Montefibre II. I limiti di utilizzabilità del precedente acquisito ex art. 238-bis c.p.p. in relazione alla colpa “in senso soggettivo”

12 Giugno 2017

Con la pronuncia in commento la Cassazione affronta la possibilità di risolvere l'accertamento dell'elemento soggettivo colposo attraverso l'utilizzazione di una sentenza resa in un precedente giudizio che abbia acquisito lo status di certezza a seguito del passaggio in giudicato e che ...
Massima

In tema di acquisizione e utilizzazione di sentenze passate in giudicato ex art. 238-bis c.p.p., per assicurare che la valutazione dei fatti ivi accertati operata dal giudice ad quem secondo i canoni dell'art. 192, comma 3, c.p.p. non risulti meramente apparente, occorre identificare con la miglior precisione possibile i temi che il processo sottoposto al suo giudizio propone in modo esclusivo, tra i quali, non ultimo, l'elemento soggettivo colposo.

Il caso

Con la pronuncia in commento, resa nel processo c.d. Montefibre II, la Suprema Corte torna a occuparsi dei casi di malattie professionali asbesto-correlate occorse ad alcuni lavoratori impiegati presso lo stabilimento di Verbania Pallanza, contestati, ex artt. 589 e 590c.p., a una pluralità di imputati che avevano ricoperto le cariche di amministratori e direttori di stabilimento di Montefibre S.P.A. e della Società Italiana Nylon S.P.A. tra gli inizi degli anni '70 e la fine degli anni ‘80.

Per quanto si dirà oltre, è utile premettere una breve digressione e ricordare che nel procedimento Montefibre I – instaurato a carico degli stessi imputati in relazione a patologie patite da altri lavoratori del medesimo stabilimento – la Corte di cassazione aveva riconosciuto, con la sentenza n. 38991/2010, la penale responsabilità degli imputati in relazione ai soli casi di asbestosi, annullando con rinvio la sentenza di appello in relazione ai decessi dovuti a mesotelioma in ragione del vizio motivazionale circa la sussistenza di leggi scientifiche di copertura che permettessero di ricondurre tali decessi all'esposizione ad amianto.

Il rinvio aveva visto la Corte d'appello di Torino dichiarare l'assoluzione degli imputati in relazione ai casi rimessi al suo giudizio e la Corte di cassazione confermarne le statuizioni con la sentenza n. 32899/2013.

Tornando al procedimento Montefibre II – quindi accomunato al primo dalla sovrapponibilità delle contestazioni, eccezion fatta per l'identità dei singoli lavoratori persone offese e per l'assenza di casi di asbestosi – il tribunale di Verbania aveva mandato assolti tutti gli imputati, tanto con riguardo ai casi di carcinoma polmonare (non potendosi escludere, nei casi di specie, cause alternative nell'eziologia degli eventi), sia con riguardo ai casi di mesotelioma pleurico, ispessimenti e placche pleuriche (rispetto ai quali, in estrema sintesi, non era stato dimostrato in termini di certezza, stante la perdurante incertezza scientifica in materia, che la condotta di ciascun singolo imputato avesse rivestito un ruolo causalmente necessario ai fini della verificazione degli eventi contestati).

La decisione cui era pervenuto il giudice di primo grado prendeva le mosse dall'acquisizione ex art. 238-bis c.p.p. della prima sentenza della Corte di cassazione nel procedimento Montefibre I, n. 38991/2010, da cui desumeva, dandoli per accertati, alcuni aspetti del giudizio, considerati alla stregua di dati fattuali: a) la sussistenza delle posizioni di garanzia in capo agli imputati; b) le condizioni dell'ambiente di lavoro; c) la sussistenza dei ‘pilastri' della colpa - violazione delle norme cautelari, prevedibilità, prevenibilità; d) l'esistenza di conoscenze sulla pericolosità dell'amianto sin dagli anni '70.

La Corte d'appello di Torino, destinataria dei gravami del pubblico ministero e delle parti civili, ha quindi valorizzato la scelta di economia processuale operata dal primo giudice attraverso l'acquisizione della sentenza della Corte di cassazione nel procedimento Montefibre I, n. 38991/2010 ma, non condividendone gli approdi in tema di rapporto di causalità tra le malattie/morti e le condotte contestate, ne mutava l'esito, condannando gli imputati.

