Illegittimità costituzionale dell’art. 197-bis, commi 3 e 6 c.p.p., con riferimento all’assolto “perché il fatto non sussiste”

Carlotta Conti
16 Febbraio 2017

È costituzionalmente illegittimo, per contrasto con l'art. 3 Cost., il comma 6 dell'art. 197-bis c.p.p., nella parte in cui prevede l'applicazione della disposizione di cui all'art. 192, comma 3 c.p.p. anche per le dichiarazioni rese dalle persone, indicate al comma 1 dell'art. 197-bis c.p.p., nei cui confronti ...
Massima

È costituzionalmente illegittimo, per contrasto con l'art. 3 Cost., il comma 6 dell'art. 197-bis c.p.p., nella parte in cui prevede l'applicazione della disposizione di cui all'art. 192, comma 3 c.p.p. anche per le dichiarazioni rese dalle persone, indicate al comma 1 dell'art. 197-bis c.p.p., nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste, divenuta irrevocabile. La dichiarazione di illegittimità costituzionale va estesa, in via consequenziale, al comma 3 dell'art. 197-bis c.p.p. nella parte in cui prevede l'assistenza difensiva in favore delle medesime persone.

Il caso

La questione si è posta nell'ambito di un procedimento nei confronti di tre imputati rinviati a giudizio per il reato di cui all'art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, essendo state loro contestate plurime cessioni di hashish ad altra persona. Nel corso del dibattimento era stato sentito come testimone assistito un imputato assolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, giacché non era stato provato che la droga da lui acquistata non fosse stata presa per uso personale.

Il giudice a quo rilevava che nel processo a carico dei tre imputati l'accusa poggiava in maniera determinante proprio sulle dichiarazioni del testimone assistito, che aveva riferito dell'acquisto della sostanza stupefacente ed aveva effettuato un riconoscimento fotografico degli imputati.

Ebbene, la necessità dei riscontri per le dichiarazioni accusatorie ex art. 197-bis, comma 6 c.p.p. avrebbe potuto impedire la condanna in assenza di altri elementi di corroboration.

Il giudice rimettente aveva sottolineato che la denunciata illegittimità costituzionale riguardava anche l'assistenza del difensore prevista dall'art. 197-bis, comma 3, c.p.p., pur riconoscendo che la questione era superata nel processo a quo perché il testimone era stato sentito alla presenza del proprio avvocato. Nonostante ciò, auspicava una pronuncia unitaria che assimilasse in tutto la posizione dell'imputato connesso assolto perché il fatto non sussiste a quella dell'imputato connesso assolto per non aver commesso il fatto, in relazione al quale la Corte costituzionale, con sentenza n. 381 del 2006, aveva illo tempore dichiarato l'illegittimità dell'art. 197-bis, commi 3 e 6, c.p.p.

La questione

La questione in esame è la seguente: l'imputato connesso o collegato assolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste deve essere trattato come il testimone comune quanto all'obbligo dei riscontri ed all'assistenza difensiva?

Le soluzioni giuridiche

La Corte costituzionale ha accolto la questione sulla base della medesima ratio sottesa alla sentenza n. 381 del 2006, con la quale aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 197-bis, commi 3 e 6, c.p.p. nella parte in cui prevedevano l'assistenza difensiva e l'obbligo dei riscontri in relazione all'imputato assolto irrevocabilmente per non aver commesso il fatto.

Con tale decisione la Consulta – ribadendo, peraltro, quanto aveva già affermato nell'ordinanza n. 265 del 2004 (con la quale aveva dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 197-bis, comma 6, c.p.p. nella parte in cui si applicava all'imputato connesso concorrente che avesse patteggiato la pena) – aveva rilevato come la riforma del sistema probatorio, attuata con la legge n. 63/2001, avesse introdotto un principio di graduazione tra i dichiaranti. In particolare, il Legislatore aveva distinto le varie figure in base ai diversi “stati di relazione” rispetto ai fatti oggetto del procedimento, secondo una graduazione che, partendo dalla situazione di assoluta indifferenza propria del teste ordinario giungeva fino alla forma “estrema” di coinvolgimento, rappresentata dal concorso del dichiarante nel medesimo reato. Ad avviso della Corte, alla molteplicità di tali “stati di relazione” corrispondeva una “articolata scansione normativa”, relativa non soltanto alla varietà soggettiva dei dichiaranti, ma anche alle differenti modalità di assunzione della dichiarazione e, soprattutto, ai diversi effetti del dichiarato.

All'epoca, sulla base di tali considerazioni di principio la Corte aveva ritenuto irragionevole ed in contrasto con il principio di uguaglianza l'equiparazione delle dichiarazioni dell'imputato connesso o collegato assolto per non aver commesso il fatto a quelle rese dalle altre persone elencate all'art. 197-bis, comma 1, c.p.p.

Oggi, con la sentenza n. 21 del 2017, i giudici costituzionali sono pervenuti alle medesime conclusioni con riferimento all'assoluzione perché il fatto non sussiste, che costituisce una formula liberatoria nel merito di uguale ampiezza. Del resto, anche nel codice del 1930 gli imputati dello stesso reato o di un reato connesso, prosciolti o condannati, erano incompatibili come testimoni salvo che il proscioglimento fosse stato pronunciato in giudizio per non aver commesso il fatto o perché il fatto non sussiste (art. 348, comma 3, c.p.p. previgente).

