La "dimestichezza" con l'ambiente carcerario non incide sul calcolo dell'indennità per ingiusta detenzione

11 Novembre 2015

Nel liquidare l'indennità di riparazione per ingiusta detenzione, il giudice è vincolato esclusivamente al tetto massimo normativamente stabilito e non al parametro aritmetico, fondato su tale limite, individuato dalla giurisprudenza per determinare la somma dovuta per ogni giorno di detenzione sofferto.La pregressa esperienza carceraria non può costituire un valido elemento da cui desumere, automaticamente e necessariamente, una minore afflittività del periodo di detenzione.
Massima

Nel liquidare l'indennità di riparazione per ingiusta detenzione, il giudice è vincolato esclusivamente al tetto massimo normativamente stabilito e non al parametro aritmetico, fondato su tale limite, individuato dalla giurisprudenza per determinare la somma dovuta per ogni giorno di detenzione sofferto.

La pregressa esperienza carceraria non può costituire un valido elemento da cui desumere, automaticamente e necessariamente, una minore afflittività del periodo di detenzione.

Il caso

La Corte di appello di Brescia, con ordinanza riconosceva al ricorrente, un indennizzo, a titolo di equa riparazione per l'ingiusta detenzione subita dal 18 agosto 2011 al 10 febbraio 2012, pari ad euro 20.700.

Il ricorrente era stato assolto dal tribunale di Cremona, in relazione al reato di tentato furto in abitazione, aggravato dal numero delle persone e dall'uso di violenza sulle cose, non riuscendo a portare a compimento il reato per l'intervento e la reazione del proprietario dell'abitazione.

Contro il provvedimento veniva proposto ricorso per Cassazione deducendo l'inosservanza ed erronea applicazione della legge penale; erronea qualificazione del fatto e degli elementi a fondamento della richiesta di riparazione per ingiusta detenzione e della quantificazione dell'indennizzo concesso.

Segnatamente, il provvedimento impugnato avrebbe erroneamente ritenuto non fornita la prova sul tipo di attività svolta prima dell'incarcerazione, né sulla perdita di chance lavorative e nemmeno dell'avvenuto deterioramento dei legami affettivi familiari a causa della restrizione, che, nella maggior parte, sarebbe avvenuta in regime di arresti domiciliari.

Ritiene, invece, il ricorrente che la prova del danno da relazione con i propri familiari e del danno da mancato sfruttamento di chance lavorative debba essere ritenuta raggiunta tenendo conto degli elementi oggettivi insiti nella vicenda. Il danno da relazione dovrebbe ritenersi provato dal solo elemento della lunghezza del periodo di detenzione subita, che, accompagnato dalla gravità dei reati ingiustamente contestati, avrebbe incrinato i rapporti con la moglie.

Anche in relazione al danno per perdita di chance lavorative, il ricorrente sarebbe, infatti, stato impossibilitato a coltivare rapporti con soggetti con i quali avrebbe potuto concretizzare intenzioni lavorative. In particolare, l'impossibilità di reperire regolare attività lavorativa, si sarebbe protratta anche durante gli arresti domiciliari. Peraltro, il ricorrente che, negli anni 2008 e 2009 svolgeva la propria esistenza nella piena legalità, vedeva annullati tutti i propri sforzi di riabilitazione a causa della nuova e ingiusta carcerazione.

La Corte di appello ometteva di considerare tutti questi elementi fornendo una motivazione insufficiente e riconoscendo l'ingiustizia della detenzione e diminuiva, arbitrariamente, le pretese del ricorrente, in ragione del precedente periodo di carcerazione dal 10 ottobre 2007 al 13 marzo 2009 che avrebbe determinato un impatto meno negativo con l'ambiente carcerario. Il ricorrente sottolinea che la giurisprudenza ha affermato che l'importo da liquidarsi per la detenzione in carcere ammonterebbe ad euro 235,85 giornaliere, mentre quello per gli arresti domiciliari può essere dimezzato. L'eventuale discostamento da tali importi andrebbe motivato, mentre nel caso di specie l'unico elemento invocato dal giudicante, come mero riferimento, a sostegno della decisione sarebbe la precedente carcerazione subita, che nessuna influenza può avere avuto sulla carcerazione ingiustamente subita.

