Le omissioni dei sanitari non escludono il nesso di causalità tra la condotta dell'omicida e l'evento morte

Giovanni Campese
15 Novembre 2016

In tema di omicidio doloso, le omissioni dei sanitari nelle successive terapie mediche non elidono il nesso di causalità tra la condotta lesiva posta in essere dall'agente e l'evento morte.
Massima

In tema di omicidio doloso, le omissioni dei sanitari nelle successive terapie mediche non elidono il nesso di causalità tra la condotta lesiva posta in essere dall'agente e l'evento morte.

Le eventuali negligenze dei sanitari non possono essere considerate cause sopravvenute da sole sufficienti a determinare l'evento, in quanto non sono completamente indipendenti dalla condotta dell'agente e non assumono i caratteri dell'assoluta anomalia, atipicità ed eccezionalità.

Il caso

Il dipendente di un ufficio postale uccideva la direttrice con numerosi colpi di pistola al volto, al torace e all'addome. Condannato per omicidio aggravato dalla premeditazione e dai futili motivi, proponeva ricorso per cassazione evidenziando che la causa scatenante dell'impulso omicida era stata la decisione della direttrice di trasferirlo dallo sportello “servizi finanziari” allo sportello “raccomandate”. Tale provvedimento era stato interpretato dall'uomo come l'ultima di una serie di vessazioni e umiliazioni subite nel luogo di lavoro ad opera della vittima.

Nel ricorso si contestava sia la sussistenza dell'aggravante della premeditazione e della futilità dei motivi, sia la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, sia l'insufficiente accertamento delle condizioni di imputabilità dell'agente.

Il ricorrente si doleva infine del fatto che i giudici di merito non avessero considerato la sussistenza di una causa sopravvenuta idonea da sola a determinare l'evento mortale. Poiché le ferite provocate dai colpi di pistola non avevano provocato immediatamente la morte della vittima, era seguito un intervento operatorio. Sarebbe stato il maldestro trattamento medico posto in essere dai sanitari dell'ospedale nel corso dell'intervento a provocare lo shock emorragico che aveva causato la morte della donna, sopraggiunta molte ore dopo i fatti.

La suprema Corte ha rigettato il ricorso, giudicando infondati tutti i motivi proposti dal ricorrente e confermando la sentenza di condanna pronunciata nel giudizio di appello.

La questione

I giudici di legittimità hanno nuovamente affrontato la questione se nel caso di lesioni personali dolosamente causate, cui faccia seguito la morte della vittima, il comportamento colposo dei sanitari nelle successive terapie possa o meno essere considerata causa autonoma e indipendente rispetto alla condotta dell'agente che, commettendo il fatto lesivo, abbia reso necessario l'intervento medico.

Le soluzioni giuridiche

La sentenza in commento fa proprio l'orientamento della giurisprudenza predominante, la quale esclude che la colpa dei medici, anche se grave, possa essere considerata causa autonoma e indipendente, sul rilievo che l'intervento dei sanitari non costituisce un fatto imprevedibile e atipico rispetto alla serie causale precedente, della quale rappresenta uno sviluppo evolutivo, pur se non indefettibile (v. Cass.pen., Sez. I, 9 ottobre 1995, n. 10815; Cass.pen., Sez. IV, 12 novembre 1997, n. 11779; Cass.pen., Sez. V, 22 marzo 2005, n. 17394; Cass.pen., Sez. V, 3 luglio 2012, n. 39389).

Può dunque dirsi che le modalità con le quali i sanitari operano, anche se connotate da colpa grave, non realizzano quella situazione di sufficienza della causa intervenuta a determinare l'evento, dalla quale il Legislatore fa dipendere l'esclusione del nesso di causalità.

Il principio è stato recentemente applicato a un caso di omicidio doloso da Cass.pen., Sez. I, 18 giugno 2015, n. 36724.

Va peraltro segnalato che, nella giurisprudenza di legittimità, vi è stata anche qualche pronuncia, piuttosto risalente nel tempo, la quale – in tema di lesioni o di omicidio colposi – ha riconosciuto alla colpa grave dei medici efficacia interruttiva del nesso causale tra la lesione e l'evento morte.