La questione

Sono numerosi gli spunti offerti dalla pronuncia resa dalla Suprema Corte in tema di nesso di causalità, di utilizzo del sapere scientifico e, quindi, di delimitazione del ruolo dell'organo giudicante rispetto agli apporti dei consulenti tecnici, nonché con riguardo alla natura omissiva o commissiva delle condotte contestate. D'altra parte, emergono anche tematiche di carattere più propriamente processuale, cui viene qui rivolta attenzione, quale, in particolare, la possibilità di risolvere l'accertamento dell'elemento soggettivo colposo attraverso l'utilizzazione di una sentenza resa in un precedente giudizio che abbia acquisito lo status di certezza a seguito del passaggio in giudicato e che sia stata acquisita in un successivo processo ex art. 238-bis c.p.p.

Le soluzioni giuridiche

La disposizione di cui all'art. 238-bis c.p.p. come noto, è volta a evitare che fatti già processualmente provati, perché statuiti in una decisione che ha raggiunto l'irrevocabilità, debbano essere nuovamente (e interamente) oggetto di prova in un altro procedimento al fine, perciò, di prevenire un possibile contrasto di giudicati.

La norma, prevedendo che le sentenze divenute irrevocabili possano essere acquisite ai fini della prova del fatto in esse accertato e siano valutate a norma degli articoli 187 e 192 c.p.p., è stata destinataria, sin dalla sua introduzione ad opera della l. 356/1992, di decise critiche per la problematica relazione intrattenuta con il principio di formazione della prova in contraddittorio, ricevendo definitiva approvazione solo a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 29/2009.

Il giudice delle leggi, infatti, ha rassicurato sulla coerenza costituzionale della disposizione affermando che il principio del contraddittorio trova il suo naturale momento di esplicazione non nell'atto dell'acquisizione ma in quello della utilizzazione/valutazione della sentenza acquisita da parte del giudice ricevente e che, considerata la stretta interdipendenza tra i due momenti, il contraddittorio assicurato dall'art. 238-bis c.p.p. al momento della valutazione riflette necessariamente i propri effetti anche sul momento acquisitivo.

L'acquisizione agli atti di un procedimento di sentenze irrevocabili rese aliunde non comporta, cioè, alcun automatismo nell'utilizzazione ai fini decisori dei fatti e dei relativi giudizi ivi contenuti: l'art. 238-bis c.p.p. si limita a regolare il modo di valutazione di quella peculiare prova (la sentenza irrevocabile) caratterizzata dall'essere comunque il risultato del giudizio liberamente formatosi in capo al primo giudice attraverso operazioni logiche di accertamento riservate al suo giudizio.

I capisaldi di un'interpretazione in grado di adeguare la norma al dettato costituzionale restano, perciò: a)la ridotta valenza probatoria del precedente che, essendo limitata ai fatti, non può assumere la portata di statuizione idonea a risolvere ogni aspetto del thema devoluto al giudice che del precedente dispone l'acquisizione; b) la libertà (rectius: il dovere) del giudice ricevente di apprezzare autonomamente quanto già aliunde accertato; c)il rispetto dei limiti esterni di natura valutativa imposti dalla norma attraverso il richiamo all'art. 192, comma 3, c. p.p. Così operando, il momento valutativo «in certa misura ripiega quanto non può esplicarsi già nel momento acquisitivo».

Tanto rammentato, la pronuncia in commento sottolinea, tuttavia, come possa risultare particolarmente intricato assicurare concretizzazione al dettato dell'art. 238-bis c.p.p. e, a tal fine, sottolinea la necessità di «identificare con la miglior precisione possibile i temi che il processo ad quem propone in modo esclusivo» in quanto «implicati dagli elementi di novità della contestazione».

La Corte di cassazione, infatti, dubitando che sia ragionevole pretendere che il giudice ad quem sia tenuto ad acquisire al dibattimento, nel contraddittorio delle parti, gli elementi di prova che confermino la veridicità dei fatti accertati nelle sentenze irrevocabili (come invece richiedeva lo stesso giudice di legittimità con la pronuncia n. 3396 del 2 marzo 1998), ritiene – con senso marcatamente realistico – che sia più adeguato allo scopo che il giudice ricevente concentri il proprio sforzo valutativo su quegli specifici aspetti della sentenza acquisita che maggiormente concorrono alla dimostrazione degli elementi di novità che caratterizzano la contestazione sottoposta al suo giudizio.

