La retroattività delle “nuove” soglie di punibilità per la dichiarazione infedele e l’obbligatorietà della confisca per equivalente
18 Febbraio 2016
Massima
La modifica, ad opera del d.lgs. 158/2015, delle soglie di punibilità previste per il reato di dichiarazione infedele di cui all'art. 4, d.lgs. 74/2000 comporta una ipotesi di abolitio criminis parziale, rilevante ai sensi dell'art. 2, comma 2, c.p. Pertanto, nel caso in cui l'illecito contestato risulti inferiore nel quantum alla nuova soglia di punibilità, l'imputato dovrà essere assolto con la formula piena perché il fatto non sussiste, essendo venuto meno un elemento costitutivo del reato. La confisca di cui all'art. 322-ter c.p. opera in via obbligatoria, come desumibile sia dal dato testuale della norma sia dalla natura sanzionatoria di essa. Ne consegue che tale misura potrà essere disposta non solo in caso di condanna, ma anche in caso di applicazione della pena su richiesta ex art. 444 c.p.p., a nulla rilevando che essa non abbia costituito oggetto dell'accordo tra le parti. Il caso
Il caso sotteso alla pronuncia in esame è così riassumibile. Il tribunale di Pinerolo applicava a Tizio e Caia, ai sensi dell'art. 444 c.p.p., la pena, rispettivamente, di un anno e sette mesi di reclusione e di sei mesi di reclusione: al primo, quale titolare dell'impresa individuale, erano contestati i delitti di cui agli artt. 2 e 4, d.lgs., 10 marzo 2000, n. 74 e, ad entrambi, la fattispecie incriminatrice di cui all'art. 11 del decreto citato. Avverso tale sentenza, gli imputati proponevano separatamente ricorso per cassazione. Il primo profilo di censura, comune ad entrambi i ricorrenti, riguardava l'erronea applicazione degli artt. 129, 444 c.p.p., per non avere il tribunale accertato la mancanza di ogni responsabilità in capo agli imputati al fine della declaratoria ex art. 129 c.p.p. Il secondo profilo di censura, avanzato soltanto da Caia, verteva, invece, sull'erronea applicazione dell'art. 322-ter c.p., in quanto il giudice di prime cure avrebbe disposto la confisca per equivalente, previo sequestro, dei beni appartenenti ad entrambi i ricorrenti per un valore – per ciascuno di essi – corrispondente all'intero profitto del reato; il che, per l'effetto, avrebbe determinato una violazione dei principi di personalità e di proporzionalità della pena. La questione
Anzitutto, viene rilevata, da parte del supremo Collegio, la necessità di verificare se il fatto contestato a Tizio, titolare dell'impresa individuale, debba ancora ritenersi punibile alla luce dell'entrata in vigore, nelle more del giudizio di legittimità, del d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158 (Revisione del sistema sanzionatorio, in attuazione della l. 11 marzo 2014, n. 23, art. 8, comma 1) che ha apportato al contestato delitto di dichiarazione infedele modifiche alquanto significative, tra le quali spicca l'innalzamento delle soglie di punibilità. Con particolare riferimento alla doglianza proposta da entrambi i ricorrenti, si pone, in secondo luogo, la questione relativa ai presupposti applicativi della declaratoria di cui all'art. 129 c.p.p. Infine, i motivi di ricorso proposti da Caia offrono lo spunto per interrogarsi, pur sempre nel solco del diritto penale tributario, sulla natura e sulla sfera applicativa della confisca disciplinata dall'art. 322-ter c.p. Le “nuove” soglie di punibilità del reato di dichiarazione infedele. L'integrazione del reato previsto dall'art. 4 deld.lgs. 74 del 2000 richiede il superamento di due soglie che, a seguito dell'entrata in vigore d.lgs. 158/2015, sono attualmente così individuate: a) la prima relativa all'imposta evasa, che deve essere superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a euro centocinquantamila; b) la seconda riguardante gli elementi attivi sottratti all'imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi inesistenti», che devono essere superiori al dieci percento dell'ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione o, comunque ad euro tre milioni. Il superamento di entrambe le soglie continua ad essere richiesto in via cumulativa, fatta salva, per la seconda, la possibilità di essere integrata alternativamente attraverso il superamento del limite percentuale o di quello in valore assoluto. Con l'unica differenza – rispetto alla formulazione previgente – dell'innalzamento ad euro centocinquantamila della soglia rapportata all'imposta (in precedenza ammontante ad euro cinquantamila) e ad euro tre milioni di quella di valore assoluto (in precedenza di due milioni di euro), riducendo, per