Così Cass. pen., Sez. V, 7 maggio 1982, Callisti, da una parte ha affermato che la mancanza di cure appropriate, dovuta ai sanitari o alla stessa persona offesa, non può ricondursi nella sfera delle cause sopravvenute, di cui al comma 2 dell'art. 41 c.p. e, quindi, non interrompe il rapporto di causalità tra la condotta dell'autore delle lesioni e l'aggravamento o il prolungamento della malattia. D'altra parte ha ammesso la possibilità che si produca l'interruzione del nesso causale quando l'inesatta diagnosi o la cura inadatta siano conseguenza di dolo o colpa grave del sanitario, il cui comportamento, quale causa autonoma e relativamente indipendente, assume funzione dominante nella produzione dell'evento.

Analogamente Cass. pen., Sez. V, 27 gennaio 1976, Nidini, ha ritenuto che il grave errore del medico (nella specie: erronea esecuzione di emotrasfusione derivante da errore nell'individuazione del gruppo sanguigno del paziente) avesse effetto interruttivo del nesso tra la preesistente condotta colposa di un'automobilista che aveva provocato un'incidente e il decesso della vittima. L'azione colposa del sanitario, pur inserendosi nella serie causale dipendente dalla condotta lesiva dell'automobilista, aveva agito per esclusiva forza propria nella determinazione dell'evento mortale; conseguentemente l'azione remota dell'agente, pur costituendo un antecedente necessario per l'efficacia delle cause sopravvenute, aveva assunto il ruolo non di causa, ma di semplice occasione.

Le cause sopravvenute che escludono il rapporto di causalità. Com'è noto, il comma 1 dell'art. 41 c.p. enuncia il principio c.d. condizionalistico o di equivalenza delle cause, secondo cui il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall'azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l'azione od omissione e l'evento.

Il successivo comma 2, onde attenuare il rigore di tale disposizione, prevede che le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità se sono state da sole sufficienti a determinare l'evento. Su questa base normativa dottrina e giurisprudenza hanno elaborato varie teorie, quali quelle della causalità adeguata, della causa efficiente, della causalità umana, del rischio.

Si è cercato così di individuare concretamente siffatte cause.

La pronuncia che si annota richiama al riguardo la consolidata giurisprudenza di legittimità, secondo la quale sono cause sopravvenute, da sole sufficienti a determinare l'evento, quelle del tutto indipendenti dalla condotta dell'imputato, sicché non possono essere considerate tali quelle che abbiano causato l'evento in sinergia con la condotta dell'imputato, atteso che, venendo a mancare una delle due, l'evento non si sarebbe verificato (v. Cass.pen., Sez. V, 26 gennaio 2010, n. 11954; Cass.pen., Sez. I, 18 giugno 2015, n. 36724).

Sono idonee a escludere il rapporto di causalità sia le cause sopravvenute che innescano un percorso causale completamente autonomo rispetto a quello determinato dall'agente, sia quelle che, pur inserite in un percorso causale ricollegato alla condotta (attiva od omissiva) dell'agente, si connotano per l'assoluta anomalia ed eccezionalità, sì da risultare imprevedibili in astratto e imprevedibili per l'agente (v. Cass.pen., Sez. IV, 21 giugno 2013, n. 43168; Cass.pen., Sez. I, 18 giugno 2015, n. 36724).

Pertanto hanno effetto interruttivo del nesso causale quelle sole cause che si inseriscono nella serie causale come un fattore non soltanto anomalo ma del tutto eccezionale e straordinario, in modo da dare vita a un decorso causale atipico, non prevedibile né controllabile da parte dell'agente che abbia già posto in essere una condizione necessaria dell'evento ai sensi dagli artt. 40 e 41 c.p.

La colpa medica di tipo omissivo. La sentenza in commento ribadisce poi un'ulteriore acquisizione della giurisprudenza di legittimità in tema di interruzione del nesso di causalità.

Ricorda infatti che le conclusioni appena esposte, relativamente alla condotta del sanitario quale causa sopravvenuta, sono ancora più ferme nel caso in cui la colpa medica sia di tipo omissivo.

