Esercizio arbitrario delle proprie ragioni e estorsione. Il punto della Cassazione

12 Gennaio 2017

Il problema fondamentale posto dai ricorrenti, condannati dal tribunale con sentenza integralmente confermata dalla Corte d'appello per il delitto di estorsione consumata commessa in concorso, era quello se, nei fatti accertati dai giudici di merito, fosse ravvisabile il delitto di estorsione (art. 629 c.p.) ovvero quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone (art. 393 c.p.).
Massima

Il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone (art. 393 c.p.) è un reato proprio esclusivo (o di mano propria) e dunque può essere commesso soltanto da chi vanti una pretesa giudizialmente azionabile, pur se infondata, e sempre che l'agente non miri a conseguire vantaggi ulteriori; se la violenza o minaccia è posta in essere da un terzo non creditore potrà configurarsi esclusivamente il concorso nel reato proprio. Il delitto di estorsione può invece essere commesso da chiunque e si differenzia dall'esercizio arbitrario perché, nell'estorsione, l'agente persegue un profitto ingiusto nella piena consapevolezza della sua ingiustizia. Ai fini della configurabilità del delitto di estorsione è irrilevante la gravità della minaccia o della violenza che può costituire esclusivamente un indice sintomatico.

Il caso

Nella sentenza in esame la Corte di cassazione ha esaminato il caso di due persone che avevano, con violenza e minaccia, indotto una terza persona (debitore di uno dei due imputati) ad adempiere ad un debito contratto dalla persona offesa facendosi consegnare da quest'ultima la chiavi della sua autovettura e il medesimo veicolo a garanzia del successivo pagamento della somma dovuta e costringendo altresì il debitore a firmare un documento ricognitivo del debito.

La Corte ha ritenuto che la pretesa degli agenti non fosse giudizialmente tutelabile perché essi avevano preteso la sottoscrizione di un patto commissorio, vietato dall'art. 2744 c.c., e la consegna di un veicolo di valore molto superiore al credito vantato.

La questione

Il problema fondamentale posto dai ricorrenti – che erano stati condannati dal tribunale con sentenza integralmente confermata dalla Corte d'appello per il delitto di estorsione consumata commessa in concorso – era quello se, nei fatti accertati dai giudici di merito, fosse ravvisabile il delitto di estorsione (art. 629 c.p.) ovvero quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone (art. 393 c.p.).

Secondo i ricorrenti (che contestavano anche l'accertamento relativo allo svolgimento dei fatti; ma questi motivi sono stati dichiarati inammissibili) nei fatti accertati sarebbe stato, al più, ravvisabile l'ipotesi di reato prevista dall'art. 393 c.p. in quanto il debito della persona offesa – relativo alla consumazione di alcune bottiglie di champagne nell'esercizio di night club gestito da uno dei due imputati (l'altro era un suo dipendente) – era effettivamente esistente e la violenza e le minacce, anche ammessane l'esistenza, erano dirette ad ottenere il pagamento del dovuto.

Le soluzioni giuridiche

La Corte di cassazione – che ravvisa il bene protetto, come è indiscusso, nel monopolio esclusivo della giurisdizione da parte dello Stato – ha anzitutto ritenuto inammissibili i motivi riguardanti la ricostruzione dei fatti ritenendo che la sentenza impugnata li avesse motivatamente apprezzati, senza incorrere in alcun vizio logico; ha escluso che fosse ravvisabile il vizio di travisamento della prova e ha ritenuto inoltre aspecifici altri motivi perché riproducenti acriticamente i motivi di appello.

Per quanto riguarda invece il più complesso problema riguardante l'inquadramento giuridico della condotta accertata la Corte di cassazione ha ritenuto corretta la valutazione del giudice di merito che ha ritenuto che l'ipotesi andasse inquadrata nel fatto tipico dell'estorsione non dopo aver affermato che non è deducibile il vizio di motivazione in relazione alle questioni di diritto decise dal giudice di merito.

Quanto alla questione di diritto proposta con i ricorsi i giudici di legittimità hanno richiamato i precedenti della Cassazione sul tema proposto con i ricorsi (estorsione o esercizio arbitrario delle proprie ragioni ?) rilevando come, nella giurisprudenza di legittimità, si fosse data una risposta al quesito non sempre uniforme.

Infatti una parte dei precedenti di legittimità faceva esclusivo riferimento all'elemento psicologico del reato consistente nell'esistenza, nell'agente, della convinzione ragionevole, anche se infondata, di esercitare un diritto per soddisfare una pretesa giudizialmente sostenibile. Se questo convincimento esiste il reato configurabile è quello previsto dall'art. 393 c.p.; diversamente si è in presenza del delitto di estorsione.