l'effetto, significativamente la sfera di applicazione della fattispecie incriminatrice in oggetto. Orbene, tale modifica realizza una chiara ipotesi di abolitio criminis parziale, con conseguente applicazione dell'art. 2, comma 2, c.p. Difatti, secondo l'opinione prevalente in dottrina – che ci pare preferibile – le soglie di punibilità vanno inquadrate, dal punto di vista dogmatico, nell'alveo degli elementi essenziali del reato, che in quanto tali devono essere rivestiti dal dolo. Nondimeno una parte della dottrina e della giurisprudenza di legittimità ha optato per la tesi delle condizioni obiettive di punibilità (cfr. sul punto, Cass. pen., Sez. III, 2 dicembre 2011, n. 5640; Cass. pen., Sez. III, 26 maggio 2011, n. 25213). Secondo questa diversa impostazione, nel caso di specie dovrebbe giungersi all'applicazione del disposto di cui al terzo comma dell'art. 2 c.p., in virtù dell'impossibilità di identificare un'ipotesi di abolitio criminis laddove la legge successiva modifichi semplicemente il quantum della causa di non punibilità, restando invariata la disapprovazione dell'ordinamento. L'impasse sembra, tuttavia, più apparente che reale, poiché, pur volendo sposare la seconda tesi, rimarrebbe comunque valida la conclusione a cui giunge la prima. Difatti, nella specie si tratterebbe, tutt'al più, di condizioni obbiettive di tipo intrinseco, in cui il fattore condizionante risulta incidente sul piano dell'offesa, al pari degli elementi costitutivi del reato che accentrano in sé l'intero disvalore del fatto. Pertanto, i fatti che si andranno a collocare al di sotto delle nuove soglie di punibilità non saranno più meritevoli di pena da parte dell'ordinamento, in quanto l'offesa dagli stessi arrecata al bene giuridico protetto appare inferiore a quella che giustifica l'intervento penale. La confisca per equivalente nel diritto penale tributario. Nel raggio d'azione della recente riforma legislativa attuata in materia di reati tributari vi rientra anche il tema della confisca per equivalente. Si tratta, in particolare, di modifiche che, seppur non incidenti sulle modalità operative dell'istituto, rappresentano, dal punto di vista sistematico, la risposta a quanti auspicavano una disposizione ad hoc, sulla falsariga di quanto l'art. 19, d.lgs. 231 del 2001 statuisce in materia di responsabilitàdegli enti. Eppure di tali novità, che meglio comprenderemo di seguito, la Cassazione non fa alcun cenno nella motivazione della sentenza in commento, perdendo così l'occasione di specificare espressamente la validità di alcuni principi elaborati dalla giurisprudenza ante riforma. In particolare, l'art. 1, comma 143, della l. 24 dicembre 2007, n. 244, che aveva esteso ai reati tributari l'istituto della confisca, anche per equivalente – stabilendo che nei casi di cui agli articoli 2, 3, 4, 5, 8, 10-bis, 10-ter, 10-quater e 11 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni di cui all'articolo 322-ter del codice penale – è stato abrogato dall'art. 14 del d.lgs. 158/2015, prevedendo, al contempo, all'art. 10 del medesimo decreto, un'autonoma e precisa disposizione normativa sulla confisca all'interno del d.lgs. 74/2000 e, precisamente, nel nuovo articolo 12-bis. In particolare, tale disposizione di legge amplia il campo applicativo dell'istituto a qualsiasi delitto previsto dal d.lgs. 74/2000 (comma primo) e stabilisce un meccanismo di inoperatività della misura per la parte che il contribuente si impegna a versare all'erario anche in presenza di sequestro, salvo il caso di mancato versamento. L'introduzione della confisca per equivalente in materia, dapprima con la legge 224 del 2007 (attraverso il rinvio all'art. 322-ter c.p.) e successivamente rafforzata dal d.lgs. 158/2015, è, senza dubbio, da salutare con favore, nella misura in cui ha consentito di superare l'ostacolo delle ipotesi in cui i vantaggi illeciti degli illeciti tributari sono costituiti da un risparmio di imposta che coincide con beni già presenti nel patrimonio del reo; tuttavia, la prassi applicativa (e il caso di specie ne è la prova) rivela i dubbi interpretativi che continuano a ruotare intorno alla figura di confisca in esame, a partire dalla sua natura giuridica. A tal proposito, l'orientamento predominante, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, ritiene che si tratti di una vera e propria sanzione penale e non di una misura di sicurezza patrimoniale come l'ipotesi contemplata dall'art. 240 c.p. Più nel dettaglio, i giudici di legittimità giustificano la natura sanzionatoria della confisca per equivalente (o di valore) disciplinata dall'art. 322-ter c.p., sulla scorta del fatto che, attraverso di essa, si intende privare l'autore del reato di un qualunque beneficio economico derivante dall'attività criminosa, di fronte all'impossibilità di aggredire l'oggetto direttamente ricavato dall'illecito; ciò, nella convinzione della capacità dissuasiva e disincentivante di tale strumento, che assume così i tratti distintivi di una vera e propria sanzione, non commisurata né alla colpevolezza dell'autore del reato, né alla gravità della condotta (cfr. ex plurimis, Cass., pen., Sez.un., 31 gennaio 2013, n. 18374; Cass. pen., Sez. III, 6 marzo 2014, n. 18311; Cass. pen., Sez. III, 27 febbraio 2013, n. 23649 e più di recente cfr. Cass. pen., Sez. un., 26 giugno 2015, n. 31617. In senso conforme, Corte cost., 2 aprile 2009, ord. n. 97 che – dichiarando la manifesta infondatezza di una questione di legittimità sollevata dal tribunale di Trento sulla retroattività della confisca per equivalente nei reati tributari – ha, per l'appunto, ritenuto che una confisca del genere sia da qualificare come sanzione penale e non già come misura di sicurezza alla quale si applica l'art. 200 c.p.). Il tipo di funzione assegnata alla figura di confisca in oggetto determina, altresì, il suo carattere obbligatorio, come si evince dal dato testuale dell'art. 322-ter c.p. secondo cui la confisca è sempre ordinata tanto in caso di condanna quanto in caso di patteggiamento, a nulla rilevando - come specificato dall'orientamento pressoché costante in giurisprudenza - che essa non abbia costituito oggetto dell'accordo tra le parti che possono prestare il loro consenso solamente sul trattamento sanzionatorio (cfr. Cass. pen., Sez. III, 3 luglio 2013, n. 37580; in senso difforme, Cass. pen., Sez. VI, 11 marzo 2010, n. 12508 secondo cui quando si procede per un reato che comporta la confisca di beni o valori, non può accogliersi la richiesta di applicazione della pena, formulata dalle parti ai sensi dell'art. 444 c.p.p., che non comprenda anche l'accordo sull'oggetto della confisca o comunque non consenta la determinazione certa di tale oggetto da parte del giudice). Quanto ai soggetti cui applicare la confisca per equivalente, anche con riferimento ai reati tributari, la giurisprudenza di legittimità ha precisato che, in caso di concorso di persone, la misura è applicabile nei confronti di tutti i concorrenti (cfr. Cass. pen., Sez III, 1 dicembre 2010, n. 662; Cass. pen., Sez. III, 11 aprile 2012, n. 24528, secondo cui nell'ipotesi di illecito commesso da una pluralità di soggetti, deve applicarsi il principio solidaristico che informa la disciplina del concorso di persone nel reato, implicante l'imputazione dell'intera azione delittuosa e dell'effetto conseguente in capo a ciascun concorrente, per cui la confisca per equivalente del profitto illecito può interessare indifferentemente ciascuno dei concorrenti per l'intera entità del profitto, non essendo esso ricollegato all'arricchimento personale di ciascuno dei correi, ma alla corresponsabilità di tutti nella commissione dell'illecito). Naturalmente, il provvedimento definitivo di confisca, rivestendo natura sanzionatoria, non potrà essere duplicato o comunque superare nel quantum l'ammontare dello stesso profitto (sul punto, cfr. da ultimo, Cass. pen., Sez. III, 12 maggio 2015, n. 27072). Con riguardo al rapporto tra tale misura e la definizione del debito tributario in sede amministrativa, va rilevato che il profitto suscettibile di confisca (e prima ancora, di sequestro) dovrà coincidere con l'ammontare dell'imposta evasa; con la conseguenza che il versamento all'Erario del debito tributario elimina del tutto l'oggetto sul quale dovrebbe incidere la confisca, altrimenti si realizzerebbe un'inammissibile duplicazione sanzionatoria (cfr. Cass. pen., Sez. III, 16 maggio 2010, n. 10120; Cass. pen., Sez. III, 23 ottobre 2012, n. 45847). Le soluzioni giuridiche