La questione

Due appaiono le questioni prospettate:

se può ritenersi valida ai fini della quantificazione dell'indennizzo una valutazione puramente aritmetica;

se l'indennizzo può essere ridotto per colui già abbia subito una precedente detenzione.

Le soluzioni giuridiche

In ordine alla prima questione v'è da osservare che l'adesione al solo criterio aritmetico dell'indennizzo servirebbe a sottrarre la determinazione all'imponderabile soggettivismo del giudice, conferendo in tal modo uniformità ed oggettività al difficile giudizio di fatto. Tuttavia, la legge è chiara nell'imporre una valutazione equitativa della liquidazione in ragione della natura indennitaria e non risarcitoria della riparazione.

Il giudice è, peraltro, tenuto a fornire una motivazione che, sia pure in maniera sintetica ma comunque esaustiva, dia conto del materiale probatorio utilizzato e delle valutazioni espresse. Così, quanto al primo quesito deve osservarsi che, fermo restando che la restrizione si è protratta per 173 giorni, l'indennità va commisurata alla sicura sofferenza morale che il ricorrente ha subito per tutto tale periodo e liquidata secondo criterio equitativo.

In tema di liquidazione del quantum relativo alla riparazione per ingiusta detenzione, la giurisprudenza è ormai consolidata nell'affermare la necessità di contemperare il parametro aritmetico – costituito dal rapporto tra il tetto massimo dell'indennizzo di cui all'art. 315, comma 2, c.p.p. (euro 516.456,90) e il termine massimo della custodia cautelare di cui all'art. 303, comma 4, lett. c) c.p.p., espresso in giorni (sei anni ovvero 2190 giorni), moltiplicato per il periodo anch'esso espresso in giorni, di ingiusta restrizione subita – con il potere di valutazione equitativa attribuito al giudice per la soluzione del caso concreto, che non può mai comportare lo sfondamento del tetto massimo normativamente stabilito (cfr. Cass. pen., Sez. un., 9 maggio 2001, n. 24287).

Ne discende che la determinazione della liquidazione dell'indennizzo è svincolata da parametri aritmetici o comunque da criteri rigidi e si deve basare su una valutazione equitativa che tenga globalmente conto non solo della durata della custodia cautelare ma anche, e non marginalmente, delle conseguenze personali e familiari scaturite dalla privazione della libertà (v., fra le altre, Cass. pen., Sez. IV, 6 ottobre 2009, n. 40906) e delle sofferenze morali patite e della lesione della reputazione conseguente allo strepitus fori (v., Cass. pen., Sez. IV, 24 ottobre 2013, n. 46772; Cass. pen., Sez. IV, 17 giugno 2011, n. 34857).

L'unico vincolo che il giudice incontra nel liquidare l'indennità è quello del tetto massimo normativamente stabilito, che non può essere superato, ea non anche quello del parametro aritmetico: quest'ultimo rappresenta solo una base di calcolo, che deve essere maggiorata o diminuita con riguardo alle contingenze proprie del caso concreto (Cass. pen., Sez. IV, 13 maggio 2008, n. 23319).

In altri termini, il giudice non va esente dal valutare le specificità, positive o negative, di ciascun caso e quindi dall'integrare opportunamente tale criterio, innalzando ovvero riducendo il risultato del calcolo aritmetico per rendere la decisione più equa possibile e rispondente alle diverse situazioni sottoposte al suo esame (Cass. pen., Sez. IV, 17 giugno 2011, n. 34857).

Nell'uno o nell'altro caso è necessario che il decidente fornisca congrua e logica motivazione della valutazione dei differenti parametri di riferimento. In giudice deve, infatti, sintetizzare i fattori di analisi presi in esame ed esprimere la valutazione fattane ai fini della decisione, non potendo il giudizio di equità risolversi nel merum arbitrium ma dovendo essere sorretto da una giustificazione adeguata e logicamente congrua, così assoggettandosi alla possibilità del controllo da parte dei destinatari e dei consociati.