Un diverso orientamento, riferisce la sentenza, valorizza invece la materialità del fatto ritenendo che la condotta violenta o minacciosa non sia fine a se stessa ma connessa alla volontà dell'agente di far valere il preteso diritto rispetto al cui conseguimento si pone come elemento accidentale; con la conseguenza che se la condotta si esprime in manifestazioni sproporzionate di violenza o minaccia il fine perseguito assume i caratteri dell'ingiustizia e si ricade nell'ipotesi dell'estorsione.

Secondo la sentenza in esame il contrasto tra i due orientamenti è peraltro più apparente che reale. La Corte parte dalla premessa che la materialità dei due reati non sia esattamente sovrapponibile perché – mentre per l'ipotesi di cui all'art. 393 c.p. è sufficiente la violenza o minaccia alle persone (e in quella di cui all'art. 392 c.p. la violenza sulle cose) – soltanto nell'ipotesi dell'estorsione è necessario il verificarsi della costrizione sulla vittima.

Si rileva poi nella motivazione che, per entrambe le ipotesi di reato, è prevista l'aggravante dell'uso delle armi e ciò, secondo la Corte, incrinerebbe la costruzione del secondo orientamento ricordato non potendosi, in queste situazioni, non ritenere la condotta connotata da particolare gravità; carattere che dunque potrebbe connotare anche l'ipotesi di reato prevista dall'art. 393 c.p.

Con la conclusione che, a parte la non completa sovrapponibilità della condotta tipica, ciò che distingue in particolare i due reati è esclusivamente la diversa natura dell'elemento psicologico: nell'esercizio arbitrario l'agente ha il convincimento (anche se eventualmente infondato) di esercitare un suo diritto; nell'estorsione persegue un profitto consapevole della sua ingiustizia e questo reato si configura anche quando la pretesa sia solo parzialmente legittima.

La sentenza esamina poi alcuni precedenti di legittimità e vi trova conferma della tesi della natura apparente del contrasto perché, in tutti i casi presi in considerazione, anche se il principio affermato dai giudici di legittimità dedicava una particolare attenzione alla gravità delle violenze e minacce, in realtà ci si trovava in presenza di condotte dirette ad ottenere vantaggi ulteriori rispetto a quelli legittimamente vantati e non tutelabili giudizialmente anche agendo in danno di terzi estranei al rapporto obbligatorio.

Osservazioni

In alcune parti la sentenza in commento si rifà agli orientamenti tradizionali che richiamano, sul tema della distinzione tra esercizio arbitrario delle proprie ragioni ed estorsione, la diversa componente psicologica: convinzione, ancorché errata, di far valere una pretesa giudizialmente azionabile (nel primo caso) e inesistenza di questa possibilità di ricorrere al giudice (nel caso dell'estorsione). La giurisprudenza di legittimità è altresì uniforme, come si è già accennato, nel ritenere che non possa qualificarsi ai sensi dell'art. 393 c.p. la condotta di chi non si limita a pretendere quanto ritiene dovuto ma pretende, con minaccia o violenza, un dippiù non dovuto (tipico il caso del creditore che pretende interessi usurari).

Neppure formava oggetto di contrasti giurisprudenziali l'orientamento che conduceva ad una delimitazione soggettiva dell'ipotesi di esercizio arbitrario nel duplice senso che, salvo il caso di concorso nel reato proprio, solo il creditore poteva rispondere di questo reato (si veda Cass. pen., Sez. II, 3 novembre 2015 n. 46628), e che la violenza e minaccia poteva essere rivolta solo nei confronti del debitore e non verso terzi come forza di pressione volta a costringere il primo all'adempimento (così Cass. pen., Sez. II, 17 febbraio 2016 n. 11453, Guarnieri; Cass. pen., Sez. II, 28 ottobre 2015 n. 45300, Immordino, relativa al caso di minaccia di rivalersi nei confronti del padre del debitore).

L'affermazione di maggior rilievo contenuta nella sentenza in esame è invece costituita dalla netta affermazione della irrilevanza – ai fini della configurazione dell'uno o dell'altro reato – dell'intensità della violenza o della minaccia esercitate nei confronti del debitore. Questa conclusione è tratta, dai giudici di legittimità, dalla circostanza che l'aggravante dell'uso di armi (di qualsiasi genere, si precisa in motivazione) è prevista sia per l'estorsione che per l'esercizio arbitrario delle proprie ragioni; e come si potrebbe, si dice nella motivazione, collegare la distinzione tra le due ipotesi di reato all'esistenza di un elemento di natura oggettiva – l'intensità o la gravità della minaccia – visto che l'uso delle armi connota, in entrambi i casi, il fatto commesso di particolare gravità?