Con riguardo al ricorso presentato da Tizio, la Corte di Cassazione rileva che la dichiarazione infedele contestata all'imputato Tizio per gli anni di imposta 2006, 2007, 2008 e 2009 risulta inferiore nel quantum alla soglia di punibilità oggi vigente, come individuata dal decreto n. 158 citato.Di qui, l'annullamento della sentenza senza rinvio per insussistenza del fatto con trasmissione degli atti al tribunale di Torino quanto al residuo reato. Quanto al primo motivo di ricorso, comune ad entrambi gli imputati, i giudici di legittimità osservano come nella fattispecie non sia emerso alcun elemento probatorio idoneo alla richiesta di proscioglimento, rammentando come: la sentenza del giudice di merito che applichi la pena su richiesta delle parti può essere oggetto di controllo di legittimità, sotto il profilo della motivazione, soltanto se dal testo del provvedimento appaia evidente la sussistenza delle cause di non punibilità di cui all'art. 129 c.p.p. (da ultimo, Sez. 3, n. 27426 del 16/04/2014, Devicic, Rv. 259394); diversamente, il richiamo alla norma medesima (e ancor più, come nel caso in esame, il riferimento a precise risultanze istruttorie) è sufficiente a far ritenere che il giudice abbia verificato ed escluso la presenza di cause di proscioglimento, non occorrendo ulteriori e più analitiche disamine al riguardo (tra le altre, Sez. 2, n. 6455 del 17/11/2011, Alba, Rv. 252085). Parimenti inammissibile risulta, poi, il ricorso presentato dall'imputata Caia. Collocandosi nel solco dell'orientamento maggioritario in precedenza esaminato, la Corte conferma l'applicabilità della confisca per equivalente di cui all'art. 322-ter c.p. anche nei casi di applicazione della pena su richiesta ex art. 444 c.p.p., laddove – come nel caso di specie – la stessa non abbia costituito oggetto dell'accordo tra le parti. La conclusione è del tutto conforme al principio più volte formulato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui: la sentenza di patteggiamento è sentenza vincolata relativamente al solo profilo del trattamento sanzionatorio e non anche a quello relativo alla confisca, per il quale la discrezionalità del giudice si riespande come in una normale sentenza di condanna, sì che, ove accordo tra le parti su tale punto vi sia comunque stato, il giudice stesso non è obbligato a recepirlo o a recepirlo per intero (cfr. Sez. 2, n. 19945 del 19/04/2012, Toseroni, Rv. 252825). Né, infine, è necessario, per l'assenza di norme che dispongano in senso contrario, che la confisca per equivalente sia preceduta dal sequestro preventivo dei beni oggetto della stessa (Sez. 3, n. 17066 del 04/02/2013, Volpe e altri, Rv.255113), come ancora correttamente affermato dal Tribunale di Pinerolo nell'ordinanza qui impugnata (punto, peraltro, non controverso). Infine, i giudici di legittimità sottolineano che nelle ipotesi riguardanti i reati plurisoggettivi la confisca di valore può interessare indifferentemente ciascuno dei concorrenti, anche per l'intera entità del profitto accertato, purché il provvedimento definitivo di confisca non venga duplicato ovvero non superi l'ammontare complessivo dello stesso profitto. Pertanto, la questione sollevata da Caia potrà essere presentata, anche con specifico riguardo all'entità del profitto dalla stessa realizzato con l'illecito, al giudice dell'esecuzione. Alla luce delle ragioni sopra esposte, la Corte di cassazione annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di Tizio e limitatamente al reato di cui all'art. 4, d.lgs. 74/2000, perché il fatto non sussiste e, per l'effetto, annulla la decisione di patteggiamento, per lo stesso imputato, e dispone la trasmissione degli atti al tribunale di Torino. Dichiara, altresì, inammissibile il ricorso presentato da Caia e la condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende. Osservazioni
Al termine di questo breve excursus alcuni punti fermi dovrebbe risultare acquisiti. Anzitutto, viene confermata l'opinione prevalente della dottrina che assegna alle soglie di punibilità la natura di elementi costitutivi del reato. In secondo luogo, con specifico riguardo al delitto previsto dall'art. 4, d.lgs. 74/2000, non può revocarsi in dubbio l'applicazione retroattiva della nuova e più favorevole normativa nei procedimenti in corso, anche se definiti con sentenza di patteggiamento. Sicché le condotte di dichiarazione infedele potranno essere dichiarate insussistenti dal giudice d'appello o dalla Cassazione se:
ALDROVANDI, Commento alle modifiche apportate al d.lgs. 10.3.2000, n. 74 dal d.lgs. 24.9.2015, n. 158 (pubblicato in Supp. ordinario n. 55 alla Gazz. Uff. 7.10.2015, n. 233 ed entrato in vigore il 22.10.2015), in Appendice di aggiornamento on line al Codice penale d'impresa, a cura di A. Lanzi e G. Insolera, Roma, 2015; LANZI, ALDROVANDI, Diritto penale tributario, Padova, 2014, pp. 199 ss.; MANNA, Prime osservazioni sulla nuova riforma del diritto penale tributario, in Riv. trim. dir. pen. economia, 2000, p. 124 ss.; ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, I, III ed., Giuffrè, 2004, p. 57; SANTORIELLO, Confisca per equivalente e reati tributari: le prime indicazioni della giurisprudenza, in Fisco, 2009, II, pp. 234. |