Tali considerazioni trovano la loro massima attuazione con riferimento all'accertamento dell'elemento soggettivo colposo in capo agli imputati. Afferma, infatti, la Corte come sia «la natura stessa del giudizio sulla colpa in senso soggettivo ad escludere che possa essere evitato di confrontarsi con la singola vicenda, per tale dovendosi intendere il singolo reato omicidiario o di lesione», ciascuno dei quali si caratterizza indubbiamente come un quid novi rispetto al primo giudizio.

A detta della Suprema Corte, invero, la Corte d'appello di Torino è incorsa in un evidente errore concettuale laddove ha preteso di inferire dall'accertamento della colpa in senso oggettivo (astrattamente rinvenibile dal precedente acquisito agli atti) anche l'accertamento della olpa in senso soggettivo.

Come infatti ricordato, accanto al profilo di colpa di carattere oggettivo-normativo – collocato sul piano della tipicità e incentrato sulla prevedibilità e prevenibilità dell'evento come canoni che permettono di identificare la violazione della regola cautelare e, conseguentemente, definire il comportamento doveroso – si pone la necessità di accertare (sotto il profilo della colpa in senso “soggettivo”) se nei confronti del singolo agente fosse concretamente possibile pretendere l'osservanza della regola stessa: breviter, l'esigibilità del comportamento dovuto.

Rispetto alla colpa in senso soggettivo occorre, quindi, misurare la prevedibilità e prevenibilità dell'evento nei confronti del singolo agente concreto, cioè a dire valutare le reali condizioni di operatività e comprendere se la violazione della regola cautelare fosse in concreto scusabile.

Si tratta cioè di comprendere con riguardo al singolo agente concreto se, rispetto alla violazione della regola cautelare, a costui si possa o meno riconoscere un'ignoranza scusabile e/o la possibilità di fare quanto sarebbe stato di sicuro effetto preventivo, con (a questo punto) l'ovvia conseguenza che si tratta di aspetti del giudizio che non possono essere ‘riprodotti' da pronunce rese in altri procedimenti.

La motivazione della sentenza resa dalla Corte d'appello di Torino, poggiando il proprio giudizio esclusivamente sul precedente di legittimità del 2010, risultava, invece, del tutto priva di qualsivoglia riferimento alle circostanze personalissime dei singoli imputati quali, ad esempio l'eccezionale brevità della carica ricoperta, l'impossibilità di ordinare la cessazione della produzione ovvero di disporre la bonifica degli impianti.

Tanto considerato, la Suprema Corte, ha recisamente cassato la sentenza d'appello ex art. 606, lett. e) c.p.p. posto che la violazione dell'art. 238-bis c.p.p., ancorché non implicante alcuna nullità o inutilizzabilità, è suscettibile di generare un vizio motivazione «ove concorra a delineare quei criteri di razionalità della decisione il cui rispetto è essenziale affinché la pronuncia di condanna sia rispettosa del canone di giudizio ogni oltre ragionevole dubbio».

Osservazioni

La pronuncia in commento si distingue per l'attenzione rivolta (attraverso il richiamo al rispetto della norma processuale) all'elemento soggettivo colposo che nei processi per malattie professionali asbesto-correlate risulta troppo spesso sovrapposti ai profili oggettivo-causali, provati i quali opera il non infrequente automatismo della responsabilità da posizione.

Guida all'approfondimento

CANTONE, L'art. 238-bis c.p.p.: strumento probatorio e mezzo per la risoluzione preventiva del contrasto tra giudicati, nota a Cassazione penale, 2 marzo 1998, n. 3396, sez. VI, in Cass. pen., fasc.10, 1999, 2890;

CORBO, I documenti, in Spangher (a cura di), Trattato di procedura penale, Milano, 2009, 375;

PARLATO, Acquisizione ai fini di prova di sentenze irrevocabili e utilizzazione delle risultanze dei fatti emergenti dalle motivazioni, in Cass. pen., 1996, 619;

ROMBI, Prova penale (circolazione della), in Enc. Giur., XXV, Roma, 2003, 13.

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