivazione, per effetto del quale, ove la dipendenza emerga dagli atti ovvero venga allegata dall'interessato, il giudice non può trascurare l'esame di questo profilo di fatto allorché verifica la programmazione unitaria degli episodi criminosi, né può omettere, ove necessari, i relativi approfondimenti istruttori, anche ex officio (cfr., tra le altre, Cass. pen., Sez. I, n. 881/2016; Cass. pen., Sez. I, n. 18242/2014; Cass. pen., Sez. VI, n. 43441/2010; Cass. pen., Sez. V, n. 10797/2010). Una matrice, dunque, essenzialmente processuale: qualunque sia, ai fini della decisione in punto di pena, l'effettiva rilevanza della tossicomania, è invalida la motivazione che non ne misuri espressamente il peso sulle dinamiche psicologiche della determinazione criminosa. Al di là di questo ormai pacifico protocollo argomentativo – della cui reale necessità sistematica, naturalmente, è più che lecito dubitare – resta incerto, a più di un decennio dalla riforma, se la previsione assuma anche una qualche rilevanza sostanziale: se cioè significhi qualcosa, oltre che sul piano dell'eventuale vizio di motivazione, anche su quello della qualità e della specificità del disegno criminoso. La giurisprudenza sottolinea che in questi casi la tossicodipendenza è uno schema valutativo rilevante ma non esclusivo, nel senso che non esime dall'accertamento, secondo dinamiche tipicamente indiziarie, di tutti gli altri presupposti della continuazione (cfr. Cass. pen., Sez. I, n. 18242/2014; Cass. pen., Sez. I, n. 39287/2010). Tuttavia l'indicazione, convincente quando si tratta di scongiurare qualunque tentazione presuntiva, illumina forse una parte soltanto del problema. Ferma l'ovvia impossibilità di ricavare automaticamente dal mero dato patologico l'unitarietà del disegno criminoso, infatti, il punto è se, per i reati commessi dal tossicodipendente in relazione a tale stato (essenzialmente, tutti quelli animati dal movente di reperire per sé lo stupefacente o comunque le disponibilità economiche necessarie per acquistarlo), la pianificazione possa essere in qualche misura più vaga, nel senso di non implicare, per come la si intende normalmente in ossequio agli schemi tradizionali e all'idea di un unico “cedimento” ai motivi a delinquere, la preventiva rappresentazione dell'intera sequenza di condotte in vista di uno specifico obiettivo (in questo senso Cass. pen., Sez. V, n. 49476/2009). A venire in gioco, qui, sarebbe piuttosto una risoluzione iniziale la cui consistenza e precisione vengono, per così dire, “stemperate” dalla dipendenza e dai suoi effetti sulla sfera volitiva. In quest'ottica, per esempio, rileverebbe il classico caso – che l'opinione tradizionalmente prevalente tende ad escludere dall'ambito di applicazione dell'art. 81 cpv. c.p. – del reato originariamente non programmato ma la cui realizzazione, in un arco di tempo ragionevolmente circoscritto, trovi comunque origine nei medesimi impulsi e mostri significative omogeneità esecutive. Da questo particolare angolo visuale la casistica giurisprudenziale continua a non offrire spunti risolutivi, stretta come è tra una prassi tendenzialmente permissiva, dove la qualità media dell'accertamento difficilmente consente di apprezzare l'eventuale rilievo della questione e un quadro di princìpi in larga misura sclerotizzato in senso inverso, nel quale si tende a riproporre massime seriali spesso poco attinenti al caso trattato. Con il risultato, paradossale, che la larghezza pressoché automatica dell'applicazione giudiziaria appare inversamente proporzionale alla rigidità delle saltuarie indicazioni nomofilattiche e che in Cassazione di frequente si approva il diniego della continuazione in vicende nelle quali, se la questione non fosse controversa, l'esito opposto sarebbe tutt'altro che eccentrico. Passando al caso in commento, dal testo della sentenza non si ricava se, nel giudizio di merito, la tossicodipendenza fosse stata correttamente introdotta tra i temi della decisione sul trattamento sanzionatorio (qualche segnale contrario viene dal passaggio della motivazione in cui si rileva che lo stato di tossicodipendenza è affermato nel ricorso in maniera del tutto assertiva e completamente sganciata da qualsiasi riferimento a dati acquisiti al processo). Supponendo per comodità dialettica che tale onere sia stato tempestivamente adempiuto, il richiamo alla differenza tra programma criminoso e concezione di vita improntata al crimine e dipendente dagli illeciti guadagni che da esso possono scaturire (in senso analogo Cass. pen., Sez. V, n. 10917/2012; Cass. pen., Sez. I, n. 39287/2010; Cass. pen., Sez. I, n. 33518/2010) risulta, per le ragioni già anticipate, solo in parte soddisfacente. Si tratta infatti, come qualcuno segnala da tempo, di una classificazione sfuggente già nei casi ordinari, rispetto ai quali è sempre consigliabile evitare eccessive rigidità ed astrazioni nella ricostruzione degli impulsi psicologici: se così è, le perplessità non possono che aumentare quando assume esplicita rilevanza normativa una condizione patologica che, dal punto di vista degli stimoli a delinquere, rende assai complicato tracciare – su un terreno già di per sé impervio come quello – un confine netto tra programmazione e modus vivendi, tanto è vero che la giurisprudenza anteriore alla modifica dell'art. 671 c.p.p., proprio per effetto di un'assimilazione della tossicomania allo stile di vita, era univocamente orientata in senso negativo. Il dato certo, insomma, è che la norma – in dichiarata rottura con il passato, come si è visto – impone oggi la valutazione di questo stato, pur non determinante, nel giudizio sull'identità del disegno criminoso. Il che denota, incontestabilmente, che la condizione può avere, anche sul piano sostanziale, un significativo ed autonomo rilievo pro reo: occorrerebbe quindi interrogarsi (come pure avevano cominciato a fare, per la verità, alcune decisioni della Cassazione di poco successive alla riforma del 2006: Cass. pen., Sez. I, n. 7190/2007; Cass. pen., Sez. IV, n. 33011/2008) sulla sua effettiva consistenza, magari rivitalizzando, in chiave evolutiva rispetto all'anacronismo di categorie come la concezione di vita improntata al crimine, le autorevoli posizioni dottrinali che criticano una scissione troppo netta tra progettazione ed esecuzione, e riconoscono l'unicità del disegno, privilegiando la dimensione intellettiva e l'identità di contesto, anche in tutti i casi in cui muovendo da una situazione di fatto originaria [si sviluppi] un processo unitario di ideazione e di azione, dal momento che l'identità del disegno non dipende dalla priorità cronologica rispetto alle condotte, quanto dalla continuità del suo processo formativo (COPPI). Peraltro ragionare in questi termini implica, evidentemente, una verifica più rigorosa dell'omogeneità delle condotte come sintomo dell'unitarietà e della costanza dello stimolo ideativo: difficile, dunque, che ne derivi un allargamento indiscriminato dell'ambito applicativo della continuazione, della quale serve piuttosto una delimitazione più razionale e meno aleatoria. |