Già Cass.pen., Sez. IV, 12 novembre 1997, n. 11779 aveva evidenziato che mentre è possibile escludere il nesso di causalità in ipotesi di colpa commissiva, in quanto il comportamento del medico può assumere i caratteri della atipicità, la catena causale resta invece integra allorquando vi siano state delle omissioni nelle terapie che dovevano essere praticate per prevenire complicanze, anche soltanto probabili, delle lesioni a seguito delle quali era sorta la necessità di cure mediche. Pertanto l'errore per omissione non può mai prescindere dall'evento che ha fatto sorgere l'“obbligo” delle prestazioni sanitarie. L'omissione, da sola, non può mai essere sufficiente a determinare l'evento proprio perché presuppone una situazione di necessità terapeutica che dura finché durano gli effetti dannosi dell'evento che ha dato origine alla catena causale.

Nello stesso senso si sono pronunciate anche Cass.pen., Sez. V, 22 marzo 2005, n. 17394 e Cass.pen., Sez. I, 18 giugno 2015, n. 36724.

Si conclude quindi che le modalità con cui il personale medico opera, anche se caratterizzate da colpa omissiva grave, non determinano una situazione di sufficienza della causa sopravvenuta a realizzare l'evento, tale per cui la stessa possa essere considerata interruttiva del nesso di causalità.

Osservazioni

L'esame delle pronunce, anche recenti, della Corte di cassazione in tema di cause sopravvenute consistenti in una condotta medica colposa consente di rilevare come il quadro giurisprudenziale presenti aspetti di particolare interesse con riferimento all'ipotesi in cui il sanitario successivamente intervenuto tenga una condotta caratterizzata da colpa grave.

Al riguardo è opportuno distinguere secondo che l'antecedente causale sia consistito in una condotta dolosa o colposa.

Nel caso di lesioni personali o di omicidio dolosi, la giurisprudenza di legittimità appare stabilizzata nel ritenere la successiva condotta colposa del medico, quantunque connotata da colpa grave, inidonea a interrompere il nesso di causalità.

Nel caso di lesioni o di omicidio colposi, invece, alcune pronunce hanno riconosciuto alla successiva colpa grave del sanitario una possibile rilevanza interruttiva.

A tale conclusione è giunta recentemente anche Cass.pen., Sez. IV, 5 maggio 2015, n. 33329 (v. NIZZA, Attività medica d'equipe: nesso di causa e responsabilità del primario), la quale ha espressamente condiviso l'orientamento della già citata Cass., Sez. V, 27 gennaio 1976, Nidini.

Questa recente pronuncia ha affermato che il fatto illecito altrui non esclude in radice l'imputazione dell'evento al primo agente, che avrà luogo fino a quando l'intervento del terzo, in relazione all'intero concreto decorso causale dalla condotta iniziale all'evento, non abbia soppiantato il rischio originario. L'imputazione non sarà invece esclusa quando l'evento risultante dal fatto del terzo possa dirsi realizzazione sinergica anche del rischio creato dal primo agente. Tale approccio è utile anche quando la condotta illecita ha già prodotto conseguenze lesive, ma esse vengono portate ad esiti ulteriori e più gravi da condizioni sopravvenute, che possono essere costituite da comportamenti umani o da fatti naturali.

Facendo applicazione di tali principi all'ipotesi in cui il fattore aggravante è costituito dall'errore terapeutico intervenuto nell'ambito dell'attività di cura, Cass.pen., Sez. IV, 5 maggio 2015, n. 33329, ha pertanto statuito che è configurabile l'interruzione del nesso causale tra condotta ed evento quando la causa sopravvenuta innesca un rischio nuovo e incommensurabile, del tutto incongruo rispetto al rischio originario attivato dalla prima condotta. La suprema Corte ha così escluso il nesso causale tra l'errore nell'originaria diagnosi dell'entità della patologia, dovuta al mancato espletamento dei necessari accertamenti strumentali, e il decesso del paziente, essendo stato l'evento letale determinato da un gravissimo errore dell'anestesista, qualificato dalla Corte come rischio nuovo e drammaticamente incommensurabile rispetto a quello innescato dalla prima condotta.

La “teoria del rischio” elaborata da questa pronuncia è stata successivamente richiamata da Cass. pen., Sez. IV, 29 gennaio 2016, n. 28246, la quale peraltro ha ritenuto che nel caso di specie l'errore medico non fosse stato tale da elidere il nesso di causalità tra l'evento morte e la condotta colposa di un automobilista che, in seguito a incidente stradale, aveva provocato lesioni alla persona offesa, essendo stata la condotta dei sanitari del tutto tipica e prevedibile.

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