A detta della Corte, nel sistema attuale, l'assoggettamento dei relata dell'assolto irrevocabile con formula ampia all'obbligo dei riscontri rende perenne una compromissione del valore probatorio delle relative dichiarazioni testimoniali e svilisce l'efficacia del giudicato di assoluzione. Come già sottolineato dalla Consulta con la sentenza n. 381 del 2006, la presunzione di minore attendibilità, scaturente dalla regola di valutazione probatoria tracciata dall'art. 197-bis, comma 6, c.p.p. risulta irragionevolmente discordante rispetto alle regulae iuris che presiedono, invece, alla valutazione giudiziale delle dichiarazioni rese dal teste ordinario; e ciò nonostante le tipologie di dichiaranti in comparazione risultino omogenee, in quanto connotate dalla comune peculiarità della condizione di assoluta indifferenza rispetto alla vicenda oggetto di giudizio: l'una sussistente ab origine, l'altra necessariamente sopravvenuta ed indotta dall'assoluzione divenuta irrevocabile.

Nella sentenza in commento, la Consulta ha rilevato poi come un'ulteriore situazione di contrasto con l'art. 3 Cost., per disparità di trattamento, derivasse dalla stessa sentenza n. 381 del 2006. Infatti, all'esito di tale declaratoria, il regime e il valore probatorio delle dichiarazioni dell'imputato connesso collegato risultava differenziato a seconda che l'assoluzione fosse stata pronunciata per non aver commesso il fatto o perché il fatto non sussiste, sia pure a fronte di esiti egualmente liberatori.

Sulla base di tali considerazioni, la Consulta ha così dichiarato l'illegittimità costituzionale, per contrasto con l'art. 3 Cost., del comma 6 dell'art. 197-bisc.p.p., nella parte in cui impone la presenza dei riscontri anche in relazione alle dichiarazioni rese dalle persone nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste divenuta irrevocabile.

La Corte ha poi esteso la declaratoria – in via consequenziale, ai sensi dell'art. 27 l. 87 del 1953 – all'art. 197-bis, comma 3, c.p.p. al fine di evitare che la testimonianza dell'imputato connesso o collegato poi assolto perché il fatto non sussiste, resti soggetta ad una modalità di assunzione della prova strettamente correlata, in un regime di testimonianza assistita, alla norma di cui viene dichiarata l'illegittimità costituzionale. Simul stabunt simul cadent le due disposizioni, anche perché il mantenimento dell'assistenza difensiva lascerebbe parzialmente in vita l'ingiustificata disparità di trattamento eliminata dalla decisione.

Osservazioni

Come si evince dal caso di specie, la questione scaturisce dalla forte esigenza di svincolare dalla necessità dei riscontri le dichiarazioni dell'imputato connesso o collegato assolto irrevocabilmente con la più ampia delle formule liberatorie. L'operatività di tale regola può risultare in concreto il discrimine tra condanna ed assoluzione qualora l'unica prova a carico sia costituita dalle accuse rese dalle persone de quibus.

Dalla lettura della sentenza emerge nitidamente che la Consulta impiega come tertium comparationis la figura del testimone comune. Ebbene, dal punto di vista tecnico-giuridico, occorre tenere presente che, all'esito della declaratoria, l'imputato connesso o collegato assolto irrevocabilmente perché il fatto non sussiste continua ad essere sentito ai sensi dell'art. 197-bis c.p.p., sia pure senza l'assistenza difensiva e senza che operi l'obbligo della corroboration. Pertanto, al dichiarante in parola resterà applicabile la garanzia della inutilizzabilità contra sedelle dichiarazioni in altri giudizi civili o amministrativi aventi ad oggetto gli stessi fatti (art. 197-bis, comma 5 c.p.p.) e la disciplina del privilegio contro l'autoincriminazione tracciata dall'art. 197-bis, comma 4, primo periodo c.p.p. Quest'ultima norma, in particolare, regola il privilegio degli imputati giudicati e riconosce la facoltà di non rispondere esclusivamente ai condannati che nel procedimento a loro carico siano rimasti in silenzio o si siano proclamati innocenti. L'assolto irrevocabile perché il fatto non sussiste è, dunque, un testimone garantito che rende dichiarazioni non soggette all'obbligo dei riscontri, in assenza del difensore, con il beneficio dell'inutilizzabilità contra se e senza alcuna possibilità di tacere sui fatti oggetto del giudicato.

Poiché non può darsi per scontata l'assenza di un interesse in causa per un dichiarante, che potrebbe essere stato assolto ad esempio in presenza di un quadro probatorio contraddittorio, per un verso, la disciplina dell'inutilizzabilità contra se nei giudizi civili o amministrativi può risultare estremamente utile, anche se non sufficiente a neutralizzare qualsivoglia pregiudizio possa derivare da dichiarazioni controproducenti; per un altro verso, l'obbligo di rispondere secondo verità sui fatti oggetto del giudicato fa sì che una eventuale reticenza o falsità – dovuta anche solo all'esigenza di tutelare il proprio buon nome – possa essere scusata ai sensi dell'art. 384, comma 1, c.p.

Sullo sfondo, merita ricordare che l'eliminazione dell'obbligo dei riscontri non svincola il giudice dalla necessità di valutare le dichiarazioni sulla base del canone dell'al di là del ragionevole dubbio.

Guida all'approfondimento

CONTI, Imputato assolto per non aver commesso il fatto: deve essere equiparato al testimone comune, in Dir. pen. proc., Ipsoa, Milano, 2007, pp. 318-324;
DI BITONTO, La Corte costituzionale riapre il dibattito sulla testimonianza assistita, in Cass. pen., 2007, 496;

MAZZA, Lo strano caso del testimone-imputato assolto per non aver commesso il fatto, in Giur. cost., 2006, 3981;

TONINI - CONTI, Il diritto delle prove penali, 2^ ed., ristampa aggiornata, Milano, 2014;

TONINI, Manuale di procedura penale, 17^ ed., Milano, 2016.

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