Quanto, invece, all'incidenza derivante dal fatto di aver subito precedenti periodi di sottoposizione a regime carcerario, deve dirsi che due sono le soluzioni prospettabili.

Secondo la prima interpretazione essa giustificherebbe l'automatica riduzione dell'indennizzo per ingiusta detenzione (Cass. pen., Sez. V, 5 giugno 2014, n. 42888; Cass. pen., Sez. IV, 22 giugno 2010, n. 34673; Cass. pen., Sez. IV, 13 maggio 2008, n. 23124). Una tale impostazione appare, tuttavia, superata. La soluzione più opportuna e più recente è quella che ritiene illegittima una tale decisione (Cass. pen., Sez. IV, 9 ottobre 2014, n. 6742). La pregressa esperienza carceraria non può, dunque, rappresentare un valido elemento da cui desumere, automaticamente e necessariamente, una minore afflittività del periodo di detenzione. L'automatica e generalizzata riduzione della somma determinata secondo il cosiddetto criterio aritmetico per tutti i soggetti che abbiano subito precedenti condanne e detenzioni renderebbe la valutazione equitativa priva di una adeguata e logica motivazione, tenuto conto che la esistenza di precedente esperienza carceraria può avere, secondo i casi, sia un effetto di riduzione della sofferenza cagionata dalla carcerazione sia un effetto di massimizzazione di quella sofferenza: essa, in conclusione, può incidere sulla determinazione dell'ammontare dell'indennizzo ma non in termini presuntivi ed assiomatici (cfr. Cass. pen., Sez. 30 gennaio 2014, n. 18551).

Osservazioni

La posizione assunta dalla più recente giurisprudenza su entrambe le questioni é pienamente condivisibile.

Posta la natura della somma da liquidarsi in via equitativa, e il carattere indennitario, l'accesso al solo criterio automatico renderebbe il giudizio inadeguato o privo di logica motivazione ma soprattutto fonte di diseguaglianza tra cittadini, che potrebbe contrastare con fondamentali precetti costituzionali. Al giudice è chiesta una valutazione che, pur equitativa, non può mai essere arbitraria. La Corte d'appello deve offrire una adeguata motivazione che dia conto, alla luce del materiale probatorio acquisito, delle ragioni per le quali si è distaccato dai parametri standard, con l'unico limite che il frutto della sua determinazione non può condurre allo sfondamento del tetto, normativamente fissato, dell'entità massima della liquidazione.

Il materiale può essere rappresentato da documenti, afferenti alla personalità ed alla storia personale dell'imputato o riguardanti il suo ruolo professionale e sociale, le conseguenze pregiudizievoli concretamente subite e tutti gli altri atti o dati da cui sia riscontrabile la rilevanza e la connessione eziologia con l'ingiusta detenzione patita. I diversi fattori di danno derivanti dall'ingiusta detenzione comporteranno delle variazioni verso l'alto o verso il basso del parametro aritmetico, in ragione di specifiche contingenze proprie del caso concreto.

Ancora di recente si è precisato che non basta a giustificare l'allontanamento dai criteri liquidatori standard fissati in giurisprudenza la mera constatazione dell'esistenza di precedenti condanne, occorrendo uno specifico riferimento alle eventuali esperienze detentive subite dalla parte e alla loro idoneità a determinare una rilevante compromissione dell'immagine sociale e/o una certa assuefazione all'ambiente carcerario, tali da giustificare la presunzione di una minore afflittività della successiva detenzione.

In conclusione, la riparazione – che non è un risarcimento – importa che il danno va personalizzato e vincola la liquidazione alla sussistenza di una prova diretta del (effettivo) pregiudizio subito.

Guida all'approfondimento

G. Spangher, Misure cautelari, in Misure cautelari. Indagini preliminari. Giudizio, vol. III, a cura di A. Marandola, in Teoria e pratica del processo, diretto da G. Spangher - A. Marandola - G. Garuti - L. Kalb, Torino, 2015, 201.

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