Questa affermazione vale a superare (definitivamente?) il contrario orientamento secondo cui la distinzione tra le due forme di reato si fondava, oltre che sull'elemento psicologico nei termini già richiamati, sul dato oggettivo della gravità della violenza o minaccia nel senso già indicato che una minaccia particolarmente grave od esorbitante configurerebbe l'ipotesi dell'estorsione anche in presenza dell'elemento psicologico costituito dall'esistenza di una volontà diretta a far valere un preteso diritto (in questo senso si vedano, tra le ultime, Cass. pen., Sez. II, 18 dicembre 2015 n. 1921, Li; Cass. pen., 8 ottobre 2015 n. 44657, Lupo; Cass. pen., Sez. II, 3 luglio 2015 n. 44476, Brudetti).

La sentenza in esame si rifà dunque al diverso orientamento (per il quale possono richiamarsi da ultimo Cass. pen., Sez. II, 30 settembre 2015 n. 42734, Capuozzo; cass. pen., Sez. II, 30 settembre 2015 n. 44674, Bonaccorso, in Cass.pen., 2016, 2857, con osservazioni di A. SILIBERTI; Cass. pen., Sez. II, 15 maggio 2015 n. 23765, Pellicori; Cass. pen., Sez. II, 10 giugno 2014 n. 24293, in Guida al diritto, 2014, fasc. n. 31, 58, con nota di G. AMATO, Sui rapporti esistenti tra le due fattispecie: un “vademecum dei giudici di legittimità) secondo il quale l'unico elemento che contraddistinguerebbe i due fatti tipici in esame sarebbe costituito dall'elemento psicologico e non dai fatti materiali che potrebbero essere anche coincidenti e comunque non potrebbero fondarsi su una mera valutazione di gravità.

Affermazione che peraltro non appare nuova nella giurisprudenza di legittimità perché già Cass. pen., Sez. II, 4 dicembre 2013 n. 51433, Fusco (in Guida al diritto, 2014, fasc. n. 14, 64, con nota di G. AMATO, Esclusa l'estorsione anche se la violenza risulta sproporzionata) aveva richiamato, a fondamento della irrilevanza della gravità di violenza e minaccia, proprio l'aggravante dell'uso di armi prevista per entrambi i reati; ed anzi aveva fondato la sua valutazione anche sul richiamo della giurisprudenza che ritiene che il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni può concorrere con un grave reato (quale quello del sequestro di persona: art. 605 c.p.) senza che, in tali ipotesi, venga automaticamente in considerazione la più grave ipotesi di reato del sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630 c.p.).

Guida all'approfondimento

Va fatta una premessa: credo sia indubitabile che l'elemento soggettivo richiesto per entrambe le forme di reato di cui abbiamo parlato abbia carattere di dolo intenzionale. Sia che l'agente intenda ottenere quanto ritiene a lui dovuto sia che intenda conseguire un profitto totalmente o parzialmente ingiusto la realizzazione dell'evento (costituita dal soddisfacimento della pretesa) costituisce la finalità immediata del suo agire e non la mera accettazione delle conseguenze della sua condotta (dolo diretto). Su questi problemi di carattere generale si rinvia, per una recente rielaborazione dei temi che riguardano il dolo, a G.P. DEMURO, Il dolo. II L'accertamento, Giuffrè, Milano, 2010 (v. in particolare p. 231 ss.).

Sul tema, in particolare, della distinzione tra le due forme di elemento soggettivo nell'esercizio arbitrario delle proprie ragioni – sia con violenza sulle cose (art. 392 c.p.) che con violenza o minaccia alle persone (art. 393 c.p.) – rispetto al delitto di estorsione, non sono numerosi i contributi dottrinali. A titolo di esempio possono consultarsi, oltre a quelli già citati, gli scritti di:

G. GIANNELLI e M.G. MAGLIE, Questioni in tema di rapina, estorsione, violenza privata ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone, in Riv.pen., 2014, 135;

A. LAURINO, Estorsione, ragion fattasi ed intensità della violenza nella giurisprudenza della suprema Corte, in Cass.pen., 2012, 3174;

P. SEMERARO, Profili dell'esercizio arbitrario delle proprie ragioni, ne L'indice penale, 2012, 243;

P. PITTARO, Quando la moglie impedisce al marito di incontrare il figlio al fine di indurlo a corrisponderle l'assegno di separazione, in Famiglia e diritto, 2010, 143;

M. MEUCCI, Dimissioni ottenute sotto minaccia di licenziamento e di denuncia penale: reato di estorsione o di esercizio arbitrario delle proprie ragioni ?, in Lavoro e previdenza oggi, 1997, 1263;

G.A. CONIGLIO, Sui criteri discretivi tra il delitto di estorsione e quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni ex art. 393 c.p., ne Il nuovo diritto, 1993,II,383;

G. BARBALINARDO, Brevi note in tema di rapporti fra esercizio arbitrario delle proprie ragioni ed estorsione e di concorso di persone a scopo di estorsione, in Giur.merito, 1989,II,958.

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